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Ricordarsi del futuro: l’educazione all’intergenerazionalità

MARCO MILELLA
Articolo pubblicato nella sezione I tempi della quotidianità

Premessa

Esiste un ponte, apparentemente, ma solo apparentemente, paradossale tra la memoria e il tempo futuro. Un ponte proprio verso quel tempo, il futuro, che, per definizione, non si può ricordare, perché non è ancora avvenuto. A ben guardare, il futuro non si può “ricordare” solo se alla memoria si riconosce unicamente la funzione di registrazione degli eventi. Così, però, non è: la memoria degli uomini, oltre ad essere sempre anche ricostruttiva del passato è, nel presente, condizione imprescindibile per un’altra capacità tipicamente umana, quella di fare previsioni, di prefigurare. Colui, infatti, che è afflitto da amnesia non perde soltanto i ricordi, ma anche la possibilità di “muoversi”, con i suoi pensieri e le sue emozioni, attraverso i tempi che ha vissuto e che potrebbe vivere. Costui si sente isolato «in un singolo momento dell’esistenza … senza passato (e senza futuro), bloccato in un attimo sempre diverso e privo di senso» (Sacks 2001, p. 51).
Il rapporto tra le generazioni è collegato non solo con la memoria del futuro, ma anche con la condizione stessa di ogni rievocazione, ossia con il percepire il tempo come narrazione, come storia, nel caso di specie, come una “storia del futuro”. Una tale storia può essere considerata e valorizzata solo se ci si oppone, con tutte le forze, alla deprivazione della percezione e della concezione delle storie personali del, nel e per il presente. Sussiste un collegamento imprescindibile tra la capacità di formare a prefigurare e prevedere, la concretizzazione di tale capacità ed un rapporto formativo tra le generazioni. Cerchiamo, quindi, di procedere con ordine.


Continuità temporale, previsione ed immaginazione

Il rapporto tra le generazioni si estrinseca tra due nuclei tematici dinamici ed interagenti tra loro: l’identità personale, di gruppo e generazionale e la già citata memoria ricostruttiva e prefigurativa. L’identità è essenzialmente quella che vive nel tempo, quella che, attraverso la sua parte più evidente, la corporeità, cambia, muta ed invecchia. È la corporeità che dà un particolare significato al sentire e ri-sentire il tempo ed è quindi sempre la dimensione corporea quella che consente all’umanità di narrare e narrarsi, di percepirsi come identità riconoscibile, attraverso la narrazione (Ricoeur 2005). Ed è la memoria, che interagendo con altre memorie, consente il sorgere delle culture e dei processi di formazione, nonché la costruzione di un’identità che sia capace di riconoscersi attraversando il tempo e, quindi, nonostante i continui, incessanti e, nell’immediato, impercettibili ed inevitabili mutamenti.
Nello scorrere del tempo, la memoria ci consente una narrazione della nostra identità, un riconoscersi della persona che ha agito ieri, che sta vivendo oggi e che opererà domani. Questa persistenza è proprio il frutto della nostra memoria, è una sua “finzione”, nel senso di costruzione, di elaborazione emotiva e cognitiva che rende possibile integrare i tempi differenti delle nostre storie e le corrispondenti diverse parti di noi in un unico tempo, quello della continuità. In questo senso, la nostra identità viene ri-costruita, interamente, in ogni momento perché si tratta non di uno status, ma di un divenire che, però, è, spesso, percepito e vissuto come uno status. Ognuno di noi si ri-costruisce costantemente con una coerenza tale che non ce ne accorgiamo, tranne quando non riusciamo a ri-trovarci in quello che viviamo, non ci ri-specchiamo più in esso e, quindi, mettiamo in discussione – a volte anche in maniera feconda – la nostra identità.
La continuità del tempo è la prima e la più basilare conseguenza di tale “finzione” costruttiva: «il presente diviene di continuo passato, e intanto che lo scorriamo ci troviamo in un altro presente, consumato in una pianificazione del futuro che compiamo poggiando il piede sui gradini del passato. Il presente non è mai qui. Noi siamo irrimediabilmente in ritardo, per la coscienza» (Damasio 1995, p.326). La base di questa continuità è nella memoria, che, a sua volta, costituisce il presupposto per qualsiasi previsione. Già Kant sosteneva che le capacità di ricordare e di prevedere contribuiscono «a legare in una esperienza coerente ciò che non è più con ciò che non è ancora per mezzo di ciò che è presente» (Kant 2001, p.34).
Prevedere implica la formazione di un’abilità complessa: chi la esercita riesce a percepire nella realtà – tramite la continuità fornita dalla memoria – uno schema che non tutti gli altri intravvedono, una “logica” interna che già ha “visto” e conosciuto in passato, che può riconoscere nel presente e che può arrischiare, quasi scommettere pascalianamente, di ipotizzare per il futuro. Ed è, inoltre, capace di ricondurre il tutto a concatenazioni di relazioni e di azioni che trovano significato in un suo proprio panorama emotivo, cognitivo, mentale, insomma, esistenziale.
Per formare alla previsione – compito specifico dei rapporti tra le generazioni – si possono seguire alcuni passaggi graduali che ne danno una sorta di metodologia. La prima fase è costituita dal far proprie le informazioni, ossia dall’“incorporarle”, dal “simularle” dentro di sé (Gallese, Sinigaglia 2011), dal sentirsi parte di esse e capaci di mettere alla prova, del tempo, quelle che si “vedono” concatenate tra loro, per l’appunto, nel tempo. Tali informazioni non sono registrate passivamente dall’esterno, ma sono costruite, in un certo senso, create ad hoc dalla persona con le sue decisioni. Queste decisioni, non solo s’inseriscono nel flusso delle informazioni, ma modificano il loro contesto, lo plasmano e ne verificano la plausibilità, ossia confermano o non confermano ciò che ci si aspettava. Le informazioni, quando diventano decisioni personali, sono veramente apprese, in quel senso precipuo che considera l’apprendimento come un cambiamento ed un auto-cambiamento. Solo così possono veicolare “concezioni” che sono già previsioni, frutto di informazioni precedenti e che, a loro volta, producono altre informazioni. «Per produrre notizia di una differenza, cioè informazione, occorrono due entità (reali o immaginarie) tali che la differenza tra di esse possa essere immanente alla loro relazione reciproca; e il tutto deve essere tale che la notizia della loro differenza sia rappresentabile come differenza all’interno di una qualche entità elaboratrice di informazioni, ad esempio un cervello, o forse un calcolatore» (Bateson G. 1984, pp.96-97). In quest’ottica “informazione” è tutto ciò che è percepito come una “differenza” (quindi una relazione) che genera altre differenze (quindi altre relazioni).
Il secondo momento è quello di selezionare e porre in primo piano, sullo sfondo di altre che sono tralasciate, alcune informazioni e decisioni. La selezione delle informazioni avviene sulla base delle priorità con le quali percepiamo e concepiamo i tempi dell’esistenza che viviamo. Ciò che vogliamo ottenere è in relazione con la nostra concezione e percezione delle realtà che ci circondano, infatti le priorità ci orientano nel dare più o meno importanza agli eventi ed alle azioni nostre ed altrui.
La terza fase è quella che permette di immaginare il futuro, di vivere quell’intuizione che guida verso l’avvenire e che, essendo scaturita dai passaggi precedenti, permette di ricominciare il ciclo, cercando di imparare dal fluire del tempo, confrontando ciò che accade con le nostre previsioni. La possibilità di immaginare, partendo dal presente contingente, è direttamente proporzionale ad una sorta di bagaglio “enciclopedico” che ognuno si costruisce – volontariamente ed involontariamente – nel corso dell’esistenza. Ognuno, infatti, percepisce la realtà attraverso un filtro che è dato da un proprio retroterra di “letture pregresse” di essa. Quanto più ci si è formati e si è stati formati a fruire, nel modo più ampio possibile, del ventaglio interpretativo che le percezioni (e le concezioni) passate possono offrire, tanto più si è capaci di estrinsecare l’abilità di saper prevedere, di saper cogliere quei segni che fanno presagire un futuro da una certa percezione. Ovviamente questo “futuro” si può stagliare solo sullo sfondo di un “dialogo” con le concezioni che “accolgono” e mutano le percezioni, mentre da esse sono cambiate. Il futuro previsto sorge, così, come un insieme di “sentieri” che le cognizioni e le emozioni percorrono, cogliendo le differenze tra i diversi “bivi” che si prospettano e con le conseguenze diverse che derivano da ogni “svolta”, da ogni decisione.
Dal punto di vista formativo, si tratta di sollecitare le generazioni più anziane ad essere consapevoli dei propri vissuti, dei potenziali prefigurativi e dei “giacimenti” di previsioni “sedimentati” in esse. Tali potenziali si attualizzano se si esercitano nella vita personale ed in quella sociale, soprattutto interagendo con chi vive un’altra stagione della vita e “rappresenta” una messa alla prova – vivente – delle previsioni di chi è più avanti negli anni.
Per un percorso formativo, non è importante che l’anticipazione sia confermata, è invece imprescindibile che si riconosca la condizione umana di essere sempre in attesa del futuro; il che implica appunto il fare previsioni e, soprattutto, assumersi la responsabilità di esse.


Memorie del futuro

L’attesa, infatti, è «un tentativo di riempire il tempo scavalcandolo, introducendo il futuro nel presente» (Breznitz, 1994, p.122). Più si è in grado di fruire – ermeneuticamente – delle proprie anticipazioni, più si è capaci di riconoscere che esse fanno già parte delle nostre percezioni e concezioni. Percepire e concepire implicano anche un anticipare, sempre influenzato ed intriso dei nostri desideri e speranze. Il problema formativo è proprio quello di come orientare le nostre anticipazioni: anche esse, infatti, sono frutto degli “habitus” che pratichiamo. In ogni caso, l’esercizio formativo, che apre sempre nuovi orizzonti anche agli “habitus” più retrivi, è proprio quello di moltiplicare – anche solo con la fantasia – le possibilità di azione, di previsione e di narrazione. Esiste, infatti, una circolarità virtuosa, perché creativa, tra l’immaginazione e l’accrescere il numero delle possibilità di scegliere. Von Foerster considera un tale accrescimento un vero e proprio imperativo etico (Von Foerster 1987, p.233). Essere capaci di immaginare di più e meglio non serve a conoscere veramente il futuro in anticipo, ma consente di saper scegliere meglio nel presente, per costruire più consapevolmente il futuro.
Costruire il futuro significa diventare “esperto” di esso; ciò è possibile – come del resto anche il prefigurare – se non si perde la possibilità di fare esperienza del passato e del presente. Non si può dare, però, per scontato che siamo sempre capaci di fare esperienza, anzi, «ogni discorso sulla esperienza deve oggi partire dalla constatazione che essa non è più qualcosa che ci sia ancora dato di fare» (Agamben 2001, p.5). Anche la qualità dei rapporti umani e dei rapporti tra le generazioni si colloca all’interno del pericolo costante di distruzione dell’esperienza. «L’esperienza ha il suo necessario correlato […] nella parola e nel racconto» (ivi, p.6). Tale distruzione avviene ogni qual volta viene meno la condizione prima dell’esperienza: la sua verbalizzazione, ossia la possibilità di raccontare non lo straordinario, ma il quotidiano personale che diviene eccezionale ed unico in ogni relazione qualitativamente formativa.
L’espressione narrativa personale, unica ed originale è possibile solo attraverso una vera e propria “lotta” formativa contro l’omologazione, affinché ci si assuma la responsabilità del significato e del valore della propria storia soggettiva e dell’importanza che il raccontarla possa avere non solo per se stessi, ma per il messaggio che vuole lanciare agli altri, per confrontarsi con le storie degli altri. Il degrado dell’esperienza non coincide solo con il percepirsi senza aver nulla da raccontare, ma anche con il narrare tutti la stessa solita triste storia. Un’esistenza che è impedita o impedisce a se stessa di tradursi in esperienza risulta oltre che de-formata, anche disumanizzata.
Fare previsioni, infatti, implica l’immaginare, ossia un costruire immagini mentali di eventi ed esperienze future: in altri termini, si tratta di un vero e proprio processo di “montaggio” filmico di “scene”, di immagini mentali. Le ricerche neuroscientifiche sottolineano che, nel lavoro d’immaginazione, sono coinvolte aree che si trovano in zone diverse della corteccia cerebrale (Geake 2009) e che queste aree sono le stesse che si attivano quando percepiamo. Le immagini che riguardano qualcosa che non è ancora accaduto e potrebbe anche non accadere mai non sono di natura diversa da quelle che riguardano qualcosa che si è verificato: esse rappresentano, appunto, la memoria di un futuro possibile, anziché quella di un passato già trascorso. Damasio sostiene, a tale proposito, che la conoscenza necessaria per decidere e per continuare a conoscere emerge sotto forma di immagini: immagini percepite, che riguardano immagini formate nell’immediato ed immagini richiamate che comprendono quelle rievocate dal passato (Damasio 1995, pp.149-150).
L’immaginare si basa, quindi, anche su ciò che si percepisce e si è già percepito, mediante il ricordo – sempre ri-costruttivo – che abbiamo di esso. Addirittura lo stesso pensare – che è sempre un “pensare per storie” (Bateson, Bateson 1989) – è possibile proprio grazie alle analogie con le quali mettiamo in relazione il nostro passato ed il nostro futuro. Senza dimenticare che, tornando per un attimo alla questione dell’identità, anche la concezione di se stessi è sempre circolarmente connessa con l’immagine di sé e le relative immaginazioni su se stessi.
Per poter sopravvivere, gli uomini continuamente comparano ciò che sta accadendo loro, nel momento presente, con ciò che è accaduto loro, in passato (Hofstadter, Sander 2013). Senza la possibilità di riscontrare analogie, di fare comparazioni, di cogliere somiglianze e differenze, sarebbe impossibile, per l’umanità, uscire fuori dal caos dell’indifferenziato, dell’indistinto. Anche in questo senso, allora, si può ricordare che la prima operazione basica per osservare e conoscere è la distinzione (Maturana, Varela 1985, p.32).
In quest’ottica, formare a prevedere implica il diventare responsabili delle conseguenze prodotte, nel tempo, dalle azioni consapevoli, dai comportamenti anche inconsapevoli, dagli eventi e dall’intreccio di tutti questi fattori. Si può considerare questa responsabilità un’estensione di quella che, secondo alcuni studiosi, dobbiamo avere nei confronti dei prodotti della nostra percezione, della nostra concezione, nonché delle nostre attività cognitive (Maturana, Varela 1985; 1992; Maturana 1993), emotive e relazionali – in genere – che basiamo su di esse. Senza dimenticare che esercitare la capacità di prevedere ed essere responsabili delle conseguenze non cancella la loro imprevedibilità sostanziale.
Imparare a prevedere ha il proprio valore non in un concreto “sapere prima” (come attraverso una magica sfera di cristallo) ciò che succederà, ma nel farsi carico della condizione umana che vive di ciò che si aspetta, dei “mondi possibili” (Bruner 1988; 2002) che si potrebbero avverare o che si sarebbero potuto realizzare: l’umanità, insomma, vive anche e, a volte, soprattutto di “controfattualità” (Lewis 1986; Gopkin 2010; Calabresi 2013).
L’ambito più importante, però, nel quale va esercitata, dal punto di vista formativo, questo tipo di responsabilità è quello relazionale e, soprattutto nelle questioni intergenerazionali, tale dimensione si declina nella capacità di mettersi nei panni altrui. Diventare responsabili delle conseguenze delle proprie azioni e degli eventi, esercitare, sempre responsabilmente, la capacità di far previsioni non sarebbero attività possibili se non sussistesse una particolare modalità di rapporto tra gli umani che consente di strappare al caso la comprensione e l’interpretazione dell’agire umano, vivendolo – come confermano anche gli studi neuroscientifici (Rizzolatti, Sinigaglia 2006; Gallese 2013) – come se quell’agire fosse il nostro.


Paradossi e pregiudizi intergenerazionali

Secondo una percezione ed una concezione dell’età della vita collegata ad una memoria solamente ridotta a registrare ed eventualmente riprodurre, più si va avanti con l’età e più si avrebbe da ricordare del passato e meno da aspettarsi – e, quindi, “ricordare” – del futuro. Se, invece, come già accennato, la memoria è concepita anche come base per la previsione, in sintesi, più si ha da ricordare, più si può prefigurare e prevedere, anche al di là dei propri limiti temporali di esistenza. La capacità e la volontà di prevedere e costruire il futuro, infatti, non si ferma, per la specie umana, con la percezione dell’imminenza del termine della vita del singolo: al contrario il rapporto tra le generazioni spesso è stato ed è basato sull’idea che, nelle realizzazioni comuni, anche coloro che non ci sono più sopravvivono nelle iniziative create insieme da più generazioni e portate avanti da quelle che sopravvivono. Anche su questi presupposti si è sempre fondato il cosiddetto “patto tra le generazioni” di cui spesso si sente denunciare la crisi.
A tale proposito, va detto subito che, affinché un patto sia formativo, esso deve prima di tutto tendere ad essere leale, equo, giusto, ossia deve cercare di evitare tutti quei pericoli, anche subdoli, che rendano il patto stesso uno strumento di oppressione deformativa. Se si parte da un elemento basilare ed ineliminabile dei rapporti formativi tra le generazioni, come l’imitazione (Milella 2012), i rischi accennati divengono più evidenti. Tradizionalmente gli avi, i genitori sono stati modelli di imitazione e di identificazione per i più giovani. Tale identificazione si concretizzava anche nel fare propri i desideri dei progenitori, ossia nell’imitarli. Questa dinamica imitativa del desiderio è sempre stata collegata anche con l’insorgere di conflittualità violente, alle quali Girard ha dato il nome di “mimesi”, proprio per distinguerle dalla mera imitazione (Girard 1983, 2001). Soprattutto dall’adolescenza in poi, l’imitazione rischia di sfociare nel conflitto, perché le azioni e i comportamenti dei più giovani mettono più apertamente in discussione le scelte, le concezioni e le premesse delle decisioni dei più anziani. Fin qui, però, la situazione non è ancora pericolosa, il patto tra le generazioni può reggere, anzi si può dire che esiste per affrontare questo tipo di messa alla prova.
Il vero elemento di degenerazione del rapporto e quindi del patto tra le generazioni si può identificare a partire dalla de-responsabilizzazione di molti adulti, genitori, anziani che, di fronte ai più giovani, non riescono a confermare la direzione dei propri desideri ed indugiano nel diventare essi stessi imitatori dei desideri dei loro figli, nipoti, etc. Non è facile scoprire, quando si è coinvolti personalmente, che gli adulti, che i più anziani imitino i desideri dei più giovani, anche se, per esempio, nel mondo della pubblicità, questa dinamica è sotto gli occhi di tutti ed è ampiamente sfruttata. Non è facile perché spesso la condivisione di un desiderio viene considerato un sintomo di un buon rapporto, di un rapporto di sana prossimità tra le generazioni. Ed è effettivamente formativo che, ad esempio, un genitore senta le ansie, le preoccupazioni di un figlio come se fossero le proprie, ricordando, però, che non rende un buon servizio al più giovane se le fa diventare veramente le proprie. In questo caso, infatti, il più giovane si trova ad avere, sotto forma di un’inutile “vicinanza”, non soltanto i propri problemi non risolti e non presi in carico da chi dovrebbe e potrebbe farlo, ma addirittura vedrebbe i propri disagi appesantiti dai disagi pregressi delle generazioni precedenti.
Se non si distingue fra i desideri delle diverse generazioni e se non si previene la competizione violenta fra di esse, si penalizza e si discrimina la debolezza e la fragilità che sono trasversali a tutte le generazioni, perché si spezza la connessione – tipicamente formativa – tra il potere effettivo di aiutare a far crescere chi ci è affidato e la decisione responsabile e fattiva di impegnarsi a farlo. Tale decisione diviene concreta se si riesce ad apprendere ed ad insegnare che ogni aiuto nasce all’interno di un patto anche implicito, che per essere autentico non può prescindere da un percorso, da un processo di cambiamento e di crescita che coinvolga su piani sempre differenti e paralleli le generazioni coinvolte. Ed è proprio l’indistinto, l’indifferenza ad impedire questo passaggio tra piani diversi, ad ostacolare l’attraversamento formativo del tempo, tra le diverse età della vita (Guardini 1992).
La differenza, dunque, tra le generazioni può essere altamente formativa e, nello stesso tempo, può servire, paradossalmente, per segregare. Pensiamo alle differenze somatiche, a quelle di sesso e, infine, a quelle di età: ad un primo sguardo queste caratteristiche sono quelle che, proprio perché classificano – in maniera quasi “automatica” – l’altro, vengono più frequentemente usate anche per emarginare. La differenza d’età, dunque, può diventare, spesso, in maniera surrettizia, un elemento di discriminazione. Rispetto al razzismo ed alla diversità tra i sessi, il pregiudizio opprimente tra età diverse è più nascosto, meno appariscente, considerato ancora più “naturale”.
Soprattutto alle generazioni più anziane è chiesto di accettare passivamente di dare per scontato che la vita si appiattisca nell’inseguire unicamente – nei comportamenti, nei sentimenti e nelle emozioni – il modello giovanile. In ciò risiede il paradosso delle discriminazione dell’età. Infatti, tutte le alterità nascondono il timore per la diversità esterna, che è, invece, interna, ossia è paura di se stessi (Kristeva 1990). E se il sesso e il colore della pelle possono, di caso in caso, mantenere una costante alterità nella vita di un singolo uomo, di una singola donna e di una singola persona con certe caratteristiche somatiche, tutti, però, sentiamo gli effetti del passare del tempo e siamo soggetti all’invecchiamento. Persone di qualsiasi sesso e con qualsiasi caratteristiche somatiche sentono e vivono il passare del tempo in modo tale che, tranne una morte prematura, nulla impedisce che un giovane diventerà vecchio. Eppure la discriminazione culturale verso i più vecchi – che, in questo caso, se così si può dire, è ancora più infondata – si diffonde e prospera, quasi che i più giovani, “allontanando” da sé il pensiero della vecchiaia possano procrastinare ed esorcizzare la morte, che ai vecchi, invece, viene, ingiustamente, associata.
Proprio, da un punto di vista formativo, si richiede un cambiamento di tendenza che riguardi i rapporti tra le generazioni. Il punto di incontro tra le età della vita può essere – nella valorizzazione reciproca delle differenze – la capacità di apprendere a orientare i propri desideri e a prendere decisioni responsabili verso il futuro. Tale capacità muta, ma si può evolvere in tutte le età: la neuroplasticità del cervello dimostra che esso si trasforma sempre in base alle azioni ed ai comportamenti adottati e che questi ultimi sono in grado di modificarsi anche nelle età senili (Goldberg 2005). In quest’ottica, bisogna impegnarsi affinché tutte le generazioni imparino e continuino ad apprendere per tutta la vita a prevedere, a prefigurare e gli anziani imparino a fruire ed a mettere a disposizione il loro bagaglio di vissuti. Questo bagaglio diviene unico e prezioso se lo si intende come serbatoio inesauribile di “mondi possibili”, indispensabile per costruire il futuro, generandolo e divenendone, di giorno in giorno, i primi e i più originali “esploratori”. Perciò proprio “i vecchi dovrebbero essere esploratori” (Eliot 2000), poiché i processi formativi hanno bisogno di loro e delle loro ricognizioni.


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