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Dimore provvisorie: il tempo sospeso dei migranti

ROBERTO GATTI
Articolo pubblicato nella sezione Tempo, storia e politica

1. Per dare ragione del titolo si possono mettere al centro della nostra riflessione due termini, quello di “cittadinanza” e quello di “cultura”.
Inizio, quindi, con due succinte definizioni bipartite dell’uno e dell’altro. Delle due parti in cui ognuna è divisa assumo la seconda come linea-guida di questo articolo.
-Cittadinanza:
a) garanzia di alcuni diritti fondamentali che attestano l’appartenenza politico-giuridica a una società politica determinata;
b) appartenenza a una comunità - nella modernità, la nazione - che condivide un ricco insieme di pratiche di vita, princìpi di condotta, tradizioni, che costituiscono l’identità, storicamente sempre in evoluzione ma fortemente riconoscibile quanto ai suoi tratti essenziali, di un popolo. È “storicamente generata in base a una doppia codificazione; per un verso, è lo statuto definito dai diritti del cittadino e, per l’altro, è l’appartenenza alla cultura di un popolo”(Gomarasca).
-Cultura:
a) ogni creazione umana che in qualche modo si distacchi da un presunto dato “naturale”;
b) in stretto collegamento con supra, punto b, è definibile, altresì, come l’insieme di usi, costumi, produzioni artistiche, credenze e valori da situare in stretto rapporto con la nazione, intesa quale “comunità intergenerazionale, più o meno istituzionalmente completa, che occupa un certo territorio o patria, e condivide una lingua e una storia distinte”(Kimlycka). Will Kymlicka invita a denominarla “cultura sociale», termine che, pur nella sua abbastanza evidente genericità semantica, mi pare preferibile ad altri, come ad esempio “cultura pervasiva”usato da Margalit e Raz. Dworkin parla di “un vocabolario comune di tradizioni e consuetudini”che, solo, può dare senso alle scelte che compiamo nella nostra vita in società; vi connette una componente morale, cioè il “dovere, per una semplice questione di giustizia, di lasciare quella struttura almeno altrettanto ricca di quando l’abbiamo trovata». Ovviamente la “cultura sociale”è sempre in sviluppo, giacché risulta il frutto d’influenze, di condizioni, di apporti diversi che emergono nel tempo e nel tempo mutano e/o scompaiono. Costituisce un composto solo relativamente unitario, contraddistinto da un’elevata dose di variabilità in senso diacronico e da un’articolazione interna in senso sincronico che permette un notevole grado di interazione con altre culture. Ma l’alto grado di dinamicità non impedisce di parlare di un’identità culturale per quanto riguarda singole nazioni e/o anche entità politiche sovranazionali, come ad esempio l’Europa. Contrariamente a quanto sostiene Waldron, non sembra esistere, salvo casi che oggi non sono certo maggioritari, alcun nesso significativo tra “volontà di mantenere una cultura sociale distinta”, da un lato, e, dall’altro, la “volontà di isolamento” da parte di questa cultura rispetto alle altre.

2. La cittadinanza, in società multiculturali e/o interculturali, dovrebbe rendersi concreta attraverso la garanzia dei diritti civili, politici e sociali previsti dalle costituzioni liberal-democratiche, congiunta alla promozione di diritti “specificati” a tutela e nel rispetto di alcuni princìpi e pratiche salienti propri dei diversi gruppi minoritari. Ma il godimento di questa cittadinanza, con cui si cerca di assicurare contemporaneamente uguaglianza e differenza, richiede di pagare un prezzo: “cultura sociale” e cittadinanza tendono a scindersi l’una dall’altra. La cittadinanza delle nostre democrazie è compatibile e coerente con la cultura, pur sempre in mutamento e mai statica (mai cioè “struttura”, come la definisce impropriamente Dworkin), dei membri nativi, cioè con la cultura liberale e democratica dell’Occidente, che è ovviamente diversificata al suo interno, ma abbastanza compatta quanto ai suoi princìpi e orientamenti di fondo. È compatibile e coerente, ma, come ben vediamo, sempre meno sentita e sempre meno vissuta intimamente dai membri delle nostre società. Non insisto su questo tema, mentre vorrei concentrarmi su quello che più c’interessa, cioè la condizione degli immigrati nelle nostre città e, in generale, nei nostri Paesi. Per quanto li riguarda, s’impone loro la necessità di separare la cittadinanza che acquisiscono nelle società ospitanti e la “cultura sociale” che invece portano con sé da lontano. Mi pare che si possano indicare, in generale, tre possibilità:
a) Il loro retaggio culturale può essere volontariamente abbandonato e sostituito da un’integrazione che si sviluppa nel tempo e che plasma una nuova identità, non tanto per gli immigrati di prima generazione ma per i loro figli e discendenti (solo loro, in fin dei conti, saranno cittadini a pieno titolo della nuova terra). Però, il fatto cruciale è che, il più delle volte (vedi il modello francese), di volontario c’è poco, giacché le persone sono obbligate a questa omologazione dal sistema giuridico del paese ospitante. Tornerò più avanti su quest’aspetto.
b) Può divenire parte di un processo di apprendimento reciproco in cui dovrebbero emergere le potenzialità, per ora più teoriche che pratiche, dell’interculturalità, cioè del dialogo tra le culture. Alla pluralità di appartenenze culturali che puntano a garantire la loro integrità immunizzando i possibili pericoli del “contagio” con la cultura dominante e/o comunque con altre culture - che è uno dei rischi di un multiculturalismo radicalizzato - si sostituisce, nel modello interculturale, almeno in linea di principio, una sorta di sfaccettata società dialogante nella quale l’arricchimento dovrebbe essere vicendevole e in cui anche la cultura prevalente potrebbe trarre vantaggi ai fini della sua autoriflessione critica. In alcune realtà urbane e soprattutto in alcune scuole italiane ciò in parte già accade, ma moltissimo c’è ancora da fare.
c) Oppure può darsi anche il caso che una o più culture di cui sono portatori gli immigrati si chiudano in se stesse con l’obiettivo di mantenere la propria “purezza” puntando a diventare vere e proprie “minoranze culturali”, talvolta pacifiche, qualche altra volta meno (o per nulla). Ma, come detto, non sembra trattarsi di casi dominanti (il che non vuol dire che non siano talvolta motivo di seria preoccupazione)
Conosciamo bene queste alternative. Ma:
a 1) Nel primo caso è evidente l’esito omologante; per quanto volontaria sia, l’omologazione resta tale e, dato il crescente tasso di spostamento dai paesi poveri a quelli ricchi, questo si concretizza nell’indebolimento di un numero notevole di culture che hanno caratterizzato la storia del mondo fino a oggi, anche perché è forte l’influenza degli immigrati “assimilati” su chi resta nel paese d’origine. Chi sostiene questo modello sottovaluta spesso il desiderio degli immigrati di restare nelle loro “culture sociali” e considera la volontà di acquisire un mimino di benessere materiale come ragion sufficiente per la rinuncia alle radici, senza dare il giusto valore alla considerazione che, come anche Rawls ha riconosciuto, tali radici “sono normalmente troppo forti per potervi rinunciare”.
b 1) Nel secondo caso, per molti aspetti il più promettente, dal dialogo può generarsi un interscambio fecondo in cui ogni soggetto partecipante, individuale o collettivo, trarrebbe il vantaggio di un allargamento, se non di una “fusione”, degli “orizzonti”. Ma vediamo ogni giorno quanto questo dialogo sia in alcuni casi arduo, in altri impossibile, in tutti ancora povero di strumenti e canali adatti. La conseguenza è che per ora nelle nostre città regna un disordinato (anche se in molti casi, come nella scuola, ricco di fervore) intersecarsi di posizioni, di iniziative, di intuizioni, di regole dalle quali è arduo partire per tracciare un quadro coerente. Diciamo che domina una sensibile confusione degli orizzonti segnata da un forte eclettismo che ha come parola d’ordine la “contaminazione”, la “doppia inclusione” e simili, che fanno assomigliare culturalmente il cittadino a un “nomade” (Gomarasca). Nella misura in cui questo nomadismo esprime la ricerca comune di punti d’incontro lungo un percorso privo ormai delle segnaletiche tradizionali, può essere anche un fatto positivo. Eppure un nomadismo perenne, mi pare, lo è molto meno. L’idea del “meticciato” copre spesso la realtà di un disorientamento esistenziale e sociale di cui non sottovaluterei lo spessore e la durezza.
c 1) Nel terzo caso non è detto che l’esito sia il conflitto tra culture portate dagli immigrati e la cultura maggioritaria, conflitto di cui abbiamo sperimentato anche alcuni effetti particolarmente devastanti. Può essere, invece, un modo per tutelare, anche con appositi interventi pubblici e accorgimenti giuridici, l’integrità di quelle culture, nella misura in cui il loro intento sia la convivenza “ragionevole” (Rawls) e pacifica delle differenze. Ma resta il pericolo, quanto mai incombente, di una sorta di schizofrenia dell’appartenenza, scissa tra l’accettazione dei diritti dell’uguale cittadinanza a livello formale e l’adesione a un universo di tradizioni, costumi, mentalità, princìpi, che non di rado sono difficilmente compatibili con quei diritti e che rimangono, comunque, in una posizione defilata e secondaria rispetto al livello strettamente giuridico. Il riconoscimento legale funziona, quello culturale molto meno.

3. Proviamo ora ad allargare il campo. Mi chiedo come si possa dimenticare o sottovalutare il fatto che, salvo il caso dell’assimiliazionismo (la prima ipotesi qui abbozzata), la convivenza in una società multiculturale comporta necessariamente l’adozione di un’idea e di una prassi della cittadinanza fortemente contrassegnate in senso procedurale, cioè strutturate intorno alla garanzia dei diritti, universali o particolari che siano. Intendo dire che la cittadinanza perde, forzatamente (altrimenti il multiculturalismo e l’interculturalità non potrebbero funzionare), quel comune retroterra valoriale, quel supporto di tradizioni, quell’esercizio di pratiche nella vita quotidiana che durante gli ultimi due secoli almeno l’hanno fondata e caratterizzata.
Il nesso tra “cultura sociale” e cittadinanza si deve, almeno in gran parte, recidere se si vuole che, entro una stessa appartenenza politica e giuridica, sia ospitata e abbia modo di esprimersi anche la differenza culturale. Detto in altro modo: l’appartenenza politica e giuridica tende forzatamente ad autonomizzarsi rispetto alle fedeltà religiose, morali, spirituali, costumali di questo o di quell’altro gruppo. Di “comune” rimane il Giusto che garantisce il rispetto dei diritti, mentre il Bene è non-comune e prevalentemente (anche se non sempre esclusivamente) collocato nella sfera privata e nella “società civile” con le sue variegate soggettività e con i suoi variopinti look nel campo degli imperativi morali. Certo, uno Stato che decide di sostenere, con politiche pubbliche, le differenze culturali esprime una scelta morale e quindi la sua politica mantiene un qualche rapporto con il Bene. Ma questo rapporto ha ben poco a che vedere con quel nesso tra “cultura sociale” e cittadinanza che caratterizzava lo Stato-nazione. Non discuto, per ora, se il modello dello Stato-nazione sia da considerare o meno un relitto del passato. Mi limito a registrare un’evidente diversità storica, giuridica, politica rispetto al passato, che è poi non solo un passato abbastanza recente ma un passato che conta, e conta parecchio, nella misura in cui la presa di distanza da esso ci porta a restringere il bene comune alla sua dimensione procedurale.
Vorrei provare ora ad approfondire quest’aspetto in una direzione non del tutto consueta. In fin dei conti, sfrondando l’intricata e ormai ridondante disputa tra “liberali” e “comunitari”, si potrebbe anche sostenere che uno Stato ospitale nei confronti delle differenze espresse dalle “culture sociali”, non fa propria una concezione del bene, ma pone alcune condizioni basilari per l’uguaglianza di tali differenze conservando, rispetto a ciascuna di esse, la propria neutralità. Quest’ultima non è violata dalla scelta di tutelare le differenze, se la tutela è realmente imparziale e non discrimina l’una o l’altra differenza. Ciò è vero nella misura in cui l’obiettivo da raggiungere è, almeno tendenzialmente, l’uguale condizione di tutti i soggetti, nonché di tutte le concezioni della vita e del mondo che si trovano a dover convivere. La logica è assimilabile a quella dello Stato sociale di diritto, che anche la maggior parte dei liberali, salvo i liberal-liberisti più accaniti, accetta senza particolari difficoltà. Tale logica impone che, fino a quando le difficoltà che penalizzano una classe sociale o, in questo caso, un gruppo culturale persistono, è dovere dello Stato intervenire per costituire o ri-costituire una situazione di almeno relativa uguaglianza ed equità. Almeno in linea di principio, l’intervento è di natura transitoria e non definitiva. Raggiunto l’obiettivo, che è nel nostro caso la capacità dei gruppi culturali di mantenersi in modo autonomo, esso deve aver termine: l’eccezione alla neutralità si giustifica in nome della possibilità di restaurarla quando le circostanze lo renderanno fattibile. Nemmeno l’attribuzione di diritti a gruppi accanto agli individui muta il quadro, se è vero che non si tratta di una novità nella vicenda del liberalismo.
Ma non intendo qui estendere oltre l’analisi di questi due punti. Li segnalo perché mi pare, com’è stato d’altra parte ormai più volte osservato, che la distanza tra liberali e comunitari sul rapporto tra Giusto e Bene nello Stato democratico-liberale di diritto è parecchio meno dirompente di quanto ad alcuni (compreso, almeno in parte, chi scrive) è sembrato per un certo tempo.

4. Coinvolti in questo insieme di problemi e di possibili scelte, siamo chiamati a fare i conti con alcune alternative che segnalo rapidamente, attraverso una sola, schematica esemplificazione.
Molti denunciano l’anomia crescente delle nostre società, la mancanza di solidarietà, la dispersione atomistica, ecc.; e cercano, giustamente, soluzioni. Allo stesso tempo, intendono promuovere il multiculturalismo e/o l’interculturalità. Ma, se è vero quanto evidenziato sin qui, ne risulta che sostenere questi due obiettivi insieme appare, almeno in parte, contraddittorio. La convivenza delle differenze, richiedendo una teoria e una prassi leggere della cittadinanza, allenta il nodo della coesione sociale, nella misura in cui l’essere cittadini non coinvolge più quello sfondo di “cultura sociale” che dava tradizionalmente forza e stabilità alla cittadinanza. Si dirà che l’evaporazione dei contenuti “forti” della cittadinanza ha altre, e forse più consistenti, motivazioni. Ed è innegabile. Resta comunque che tra di esse c’è anche quella cui ho fatto riferimento e che qui c’interessa direttamente. Multiculturalismo e/o interculturalità mantengono e rispettano, per quanto possibile e pur in gradi diversi, la coesione interna dei gruppi culturali differenti. Però indeboliscono la coesione collettiva, visto che ci portano a riconoscerci cittadini attraverso l’elisione di tutto quanto attribuiva vigore alla cittadinanza comune nella forma che ha assunto entro lo Stato-nazione.
Breve inciso: alcuni affermano che l’interculturalità, accentuando almeno nelle intenzioni il ruolo del confronto tra differenze piuttosto che quello dell’identità settoriale di ciascuna, evita l’esito di alcune forme di multiculturalismo, che è di “murare” la differenza e di trasformarla in un’occasione di conflitto e incomunicabilità. Ammettiamo che sia così, ma per quanto concerne lo statuto della cittadinanza, non mi pare che la sostanza cambi rispetto al multiculturalismo. Infatti, in entrambi i casi perde la sua sostanza culturale e morale, il suo ethos, a tutto favore di un modo di concepirla e di attuarla che ci fa guadagnare in universalità ciò che perdiamo in concretezza storica, in memoria collettiva, in riconoscimento reciproco entro un contesto di valori e di pratiche di vita largamente condiviso. Chiuso l’inciso.
È superfluo osservare che nessuna “cultura sociale” è mai stata oggetto di condivisione da parte di tutti i cittadini -anche perché le culture sociali cambiano nel tempo e richiedono continui adattamenti nel e del senso comune. Ma per un lungo periodo storico lo è stata abbastanza da consentire ai membri di una comunità nazionale di riconoscersene soggetti effettivi e attivi.

5. Arrivo al punto, che non vuol essere per niente conclusivo, ma - come per tutto quanto detto sin qui - intende solo costituire l’invito a un confronto che ci aiuti a sciogliere i nodi che si sono creati e che qualche volta noi stessi abbiamo contribuito a stringere più che ad allentare. Tale confronto dovrebbe avere come obiettivo di chiarire quella che, a mio avviso, dovrebbe essere la forma mentis dei governanti e dei cittadini dei paesi ospitanti nei confronti degli immigrati.
Presa questa via, mi pare non possa non subentrare la sensazione di un notevole disorientamento. Infatti, comunque impostiamo il problema e ci misuriamo con i “modelli” in precedenza proposti (assimilazionista, multiculturale, interculturale), il risultato appare non soddisfacente. C’è sempre un residuo che ci fa sentire il peso di un debito teorico che non consente di chiudere il cerchio del ragionamento in modo convincente. Il motivo mi sembra consistere nel fatto che viviamo un periodo storico in cui non appaiono maturi i tempi per congedare una concezione ricca e densa della cittadinanza, in qualche modo legata ancora alle idee - che sono però anche realtà, benché indebolite - di “nazione”, “popolo”, “bene comune” (quest’ultimo inteso, com’è evidente, in senso sostantivo e non solo procedurale). Le repliche ai processi di globalizzazione - che assumono spesso la forma del “glocalismo” e quindi della rivendicazione delle realtà culturali regionali - costituiscono una tra le tante testimonianze che sarebbe possibile citare a questo proposito. E non si tratta di repliche che possano essere tutte etichettabili come reazioni da liquidare come frutto di una mentalità ancestrale o vagamente “barbara”, come rigurgiti di un passato da archiviare per sempre.
Ma, allo stesso tempo, bisogna pur riconoscere che il destino di questa nostra epoca è segnato dai processi di globalizzazione e, al loro interno, dal fenomeno migratorio e dallo sviluppo di società altamente differenziate. Possiamo non volerlo e pure osteggiarlo, ma è un dato dal quale non si può prescindere. Non sono soluzioni né la chiusura delle frontiere, né il far tornare indietro l’orologio riprendendo a vivere per miracolo negli Stati-nazione del passato. Come c’insegna un libro che potrebbe costituire un riferimento oggi utilissimo nel dibattito sulla società multi/interculturale e sul suo essere terreno di ripensamento della nostra cultura di europei - intendo la Montagna incantata di Thomas Mann -, dopo essere scesi dalla montagna, nella valle non si risale giammai “lassù”. Eppure non possiamo fare a meno dei fondamenti, ancorché sbiaditi e molto meno sentiti che in passato, ereditati dall’esperienza dello Stato nazionale. E ciò non è in nostro potere, se non altro perché sono le nostre stesse Costituzioni, con i comportamenti che riescono ancora a imporre ai soggetti sociali e politici, a ricordarceli.
Come si possa uscire da questo intreccio è arduo, forse impossibile, dire. Un’osservazione, però, è possibile suggerirla.
Costituisce tesi corrente, non solo tra i sostenitori oltranzisti dell’assimilazionismo alla francese, che, nella misura in cui l’emigrazione dai paesi poveri ai ricchi è volontaria, comporta l’implicita accettazione, da parte degli immigrati, di rinunziare al loro retroterra culturale e, di conseguenza, la disponibilità a essere, in vari gradi, assimilati - se non nella prima, nelle successive generazioni - alla cultura dei paesi di cui diventano progressivamente membri. Una volta accettata questa posizione, molti dei problemi posti fin qui svanirebbero: tutti diventerebbero cittadini secondo il modello delle democrazie occidentali e non potrebbero lagnarsi di questo, visto che così - alcuni asseriscono - hanno deciso all’atto stesso della partenza dal loro luogo natìo (lascio in sospeso il discorso sulla più che ovvia perplessità consistente nel chiedersi se hanno potuto decidere legittimamente anche per i loro figli e nipoti). Per chi è stato, invece, costretto a emigrare a causa di discriminazioni politiche e per altri motivi indipendenti dalla sua volontà, cioè i rifugiati nel senso tecnico del termine, si fa osservare che le condizioni dell’accoglienza e della cittadinanza devono essere, in parte, diverse (cfr. Kymlicka).
Solo un aspetto m’interessa, qui, di tale distinzione tra immigrati volontari e rifugiati involontari, cioè quanti sono costretti a lasciare la loro patria non per una loro scelta ma a causa di persecuzioni, discriminazioni, massacri, guerre fratricide, ecc. Ed è questo: come si fa a dire che questa distinzione tra emigrati-immigrati volontari o involontari regge sul serio? Chi mai lascia il suo paese, i suoi affetti, le sue tradizioni, la sua dimora, la sua patria volontariamente? Chi può farlo lo fa perché non ha problemi di sopravvivenza quotidiana. Gli altri, tutti gli altri, s’imbarcano, qualche volta a rischio della vita, non-volontariamente, e si mettono alla ricerca di un posto nel mondo dove gli sia consentito di vivere e di assicurare un’esistenza decente, prima o poi, alla propria famiglia. L’emigrazione come passatempo non è mai esistita: si chiama vacanza o trasferimento di residenza per motivi non sempre limpidi ed è appannaggio di fortunati soggetti - quelli che sono stati definiti gli “individui ‘cosmopoliti’ di successo”(Kymlicka)- che non rientrano nel nostro discorso.
La necessità per i “rifugiati economici” di emigrare, però, non cancella che, da qualche parte e in un qualche tempo, una volontà e una responsabilità ci siano state e vi siano ancora. E ricadono, in larga misura, sui paesi ricchi; se fosse stata realizzata un’equa ridistribuzione dei beni, come richiederebbe la giustizia internazionale, “forse il contadino etiope non avrebbe dovuto compiere la sua terribile scelta”(Kymlicka). La necessità per gli uni è creata dalla mala volontà di altri, i quali possono fare buon viso all’immigrazione ed esibire solidarietà solo rimuovendo la cattiva coscienza della responsabilità storica in cui, pur in diversa misura, sono coinvolti (che la “storia siamo noi” costituisce una verità, pur se espressa in una semplice canzonetta di moda). Il dibattito accademico su tali questioni tende spesso a oscurare questa coercizione all’esilio, quasi che l’immigrazione di massa del nostro tempo assomigliasse a un fatto “naturale” o a un accidente piombato chissà come sulle nostre teste. Dire quello che sto dicendo non vuol dire criticare astrattamente o, come talvolta si dice, “fare le pulci” al notevole sforzo che i nostri paesi e le nostre città stanno mettendo in campo sul fronte dell’accoglienza e della cittadinanza per gli immigrati (e anche ai parziali miglioramenti che si sono ottenuti in alcune lontane società che benignamente e ottimisticamente continuiamo a definire “in via di sviluppo”). Ci spinge, però, a considerare tale sforzo in una prospettiva che dovrebbe avere due precise e non derogabili caratteristiche.
La prima è la coscienza storica dell’ingiustizia che ha provocato, almeno in grandissima misura, i flussi immigratori; da parte dei protagonisti più fortunati dell’avventura in corso (inclusi i commentatori e gli intellettuali in genere), questa consapevolezza dovrebbe condurre ad adottare, come atteggiamento mentale più appropriato, quello della riparazione (parziale) del danno e non quella dell’apertura di un’epoca di emancipazione di cui ci eleggiamo, un po’ troppo disinvoltamente, protagonisti con in mente una sorta di cosmopolitismo tutto ricalcato entro i confini culturali e morali delle società opulente dell’Occidente.
La seconda è la presa d’atto che stiamo vivendo una transizione, nella quale è bene e giusto che investiamo ogni nostra risorsa intellettuale e materiale, ma che transizione dovrebbe rimanere. Si tratta di impiegare risorse per una cittadinanza che garantisca i diritti e le “culture sociali” degli immigrati, ma per un arco di tempo limitato. Questo può essere un buon motivo per mettere in atto due politiche.
La prima consiste nel “ricreare la […] cultura sociale”dei nuovi aspiranti cittadini nei paesi d’immigrazione, che (con una visione che mi pare un po’ troppo autocelebrativa dell’Occidente) qualcuno ha definito un compenso alla “nostra incapacità di dar loro la possibilità di una vita decente nel loro paese d’origine”(Kymlicka).
La seconda (che comporta un tasso molto più basso di auto-assoluzione da parte dei paesi ricchi) potrebbe concretizzarsi, invece, nell’imboccare la strada mai o insufficientemente imboccata fino a ora. Si tratterebbe di rendere possibile che, in un tempo non infinito, dai paesi e dalle città del mondo che oggi sono poveri non si debba più emigrare perché non ce ne sarà più bisogno. Ciò implica restituire agli uomini e alle donne dei vari paesi del Sud e dell’Est del globo la facoltà di abitare, in modo degno, le loro città. Quelle che stiamo allestendo hanno provveduto e provvedono come possono ai bisogni del presente pagando però il dazio, a mio parere molto alto, di un’inevitabile scissione tra “cultura sociale” e cittadinanza. È auspicabile che le città che potranno essere un giorno approntate per tutti i popoli del mondo, finalmente liberi e uguali, consentano di ricomporre tale frattura. Ciò equivarrebbe a far sì che finalmente questi popoli riescano a fruire, nella loro patria, di una cittadinanza piena secondo i loro costumi, fedi, appartenenze morali. Potranno, nel loro modo, mettere a frutto le esperienze che stanno segnando l’esordio di questo secolo e organizzare i diritti della cittadinanza democratica secondo l’essenziale filtro del loro punto di vista sul significato e sui limiti di tali diritti. L’esodo sarà finito e potrà cominciare il tempo del libero confronto culturale e dello spostamento veramente volontario nello spazio globale democratizzato. Utopia? Può darsi. Ma l’alternativa è la fine della varietà e ricchezza culturale di un pianeta in cui, se non si cambierà radicalmente la politica internazionale, solo il surrogato di tale varietà e ricchezza potrà sopravvivere nelle “riserve” delle società opulente. Il resto sarà omologazione dominata dagli imperativi dei mercati finanziari, alla cui logica è subordinata e in larga parte funzionale - non dimentichiamolo - l’attuale vicenda delle immigrazioni di massa e delle relative forme di accoglienza, più o meno benevole. Un giorno o l’altro i discorsi e le realizzazioni della società multiculturale e/o interculturale dovranno per forza scontrarsi con una realtà economico-finanziaria che si oppone allo sviluppo plenario della democrazia e, quindi, a una compiuta cittadinanza sia nei singoli Stati sia sul piano sovranazionale. Questo tempo - che potrà essere non più un tempo sospeso, nel senso appunto di un tempo di passaggio, di trasformazione, di transizione, ma l’unico veramente epocale, cioè tale da aprire una vicenda nuova e inedita del nostro globo - richiederà progetti all’altezza della situazione, per il nostro mondo, per le nazioni, per le città e per le campagne. I progetti della società assimilazionista, multiculturale, interculturale stanno ancora tutti dentro le compatibilità del capitalismo accelerato tipico della nostra epoca. Sono tutti (tranne il primo), dato il momento storico, di grande rilevanza e validità. Ma non è questo il problema. Consiste, piuttosto, nel capire come e quanto questa progettualità - che è oggettivamente d’emergenza e che non può essere, a mio avviso, l’orizzonte di civiltà del futuro - allungherà lo sguardo fino a vedere il muro che le impedisce fin d’ora di sviluppare i propri stessi presupposti nella loro pienezza. Gli impacci teorici di cui dicevo all’inizio rinviano a contraddizioni materiali, non a sviste degli interpreti dei fenomeni in atto.
Insisto, quindi, sull’idea che lo spazio storico delle città multi o interculturali vada pensato quale epoca di transito, non quale realtà che occuperà necessariamente un futuro indeterminato e indeterminabile. Come in ogni transizione, si tratta di governare con ragionevolezza e oculatezza i processi che la caratterizzano, ma sapendo che, dopo ogni difficile cammino, le patrie possono essere ritrovate e, una volta ritrovate, potranno offrire dimora stabile e degna ai loro membri, non obbligandoli a fuggire lasciando per via i tronconi disordinati e confusi della loro storia e della loro identità morale. Solo questo consentirà ai pellegrini di oggi di essere cittadini nella loro patria, cioè di ritessere il filo oggi spezzato tra le loro radici e i loro diritti di persone; e consentirà, contemporaneamente, ai cittadini delle democrazie più antiche di riprendere anch’essi questo filo, come fosse un compito futuro che attende l’umanità tutta, al di là della stretta attuale e in vista di una società internazionale costituita, in forma di confederazione, dalle democrazie nazionali con tutte le loro ricchezze culturali.



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