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Il tempo dell’apprendere: pedagogia e vita

CHIARA DE SANTIS
Articolo pubblicato nella sezione I tempi della quotidianità
Il quinto pianeta era molto strano.
Vi era appena il posto per sistemare un lampione e l’uomo che l’accendeva [...].
Salendo sul pianeta salutò rispettosamente l’uomo:
«Buongiorno. Perché spegni il tuo lampione?»
«È la consegna» rispose il lampionaio. «Buongiorno».
«Che cos’è la consegna?». «È di spegnere il mio lampione. Buona sera».
E lo riaccese. «E adesso perché lo riaccendi?».
«È la consegna». «Non capisco», disse il piccolo principe.
«Non c’è niente da capire – disse l’uomo – la consegna è la consegna. Buongiorno».
E spense il lampione
(Saint-Exupéry 1998, pp. 67-68).

Le parole senza tempo, scelte come esergo di questo breve scritto sul rapporto tra tempo ed educazione, descrivono l’incontro tra il piccolo principe e il lampionaio, fedele alla sua consegna, e pertanto condannato ad accendere e spegnere il suo lampione una volta al minuto, perché un giorno, su quel pianeta così piccolo che gira sempre più in fretta, dura ormai un solo minuto. Quest’immagine costituisce una semplice, ma significativa, metafora di come sia spesso vissuto il rapporto con il tempo, descritto da termini di uso quotidiano quali “trovare” e “prendere” tempo; oppure “ammazzare” o ancora “riempire” il tempo.
Il tempo quindi si trova o si prende, a volte si cerca di riempirlo, molto spesso si perde e si rimpiange di averlo perduto; già Seneca metteva in guardia contro il rischio di considerare il tempo come qualcosa che ci appartiene, al punto da credere di poterlo possedere, conservare, oppure addirittura cedere: «Mi fa sempre meraviglia – scriveva nel De brevitate vitae – vedere alcuni chiedere tempo e chi ne è richiesto così arrendevole; l’uno e l’altro guarda allo scopo per cui si chiede il tempo, nessuno dei due al tempo in sé: lo si chiede come fosse niente, lo si dà come fosse niente. Si gioca con la cosa più preziosa di tutte. Non ne hanno coscienza, perché è immateriale, perché non cade sotto gli occhi, e perciò è valutata pochissimo, anzi non ha quasi prezzo» (Seneca 1993, p. 61).
Forse è proprio per questa sua natura, così mutevole, che il concetto di “tempo” ha sempre suscitato interesse: filosofi, scienziati, musicisti, biologici, letterati hanno provato ad esplorarlo per comprenderne l’esperienza, affinarne la conoscenza, scandagliarne la realtà. Dall’antichità ad oggi, questa categoria continua ad offrire un terreno di ricerca tra i più fecondi: dalla fisica contemporanea, per la quale il tempo tende ormai a prevalere sullo spazio, nel momento in cui la velocità della luce diventa unità di misura fondamentale e criterio “ordinatore” della materia, alla psicologia dell’età evolutiva, che considera il tempo una struttura essenziale attorno alla quale organizzare lo sviluppo cognitivo personale, l’asse diacronico (i ritmi, i periodi dinamici, gli stadi evolutivi,...) su cui collocare una corretta idea di crescita dei bambini. La riflessione filosofica e simbolica, in particolare, propone diverse interpretazioni di cosa sia il tempo, inteso come estensione dell’anima, come vita della coscienza, come esistenza.
Ognuno di questi aspetti contribuisce ad alimentare un dibattito sempre attuale e tutt’altro che concluso che si può collocare all’interno di un contesto sociale nel quale il concetto stesso di tempo ha subìto una grandissima evoluzione fino a diventare un elemento tra i più importanti, che configura precisi modelli di società, di cultura e, in definitiva, della vita quotidiana. L’uso discreto del tempo, l’elogio della lentezza sono quasi diventati uno stile di vita, la contrapposizione tra ciò che è lento e ciò che è veloce, slow contro fast, rappresenta ormai quasi una scelta ideologica, soprattutto nell’epoca attuale, così fortemente caratterizzata dal mito del “tempo reale” da essere stata definita l’epoca del tempo senza attesa (Zavalloni 2012, p. 14).
Riflettere sul rapporto che ognuno di noi ha con il tempo, in fondo, ci invita a ripensare il rapporto stesso con la vita, così profondamente segnato dal suo trascorrere che ci mette ogni volta di fronte alla nostra precarietà, alla sensazione che non ci sia un tempo per tutto e che, quindi, quello che c’è deve essere sufficiente per poter fare tutto ciò che si ritiene necessario. In una metaforica corsa contro il tempo – che sembra quasi incarnare le celebri parole di Carducci: “e sempre corsi, e mai non giunsi il fine” – spesso si cerca così di sfuggire allo scorrere del tempo; ma mentre il tempo passa comunque, e il presente si trasforma in passato, e le speranze si proiettano sul futuro, il rischio è quello di continuare con le stesse consegne, proprio come il lampionaio sul pianeta del piccolo principe.
Tale rischio è evidente in modo particolare nell’ambito pedagogico, chiamato oggi più che mai a interrogarsi sul rapporto tra tempo ed educazione, due concetti uniti in modo indissolubile, dato che le finalità educative cambiano contemporaneamente ai processi educativi e la stessa azione educativa deve essere aperta a questa flessibilità e provvisorietà. Non può infatti esistere una riflessione educativa che non si confronti con la dimensione del tempo.
Diventa così importante soffermarsi sul concetto di tempo cui ci si vuole riferire e, a tal proposito, è interessante il riferimento alle due concezioni basilari del tempo riconducibili alla cultura classica: Chronos [κρόνος] e Kairós [χαιρός].
Gli antichi greci utilizzavano infatti il termine Chronos per indicare il tempo nelle sue dimensioni di passato, presente e futuro, lo scorrere delle ore, la cui caratteristica essenziale era la misurabilità, la possibilità di essere scomposto, diviso in parti di durata omogenea e riconoscibili come tali. Chronos indicava quindi il tempo che misura gli eventi, un tempo oggettivo che esiste al di fuori del soggetto e indipendentemente da esso, un tempo esterno, non scelto. Ad esso si contrapponeva il Kairós, il tempo opportuno, quello dell’occasione, il momento presente determinato da una qualità. Spesso veniva raffigurato come un giovane con le ali sulla schiena e ai piedi che sostiene una bilancia della quale mantiene in disequilibrio i piatti con un dito; non ha capelli dietro la testa ma solo un lungo ciuffo che gli pende di lato. L’immagine rimanda all’incessante scorrere del tempo che, come le ali del giovane, passa accanto all’uomo velocemente e, al tempo stesso, alla necessità di cogliere l’occasione, il momento opportuno appunto, quando si presenta.
Queste due concezioni possono essere tradotte in due precise dimensioni del tempo: quella socio-temporale e quella personale e soggettiva. La prima si riferisce al tempo fisico, oggettivo e meccanico, il cui riferimento potrebbe essere Newton, i cui studi si avvicinano all’idea di misurazione del tempo dal punto di vista della Fisica; la seconda è invece la concezione secondo la quale il tempo ha ragion d’essere solo nella misura in cui è vissuto come un continuo fluire di istanti, non scomponibili nella loro singolarità, vissuti nella loro durata reale nella coscienza di ognuno. Il rapporto tra le due dimensioni è descritto da Bergson nel famoso esempio della zolletta di zucchero che si scioglie in un bicchiere d’acqua: la fisica calcolerà il tempo che lo zucchero impiegherà a sciogliersi secondo un procedimento analitico che va dall’istante iniziale a quello finale della liquefazione e questo tempo così calcolato sarà definito simbolicamente uguale per tutte le volte che si misurerà nelle stesse condizioni; molto diverso sarà il tempo vissuto dalla coscienza del soggetto che non terrà conto del tempo spazializzato e oggettivato della fisica ma piuttosto delle personali condizioni psicologiche di insofferenza o calma (Bergson 2012, p. 1988).
Secondo alcuni, la storia recente dell’umanità appare sempre più spesso caratterizzata dalla progressiva supremazia del Chronos sul Kairós, il tempo misurato, quantitativo che prevale sul tempo degli eventi, considerati sempre più effimeri dalla società e dalla cultura dominanti. Per Bauman, ciò è dovuto ad una progressiva decadenza dei fatti che non hanno più il tempo necessario per maturare ma decadono nel momento stesso della loro gestazione, senza arrivare a soddisfarci. A questa colonizzazione del tempo quotidiano, spiega Sansot (2003), si accompagna una penalizzazione costante della lentezza, della calma e della pazienza, atteggiamenti legati ad una concezione soggettiva del tempo, sempre meno apprezzati all’interno della società contemporanea. Tale concezione del tempo, senza soluzione di continuità, contribuisce all’affermazione di quella che, sempre Bauman, ha definito la cultura del presente (presentist culture), per la quale il passato non ha importanza, il futuro non è rilevante ed esiste solo il presente: un presente misurabile che ha perduto ogni legame con la dimensione del Kairós per cogliere il quale occorrono ore vuote e la possibilità di sostare in esse. Per tale ragione si profila l’importanza di fornire una dimensione nuova nella gestione del tempo, partendo dalla consapevolezza che «i valori si misurano dal sacrificio di altri valori senza i quali non si sarebbero potuti raggiungere, e lo spirito, senza dubbio, è il sacrificio più intollerabile che si vedono obbligati ad accettare i membri della società del consumo» (Bauman 2008). Sacrificio a seguito del quale gli uomini si sarebbero così trasformati in esseri sincronici che vivono solo nel presente, senza tener conto dell’esperienza del passato e delle conseguenze future delle loro azioni, in una strategia che genera una mancanza di vincoli con gli altri.
Blaise Pascal affermava che «tutta l’infelicità degli uomini proviene da una cosa sola: dal non saper restare tranquilli in una camera, senza far nulla» (Pascal 1994, n. 139); è una riflessione quanto mai attuale se si pensa alla società odierna e alla sensazione costante e imperante di mancanza di tempo con la conseguente tendenza a riempirlo, spesso senza pensare alla qualità di ciò che si fa, ma solo alla quantità di tempo che viene occupata. Scrive Fericgla a questo proposito: «le nostre società hanno creato un tempo […] che possiede soltanto quantità, manca di qualità, è vuoto di contenuti. Pochi giovani o adulti potrebbero elencare quindici differenze tra ciò che dà contenuto al mese di aprile e ciò che accade, ad esempio, in ottobre. La nostra cultura ci socializza per colmare il tempo in modo quantitativo, in attività determinate dalla quantità di tempo che vi si dedica, non dall’intensità dell’attività o dalla qualità dell’atto» (Fericgla 2003).
Dal momento che la speranza di vita è quasi due volte maggiore rispetto al secolo scorso, può apparire paradossale oggi non avere tempo, eppure, ora che abbiamo più tempo che mai, sembra che la felicità dipenda dalla quantità di cose che si possono fare in un giorno, in una settimana, in un mese. Ci sono giornate di lavoro prolungate nel tempo, tempo scolastico ed extra-scolastico; la cultura genera una tale quantità di prodotti che è impossibile conoscerli nella loro totalità; i canali televisivi a disposizione sono talmente numerosi che si fa fatica a sceglierne uno per un breve periodo di tempo. L’informazione alla nostra portata è sovrabbondante: è stato calcolato, ad esempio, che attualmente, leggendo una copia del Times si ricevono tante informazioni quante un contadino vissuto nel 1600 ne riceveva nel corso dell’intera esistenza. Ed è noto che uno degli effetti causati dall’eccessiva informazione è proprio il tempo che si deve dedicare a selezionarla e raffrontarla perché possa essere veramente utile. Tutto si svolge in modo più rapido e sincronizzato ma, allo stesso tempo, tutto appare più superficiale e senza direzione; tutto avviene così in fretta che, come l’informazione, «anche l’educazione e gli apprendimenti possono finire col trasformarsi in oggetti di consumo pronti ad essere acquistati» (Domènech Francesch 2011, p. 42), eliminati o cambiati, ancora prima di averne goduto. Senza dimenticare che, come sottolinea Servan-Schreiber (2000): «a volte gli stessi strumenti ci liberano dal tempo e divorano il vantaggio che ci hanno permesso di raggiungere».
L’intero sistema educativo si trova così ad affrontare una molteplicità di fronti aperti e di bisogni ai quali dover dare risposta; un altro elemento da considerare è, ad esempio, il ruolo della tecnologia che, negli ultimi decenni, ha messo in crisi non solo il ruolo e la funzione di importanti agenti educativi, quali la famiglia e la scuola, ma anche la stessa concezione del tempo educativo: «tutto il mondo può apprendere a qualunque ora e in qualunque luogo, con l’unica condizione che abbia accesso alla Rete» (Domènech Francesch 2011, p. 63).
Il dibattito sul tempo, in tale frangente, non si propone semplicemente di riflettere su come sia possibile migliorarne tecnicamente la gestione, ma aspira a mettere in discussione la qualità stessa del sistema educativo e la sua utilizzazione. Il tempo si rivela infatti un fattore fondamentale che può favorire oppure ostacolare il miglioramento degli apprendimenti. Gli studi di psicologia cognitiva, ad esempio, mettono in stretta correlazione il grado di apprendimento di una certa competenza con il tempo necessario all’allievo per raggiungerla (e con il tempo effettivamente impiegato). Il tempo, dunque, diventa una variabile decisiva della qualità dell’istruzione e su di esso si può costruire un efficace progetto di individualizzazione dell’insegnamento (Baldacci 1993).
È bene ricordare, a questo punto, che il processo dell’apprendimento, nella sua complessità, comprende entrambe le dimensioni temporali che sono state menzionate: Chronos e Kairós si intrecciano così profondamente tra le pieghe dell’educare da rendere impossibile, perfino dannoso, il predominio dell’aspetto quantitativo nell’ambito pedagogico.
I due concetti di tempo esercitano infatti un’influenza diretta, ad esempio, sul modo in cui viene strutturato ed organizzato lo spazio educativo: quando viene preparato l’orario scolastico in funzione della necessità di disporre di insegnanti, visti come risorse umane debitamente organizzate, vengono fissati dei limiti che condizionano lo sviluppo e la realizzazione delle attività; quando, invece, ad esempio nell’educazione dell’infanzia, si lascia fluire il tempo in modo spontaneo, si fa in modo che l’attività si svolga senza condizionamenti temporali. Nel primo caso, il bisogno di organizzare le risorse umane, le rotazioni degli esperti e la complessità degli orari, portano a privilegiare il Chronos sul Kairós, accade l’inverso quando vengono rispettati e assecondati i ritmi dei bambini.
Del resto, come è noto, la scuola nasce come istituzione formale per rispondere alla domanda educativa dei cittadini all’interno di un contesto sociale, nel momento in cui l’umanità ritiene che per l’educazione siano necessari uno spazio e un tempo specifici, esterni alla famiglia e legati a una comunità più ampia. Già nel 2000 a.C. un’iscrizione rinvenuta su una tavola sumera che spiegava il funzionamento di una scuola [edduba] riportava le parole: «devo essere puntuale, altrimenti il maestro mi picchierà».
L’esplicita valenza pedagogica del tempo emerge con chiarezza anche da un punto di vista normativo, come si legge negli Orientamenti ministeriali per l’organizzazione didattica nella scuola elementare (1996), nei quali viene affrontato il nodo del rapporto tra scuola dell’infanzia e tempo, sottolineando che «il ritmo della giornata [deve] salvaguardare il benessere psicofisico» e facendo riferimento a enunciati che qualificano l’importanza del tempo quale risorsa fondamentale per l’apprendimento; in questi documenti si parlava infatti di: percezione individuale del tempo, scansioni temporali tese ad evitare rigide ripartizioni, affaticamento, attenta considerazione dei tempi necessari, diversa intensità di impegno e corretta concertazione dei tempi (Circolare Ministeriale 22 marzo 1996, n. 116). Non solo, nelle ricerche sulla qualità della vita dei bambini nelle scuole dell’infanzia, il “tempo” è considerato una delle variabili che incidono direttamente sulla qualità dei contesti educativi. Anche nella scuola elementare e media un tempo scuola più disteso è coerente con l’idea che l’insegnamento di una disciplina non possa vertere esclusivamente sui contenuti di conoscenza, ma debba anche favorire l’approccio a strategie, metodi, linguaggi che ne sostengano il processo di organizzazione.
A fronte di una società che continua ad accelerare è importante che in ambito educativo si possa insistere sulla qualità del tempo che implica la necessità di scegliere, vagliare, selezionare. L’educazione ha bisogno di tempo, di tempi lunghi dato che «i processi educativi sono lenti, perché gli apprendimenti rientrino in un percorso che passa per una molteplicità di stadi e di momenti. Apprendimenti diversi, come apprendere a leggere e a scrivere, apprendere un lavoro o apprendere a relazionarsi con il resto dell’umanità…sono esempi delle diverse conoscenze che acquisiamo nel corso della nostra vita e che richiedono periodi lunghi per consolidarsi ed essere approfondite» (Domènech Francesch 2011, p. 9). Il concetto stesso di educazione permanente, a partire dalla metà del XX secolo, ha affermato che l’educazione non può limitarsi a un unico tempo – il periodo dell’obbligatorietà – e a uno spazio – le quattro pareti dell’aula, ma rappresenta un processo che occupa l’intero corso dell’esistenza.
Non si tratta quindi di scegliere quale aspetto prevalga sull’altro, quanto piuttosto di promuovere la loro integrazione in una prospettiva pedagogica e di vita volta alla realizzazione di un’umanità sempre più consapevole e all’affermazione di una concezione del tempo come “avvenimento”. Non solo un evento databile sul calendario nel corso del tempo, o un vissuto qualitativo dell’io cosciente ed esistente, ma entrambe queste dimensioni originariamente unificate. Un tempo né cosmologico né psicologico, ma storico, il cui filo conduttore è la possibilità del significato.
Molto significativa, a questo proposito, è la lettura pedagogica del rapporto heideggeriano tra tempo e cura che rompe con la concezione della temporalità come dato oggettivo, statico, irreversibile e considera la durata e l’estensione del tempo come dipendenti dalla cura e quindi dall’interesse dell’uomo. In base all’interesse suscitato in lui dalle occupazioni e dalle cose del mondo, compresi i rapporti con i propri simili, l’uomo non ha tempo oppure prende tempo o perde tempo. Il tempo è definito dalla cura, quel modo d’essere che domina completamente la vicenda temporale dell’uomo, prende in custodia ciò che appartiene al tempo, ciò che trapassa, ciò che è esposto e precario, e tende a dar consistenza a ciò che svanisce, facendo in modo che il tempo non dissipi, né disperda le potenzialità umane ma le custodisca, rendendone possibile la realizzazione. L’irreversibilità dello scorrere del tempo, per cui passato, presente e futuro sono dimensioni statiche e incapaci di interagire, viene così rotta da una quarta dimensione, quella della circolarità (Fadda 2006).
In una prospettiva di cura pedagogica, la struttura tradizionale e lineare della temporalità, intesa come progettare il futuro in un presente che viene da un passato immodificabile, acquista così una dimensione circolare: il passato, la nostra storia di vita e di formazione, con i nuclei affettivi e cognitivi che ne costituiscono la trama intima, le narrazioni e rappresentazioni che influenzano il nostro sentire, il nostro pensare e il nostro agire, può essere ripercorso, rinarrato, rivissuto, decostruito, facendo sì che esso influenzi in modo positivo il presente ma soprattutto le aperture al futuro, producendo nuovi vissuti, nuovo senso, nuova forma. Del resto, se non potessimo agire sul passato, non ci sarebbe alcuna possibilità di agire sul presente attraverso la cura, dal momento che «il presente, l’essere presso le cose è l’esito di un passato che viene ripreso e che pone delle condizioni al futuro (progetto) che anticipa. E se il futuro, come luogo della trascendenza, dell’apertura all’ulteriorità e alla possibilità, è la dimensione privilegiata della cura, curare significa non permettere che il passato determini ciò che siamo ma divenga parte di ciò che diventeremmo» (Fadda 2006, p. 20). Alla passività della determinazione la cura, come cura di sé, resa possibile e sostenuta dalla cura dell’altro, oppone il processo attivo della rielaborazione e dell’accoglienza consapevole, l’inserimento del passato nel flusso del processo di formazione.
Il tempo dell’apprendere si qualifica così, in ultima analisi, come «un tempo personale per crescere, un tempo necessario per scegliere, per trasformare le parole in azioni, per sperimentare idee» (Cuffaro 2006, p. 112). È il tempo della relazione che non esclude la durata, ma non si esaurisce in essa: è il tempo personale dei bambini di giocare, sentire, pensare e immaginare ed è il tempo personale dell’insegnante per osservare, riflettere e immaginare, il tempo per mettere e mettersi in discussione.


Bibliografia

Baldacci M. (1993), L’istruzione individualizzata, La Nuova Italia, Firenze.
Bauman Z. (2008), Vita liquida, Laterza, Bari.
Bergson H. (2012), L’evoluzione creatrice, Bur, Milano.
Cuffaro H.K. (2006), La scuola del fare. John Dewey e la classe della prima infanzia, Armando, Roma.
Domènech Francesch J. (2011), Elogio dell’educazione lenta, Editrice La Scuola, Brescia.
Fadda R. (2006), Il paradigma della cura. Ontologia, antropologia, etica, in Boffo V., La cura in pedagogia. Linee di lettura, CLUEB, Bologna, pp. 17-58.
Pascal B. (1994), Pensieri, Mondadori, Milano.
Saint-Exupéry A. (1998), Il Piccolo Principe, Bompiani, Milano.
Sansot P. (2003), Sul buon uso della lentezza, Net, Milano.
Seneca L.A. (1993), La brevità della vita, BUR, Milano.
Servan-Schreiber J.L. (2000), L’arte del tempo, Rizzoli, Milano.
Zavalloni G. (2012), La pedagogia della lumaca. Per una scuola lenta e nonviolenta, Emi, Bologna.



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