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Le anamorfosi dell’utopico. Alcuni spunti rileggendo Jean Baudrillard

FIAMMETTA RICCI
Articolo pubblicato nella sezione: Lo spazio dell’altrove: metadiscorso sull’utopia.

L’utopia, come è noto, disegna non il reale previsto, ma il reale possibile. E si presenta molto spesso come proposta politica da contrapporre alla realtà: un modello ipotetico e probabile che si vuole o che si potrebbe sostituire a quello esistente; una pratica immaginativa che apre il campo del possibile al di là del campo del reale, o che sottomette il reale al sogno (P. Ricoeur 1989, p. 224).
Una utopia si presenta anche come il rifugio in altro luogo e in altro tempo per sfuggire alla mancanza di presa sul presente. In tal senso, rivela sempre un rapporto molto stretto con l’ambiente politico-sociale da cui nasce la sua proposta alternativa. La rappresentazione di una società radicalmente diversa scaturisce da una critica serrata del contesto sociale e politico presente, in un gioco calibrato tra i due poli della realtà e della finzione.
In ciò sta la sua forza e la sua debolezza: forza perché l’utopia è tensione verso l’altrove, capacità di pensare altrimenti, di oltrepassare la datità; debolezza perché nell’utopia, e dunque nell’idea di un modello alternativo di realtà, si annida l’astrazione dal reale e la sua semplificazione totale (V. Fortunati 1984, p. 32).
Ma se l’utopia ci fa fare quel “salto nell’altrove”, essa comporta tutti i rischi di un discorso folle e di una “schizofrenia” dell’irrealizzabile.
Quella che sembra in fondo la propensione metamorfica dell’utopico, è, da un lato, il desiderio di alternative estreme o comunque “altre”, e, dall’altro, il senso di impotenza ad attuarle. Ma, in ogni caso, «nella progettazione di utopie noi possiamo agevolmente scorgere un buon metro per il segno dei tempi nei quali vengono concepite» (G.M. Chiodi 2011, p. 221).
Mi pare stimolante, come premessa alle riflessioni che seguiranno, l’analisi di P. Ricoeur nel ripensare il rapporto tra utopia e ideologia come espressioni, sebbene polarizzate, dell’immaginario sociale; giacché utopia e ideologia costituiscono le inverse declinazioni di un immaginario attraverso cui ogni società e cultura hanno operato quel fondamentale collegamento tra le attese future, le tradizioni ereditate e il modo di porsi nella storia e nel presente .
Con tutta evidenza, in entrambi i casi risulta centrale l’esercizio del potere: legittimazione dell’autorità per l’ideologia; intento rigenerativo del modo di esercitare il potere o volontà di operare una variazione immaginativa sul potere stesso, nell’utopia. Come afferma Lasswell: «L’ideologia è il mito politico che ha la funzione di conservare la struttura sociale; l’utopia, il mito politico che ha la funzione di cambiarla» (H. Lasswell, A. Kaplan 1997, p. 170).
Se, infatti, l’ideologia rinforza, sostiene e preserva, attraverso una interpretazione della vita reale che contribuisce a conservare un gruppo sociale così com’è, l’utopia ha la funzione di proiettare l’immaginazione fuori dal reale “in un altrove che è anche un nessun-luogo” (P. Ricoeur 1989, p. 373).
Il legame di complementarietà indicato da Ricoeur tra ideologia e utopia mostra, dunque, come entrambe siano connesse a quella operazione simbolica costitutiva dell’ordine sociale che è l’immaginazione produttiva. In sintesi, l’elemento distintivo che, in maniera rovesciata, unisce ideologia e utopia, sta nel fatto che in entrambe un singolo o un gruppo dà un’immagine di sé, si rappresenta e rappresenta una immagine di società e di potere. L’immaginazione ha un compito fondamentale che è quello di «mantenere vive le mediazioni di ogni tipo che costituiscono il legame storico e, tra queste, le istituzioni che oggettivano il legame sociale e trasformano instancabilmente il noi in loro» (P. Ricoeur 1989, p. 219). All’immaginazione è affidata, infatti, la funzione di combattere ogni forma di reificazione radicale della società e dei suoi processi storici, che rischiano di annullare la differenza tra il corso della storia e il corso delle cose. Dunque, attraverso la funzione immaginativa che apre ad esiti e soluzioni anche diametralmente opposti, il campo del possibile si apre al di là di quello del reale; e in questa linea progressiva essa arriva a costituire una forma di “sovversione” sociale centrata sulla destituzione dei sistemi di legittimità e sullo smascheramento dei luoghi del potere.
Ma l’analisi di Ricoeur è volta a penetrare più a fondo nel paradigma concettuale della immaginazione produttiva. E da qui risalire alla valenza ri-creativa e rigeneratrice dell’utopia, quella che definisce la sua “funzione liberatrice”, giacché immaginare il non-luogo è mantenere aperto il campo del possibile, ossia ciò che mantiene e preserva lo scarto tra speranza e tradizione, «tra la coscienza d’assenza e la credenza illusoria, tra il nulla della presenza e la pseudopresenza» (ivi, p. 207).
Ora, l’aver individuato un nucleo costitutivo comune a ideologia e utopia nel potere dell’immaginazione, non può non indurci anche a considerare il legame tra immaginazione e innovazione semantica. Possiamo parlare infatti anche di utopia linguistica come desiderio incessante di un altrove immaginario attraverso cui la parola possa aprirsi nuovi modi di riscrivere il reale, o di indicare un suo oltre che sia apertura di progettualità del qui e dell’ora. G.M.Chiodi parla di «utopia della parola, detta e scritta, nella comunicazione individuale e di massa, che porta con sé l’utopia del pensiero, del desiderio, e perfino, del silenzio» (G.M. Chiodi 1990, p. 62).
In questo caso, azione, contesto di discorso e linguaggio, intersecandosi e interagendo, rivelano l’opacità delle funzioni simboliche del potere come linguaggi di potere. Ma ove domina la trasparenza totale, e in essa la rarefazione di ogni mistero, il simbolico rimane solo mediazione e astrazione del codice tecnologico, e in questo modo anche il reale soggiace ad uno scambio simbolico in cui domina l’egemonia del segno sul senso di ogni processo di significazione (F. Ricci 2003, pp. 109-121; F. Crespi 1978, p. 40).
Quando il simbolico diventa luogo dell’alienazione, ossia modo della sopraffazione e della contraffazione, il linguaggio subisce una sorta di positivizzazione assoluta, di arretramento a mera funzione segnica.
Ideologia del linguaggio e utopia del linguaggio sono dunque due modi, inversi ma prospettici, di interpretare ed esercitare il potere del linguaggio come potere di liberazione o di assolutizzazione del pensiero. Un potere di mantenere aperto o chiuso quello scarto tra possibile e necessario, tra integrazione e sovversione, tra funzione eccentrica dell’utopia e funzione di reduplicazione del reale ad opera dell’ideologia.
Ma, tralasciando gli sviluppi e le implicazioni di questo tema, qui è piuttosto da sottolineare che ciò che mette fortemente in discussione il concetto di utopia è proprio il rapporto tra immaginazione, finzione e realtà. Rapporto che Jean Baudrillard ritiene un paradigma destinato a saltare completamente nell’attuale cultura del virtuale e della iperrealtà digitale.
Nella odierna società dei simulacri, in cui dominano i rituali della trasparenza, la «drammaturgia dell’artificiale» avrebbe sancito la sparizione del reale a fronte di una pervasività totale delle pratiche comunicazionali del Tempo Reale e della Realtà Virtuale, a cui farebbe seguito anche la dissoluzione del principio di alterità e di identità (J. Baudrillard 1979, p. 61).
In altri termini, sotto l’effetto della moltiplicazione metastatica non solo dei segni, ma anche delle idee, delle azioni, è come se essi si fossero ormai liberati dalla loro essenza, dal loro riferimento, dalla loro origine e dal loro fine, in una «autoriproduzione all’infinito» (J. Baudrillard 1991, p. 11).
La lettura di Baudrillard non è ovviamente una semplicistica denuncia della crescita esponenziale delle tecnologie digitali e della positivizzazione totale della realtà nell’universo virtuale. Gli spunti offerti dal pensatore francese graffiano la superficie del problema per affrontare la modificazione del pensiero e del modo di pensare la posizione dell’uomo nel mondo, nel tempo e nello spazio.
Sembra quasi che in ogni sistema, e quindi anche in ogni individuo, si possa cogliere una pulsione inconfessata a «sbarazzarsi della propria idea, della propria essenza», fino a poter proliferare in tutti i sensi o estrapolarsi in tutte le direzioni. Ma l’uomo che perde la propria ombra cade in un delirio in cui si perde. E si perde non nella scomparsa o nella vertigine del nulla, ma nella infinita es-posizione e moltiplicazione in immagini in cui più nulla si offre alla immaginazione e al linguaggio metaforico.
Dopo la liberazione dell’uomo da tutti i limiti del reale, e la possibilità artificiale di simulare ogni scenario e ipotesi, è come se ci trovassimo nel tempo della “utopia realizzata”: non ha alcun senso mantenere la speranza di realizzare un altro luogo o un altro tempo, poiché essi si iperrealizzano nei processi di simulazione e di riproduzione indefinita che ci rendono quasi indifferenti alla possibilità dell’impossibile, poiché non c’è più, scrive Baudrillard, un modo fatale di sparizione ma processi frattali di dispersione. In questo senso Baudrillard parla di perdita dell’illusione del mondo a fronte di una iperrealizzazione del reale. «Ogni particella segue il proprio movimento, ogni valore, o frammento di valore, brilla un istante nel cielo della simulazione, poi scompare nel vuoto seguendo una linea spezzata che solo eccezionalmente incontra quella degli altri» (J. Baudrillard 1991, p. 12).
Uno dei contraccolpi di questa condizione epocale è che il bene non si colloca più sulla verticale del male, come se nulla si disponesse più in ascisse e ordinate: la «felice indistinzione tra vero e falso» che ne deriva ci consegna a quella cultura del simulacro in cui non hanno alcun posto l’illusione, la seduzione e il sogno. Né è ammissibile alcuna incrinatura della superficie apparente delle cose. La «violenza fatta all’immagine» di cui parla Baudrillard è in fondo la sua trasparenza forzata, il suo non poter sfuggire dall’orbita del visivo come fonte di controllo e di potere: «non si tratta più di rendere le cose visibili a un occhio esterno, ma di renderle trasparenti a se stesse» (J. Baudrillard 2006, p. 80).
Ma la possibilità di pensare e di abitare il mondo come illusione e come sogno deriva dalla sua imperfezione radicale, dalla sua enigmaticità e non conclusività. Se tale imperfezione svanisse o fosse soggiogata dalla logica della perfezione artificiale, il mondo stesso non esisterebbe più. In sintesi, secondo la tesi del «delitto perfetto» della realtà ad opera dell’iperrealtà, «scomparire è disperdersi nelle apparenze», dove tutto è abbandonato alla trasparenza e non vi è più nulla di incerto (Cfr. J. Baudrillard 1996; J. Baudrillard 1997, pp. 36-37).
Ma allora, perché dovremmo ancora volere? Perché dovremmo ancora desiderare un altrove? E altrove rispetto a cosa?
Ogni posta utopica e simbolica si gioca, e si è sempre giocata, su ciò che ci è estraneo e che ha tuttavia potere su di noi. Ma se è l’irruzione di ciò che proviene da un altrove e che ci proietta in un altrove non ancora realizzato a dischiudere la forza dell’utopia, così come la conosciamo e come l’abbiamo pensata finora, proviamo a chiederci se essa non sia di fatto implosa in questo circuito di autoreferenzialità dei sistemi e dei codici; o se non si debba considerare un altro paradigma utopico, un’altra dimensione dell’utopia che rimette in discussione anche le forme dell’immaginazione, dell’immaginario sociale e dell’ideologia di cui dicevamo all’inizio.
Rileggendo Jean Baudrillard, in questa «curvatura che mette fine all’orizzonte del senso», si coglie l’incursione di una anomalia che sopravanza ogni forma di anomia: la prima intesa come eccedenza di qualunque riferimento ad una legge a cui ci si sottrae o di cui ci si libera; la seconda da intendere, invece, come infrazione ad un sistema determinato che si colloca comunque ancora nel campo del conoscibile da parte dell’uomo (J. Baudrillard 1991, p. 30, 89 e passim).
Ora, se ogni immagine unitaria del mondo, e dunque del soggetto, non fa che perpetrarne il destino di fine e di ingovernabilità, ci troviamo com-presi in un’illusione patafisica, dove il vuoto degli eccessi diventa eccesso di vuoto e d’insignificanza. Con il concetto di «patafisica», ispirata profondamente alle teorie di A. Jerry, Baudrillard intende lo stadio della nostra civiltà in cui si afferma quasi parossisticamente una «scienza immaginaria del mondo» come scienza dell’eccesso: eccesso d’involuzione, di deflazione, di cedimento, di reversibilità. La realtà diventa parodia e ironia di una «positività vuota» e di una «piattezza esponenziale», finché «il processo si rovescia da sé e ritrova lo splendore del vuoto».
In questa declinazione dell’indifferenziato il soggetto non si pone più in relazione/differenza rispetto ad altro. Cosicché, nell’indeterminazione compulsiva dei processi e dei legami, il soggetto non è più né l’uno, né l’altro, ma «solo un involucro riflettente la ridondanza metafisica dello Stesso».
Quella che nel lessico di Baudrillard si configura come la psicodrammatica dell’alterità, è, al tempo stesso, una sociodrammatica e una semiodrammatica dell’alterità. Il sociodramma può essere inteso come la scomparsa del sociale e dunque della dimensione dell’alterità sociale; così come nello psicodramma dell’alterità «non facciamo altro che simulare in modo acrobatico e drammatizzare l’assenza dell’altro» (J. Baudrillard 1991, p. 134). Il risultato è una condizione con-fusa in cui la stessa funzione normativa dell’alterità sprofonda in una palude di indifferenza e di inerzia.
Dunque, in questa prospettiva di fenomeni estremi, il reale non cede più a vantaggio dell’immaginario ma dell’iperreale; e, di conseguenza, all’utopia, al sogno, ai miti della modernità, oggi è stata sostituita la forma dell’indifferenza e della positività totale dei sistemi e delle funzioni (J. Baudrillard 2007, p. 13 ; si veda anche F. Ricci 2013, pp. 75-126).
Pertanto, in una società caratterizzata dall’incapacità di «superarsi verso altri fini» e di progettare altri fini che non siano l’immediatezza e la funzionalità dei sistemi e delle reti, sembrerebbe non aver più alcun senso parlare di utopia. In questo tipo di società domina una incertezza epocale connessa ad un eccesso di positività e ad un abbassamento del tasso di negatività. Una condizione che fa pensare, come già detto, a quella dell’uomo che ha perso la sua ombra e che è diventato trasparente alla luce che lo attraversa.
In sintesi, gli individui e le loro vite diventano esattamente ciò che sono, senza trascendenza e senza immagine: il corpo, il sesso, lo spazio, il piacere, da prendere o rifiutare in blocco, in una esistenza funzionale e indistinta, così come è indistinta la differenza tra il bene e il male. Insomma, l’eccesso di realtà, il suo giungere al culmine della ipostatizzazione, è molto più sconcertante della mancanza di realtà, che almeno può essere compensata con l’utopia e con l’immaginario (J. Baudrillard 1996, p. 69).
Pertanto, anche considerando le tesi di Baudrillard solo come una provocazione, è pur vero che modificandosi il rapporto tra soggetto e oggetto, tra reale e artificiale, ed anche quello tra reale e immaginario, viene ad essere sfuggente e ambigua la stessa nozione di dialettica che sorregge alla radice il pensiero utopico.
Quindi bisogna porre la domanda se sia ancora possibile pensare e tracciare quella linea differenziante che consentiva all’uomo di ri-conoscere l’identico, il medesimo e l’altro; quella stessa oscillazione che consente di pensare ancora un questo e un quello, un vero e un falso, e i luoghi-tempo del questo e del quello.
Non dimentichiamo che nello spazio virtuale siamo noi a «passare tecnicamente da un luogo ad un altro; mentre, nello spazio poetico, utopico o mitologico, sono i luoghi, sono gli Dei a trasformarsi in noi – e noi siamo il teatro di questa metamorfosi, il luogo privilegiato in cui le loro forze si incrociano e in cui ci abitano tutti, nell’ una o nell’altra vita, in un momento o nell’altro” (J. Baudrillard 2006, pp. 179-180).
A tal proposito, ci si dovrebbe anche chiedere quale forza deve rappresentare il futuro nel presente. Non è proprio la domanda sul futuro che in questa prospettiva decade, se prevale un carattere utopico-immanente al nostro agire, cioè se restiamo «all’ombra di un utopismo non voluto, intrinseco, automatico…»? (H. Jonas 2009, pp. 30-32).
E ancora: in questa anamorfosi delle prospettive, come è possibile pensare o riorientare il nostro punto di osservazione sul mondo, ammesso che ve ne possa essere uno? In altri termini, in base a quali riferimenti di spazialità e temporalità poter ancora pensare l’impossibile per migliorare il possibile attraverso le forme dell’utopia e dell’ucronia?
Il nucleo sottostante della domanda si annoda attorno al senso della storia; e qui mi pare che Baudrillard tocchi un punto di estrema criticità del nostro tempo: se la storia diventasse solo una memoria senza passato, accumulativa e istantanea, ogni dialettica tra passato, presente e futuro svanirebbe e con essa il motore stesso di ogni progetto utopico.
In tal caso, quel che nell’utopia punta all’infinito e all’irrealizzabile per fecondare e sovvertire il campo del possibile e lasciar irrompere l’immaginazione e la forza sovversiva delle idee, sembra dissolversi nella sua stessa positivizzazione.
E se è pur vero che di utopia l’umanità ha avuto bisogno per poter incidere e trasformare il presente attraverso la capacità di immaginare il futuro, forse oggi dovremmo chiederci di quale umanità ha bisogno l’utopia per sopravvivere.


Riferimenti bibliografici

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