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I giovani e il futuro tra speranza e minaccia. Post-it sul tempo senza tempo

LUCA ALICI e SARA MOLLICCHI
Articolo pubblicato nella sezione: Il "vissuto" della crisi - Testimonianze.

C’è un fotogramma, magnifico ed esplosivo, nel finale di The Truman Show, che meglio di tante parole raffigura insieme il tempo e lo spazio che i giovani sono chiamati ad abitare in questo scorcio complesso della nostra contemporaneità: Truman decide di cambiare la propria vita, inerme e inerziale; affronta l’ignoto mare artificiale e la terribile burrasca generata per intimorirlo; arriva letteralmente a sfondare il cielo con la sua barca improvvisata; cammina quasi sovrumanamente lungo la linea dell’orizzonte e sfiora con la propria mano un cielo finto, fatto di cartapesta; resta soffocato e senza parole per la disperazione.
Il cielo di Truman è la metafora di un futuro finito e di uno spazio chiuso, che altri hanno costruito per noi e di cui noi ora possiamo solo toccare la limitatezza, camminando sull’acqua con l’abilità tutta post-moderna di chi ha a che fare con la liquidità dei legami, la solubilità degli ambienti e la precarietà delle occupazioni: nessun invito all’assunzione di responsabilità, ma solo alla sopravvivenza quotidiana. Scrive Quintiliano: «Il massimo peccato può essere quello, per sopravvivere, di perdere le ragioni della vita». Di tali ragioni, continuamente sotto la tentazione della dissoluzione, queste righe, nella forma frammentata dei post-it, vorrebbero rivendicare l’importanza in contro-luce, passando cioè dalla semplice descrizione personale, nutrita del solo taglio testimoniale, di quegli angoli oscuri che il nostro tempo e il nostro spazio stanno ampliando e in cui rischiano di essere soffocati progetti e speranze.


Una nuova mercificazione delle relazioni

Conoscere ed incontrare: per una vita ben centrata, forte di una spina dorsale esistenziale e lavorativa solida, senza incurvature di sfiducia, rappresentano “semplicemente” le due coordinate entro cui ci si può proiettare oltre se stessi e arricchire di volti, storie, testimonianze, conoscenze, esperienze in una reciprocità feconda e preziosa; per una vita affannata e incerta, indebolita e fiaccata dal carico di voci di spesa e capitoli di lavoro, senza uno scheletro capace di reggere il peso di tante differenti righe di un curriculum che manca dell’essenziale, “tragicamente” diventano un investimento lavorativo e la via pervertita per saziare un appetito famelico. C’è un versante diabolico che mette sotto assedio gli incontri che animano la vita di giovane precario, ovvero la tentazione di guardare con occhio strumentale la persona che si incontra: “non si sa cosa potrà nascerne”; “chissà, da cosa nasce cosa”; “è bene che sia presente a questa iniziativa perché non si sa mai”. Dal volontariato alla politica, dalle amicizie alle conoscenze, la crisi rischia di cambiare il volto delle relazioni e ammantarle di una mercificazione che sa già di tradimento della loro natura autentica. Forse è il versante meno evidente e più subdolo, ma senz’altro quello antropologicamente più radicale, che rischia di mutare profondamente i contorni della relazionalità umana, per sovraccaricarla di ciò che per natura non è: da opportunità di crescita a occasione di lavoro; da incontro che mi forma a possibilità che mi sistema; da gratuità a merce.


Una narrazione piccola piccola

Il precariato dovrebbe destare forse indignazione, o ira. Per il tempo presente, ci concediamo una più modesta isteria.
Il racconto del lavoro intermittente è una questione di autobiografia, anche quando compare sui giornali. La mia storia parla di un call center e di un contratto da sei mesi. La tua delle supplenze a scuola la mattina e del lavoro serale al ristorante. Abbiamo conoscenze in comune: il tale che fa praticantato senza rimborsi nello studio dell'avvocato, la commessa che incontriamo di tanto in tanto dentro al negozio sull'altro lato della strada. Ogni resoconto è una miniatura con i suoi vividi dettagli.
Anche il discorso quotidiano sul precariato è nella forma della conversazione, a volte anche animata. Si domanda al singolo perché non abbia più spirito d'iniziativa. Perché non individui delle priorità, evitando di perdere tempo. Potrebbe essere meno accomodante con il capo. O, perlomeno, tenere più d'occhio i colleghi. Dal punto di vista degli altri, quelli che si sono trasferiti e sembrano a loro agio in un precariato estero più indulgente, è difficile comprendere chi resta. La sua remissività, la sua autoironica dimestichezza nell'arrangiarsi, nel fare buon viso a cattivo gioco.
Eppure, il precariato ha una portata generale. È l'atmosfera che permea le conversazioni. L’aria di sospensione e di attesa tra una scossa di terremoto e l'altra. Il senso di partecipazione e sollecitudine di chi guarda in televisione una catastrofe all'altro lato del globo. Gli alluvionati siamo noi, e ci facciamo una gran pena. Tutti nelle stesse condizioni. Questi “tutti”, però, è difficile rintracciarli. Nel caso i ricercatori a contratto cerchino di organizzarsi in assemblea, percorreranno per mesi i corridoi dell'amministrazione universitaria, in cerca di una stima almeno del numero dei precari che lavorano nell'Ateneo. Il primo ufficio ha la lista soltanto degli assegnisti di ricerca e dei dottorandi - qualcuno osserva che i dottorandi non sono precari, perché sono studenti e hanno un contratto di ben tre anni, ma viene ignorato. Il secondo ufficio avverte che soltanto i singoli dipartimenti sono a conoscenza di taluni contratti attivati. Il segretario del dipartimento ha le idee confuse in materia, ma in compenso solleva il problema di coloro che non sono a contratto ora, ma forse torneranno ad averne uno tra tre mesi.
In ogni caso, chiunque è convinto che le cose andranno meglio in futuro. Si sbloccheranno i finanziamenti per l'università e la scuola, si regolamenteranno i contratti senza protezione, si farà una seria riforma delle pensioni, e anche l'economia segnerà una ripresa. Non può andare altrimenti. In lontananza, la presenza silenziosa di un’epidemia, di una calamità naturale - non certo di un problema.
Dopo un po’ i precari in assemblea sono diminuiti, e lo sforzo organizzativo è rallentato. Gli incontri somigliano sempre più a quelli del gruppo di alcolisti anonimi di un telefilm. Qualcuno riferisce la sua personale lamentela, gli altri annuiscono. Il che, con lo stipendio che si ritrovano, è sempre meglio che cercarsi un analista.


Cercansi adulti

Adultus, ovvero il participio passato di adolescere, la cui radice indica portare a compimento qualcosa: un participio diventato futuro remoto, potremmo dire oggi, visto il modo sfuocato e sempre più prolungato nel tempo - come lo definiscono alcuni studiosi - di quel percorso che è la transizione alla vita adulta. Il perenne ritardo e l’ansiosa rincorsa che rendono affannoso il cammino della crescita ha un ulteriore strascico per i giovani cresciuti nel tempo a breve termine del precariato, quello di costringere a rivedere le età della vita. Quando, oggi, ci si può dire adulti? Senza semplificazioni che rischiano di banalizzare, resta però sul tavolo l’impatto che la precarietà ha nella consapevolezza di sé, sia sul fronte della propria identità che su quello della propria “età”. L’essere continuamente sottoposti alla ridiscussione radicale di un impegno, dei suoi sacrifici e delle sue conseguenze, che restano costantemente provvisori, è come se in un certo senso traducesse e normalizzasse quell’inquietudine tipicamente adolescenziale, in cui si mettono alla prova vocazioni, progetti e sogni. Se è vero che si diventa adulti reggendo il peso intimo di alcuni abbandoni, la solitudine di alcuni conflitti, la lungimiranza di alcune responsabilità, se è vero che questo percorso verso il traguardo mai raggiungibile di sé necessita della saggezza dei tempi lunghi, è ancora più vero però che il progetto di sé in qualche momento deve cominciare ad essere abitato: la precarietà e la dipendenza dall’insicurezza ritardano l’abitare una responsabilità adulta, rischiando così persino di far apparire impossibile l’impegno di un futuro insieme ad un’altra vita amata e la disponibilità ad accogliere con amore una vita generata.


Concentrazione

Un'idea si ripete di continuo negli scritti di David Foster Wallace. Nel suo romanzo Infinite Jest compare più volte nell'elenco delle cose (poco) «nuove e curiose» che si scoprono soggiornando in una struttura di recupero per tossicodipendenti: «che costa fatica dedicare più di pochi secondi di attenzione ad un qualsiasi stimolo [...]. Che le attività noiose diventano perversamente molto meno noiose se ci si concentra molto su di esse». Ho sempre pensato che questo significhi qualcosa per il precario di lusso che è a volte il ricercatore o la ricercatrice universitaria, nell'ambito cosiddetto «umanistico» in particolare. Tutti sanno che lo studio non comporta la durezza del lavoro manuale. La fatica dello studio è meno nobile e più opaca: è semplicemente quella della noia. Apriamo la prima pagina di un nuovo libro, la prima schermata del computer. Le prime parole lette cadono nel vuoto. Scorrono minuti e secondi. Occorre grattare via i primi strati di noia. E avere a disposizione un tempo prolungato. Naturalmente, alcuni testi hanno un fascino istantaneo. Ma altri sono impervi, o piatti. Gli strati di noia e di distrazione vengono via uno per uno. E compare quell'idea che sapevi essere nascosta dentro i fatti di cronaca, in mezzo agli avvenimenti storici che hai vissuto dalla periferia, nel rumore di fondo dei testi che hai letto e dimenticato. L'intuizione che mostra per quale ragione quel certo particolare nei fatti ti sembrava importante dall'inizio, e la misura in cui, pensandoci per conto tuo, non avresti mai saputo spiegare perché. Si rischia di diventare molesti, quando si è (si pensa di avere) capito qualcosa: chiunque è un potenziale interlocutore da tormentare con la spiegazione della novità, in ogni suo più minimo dettaglio. In molti casi, ovviamente, la conquista non era poi straordinaria. A volte rimane di essa, nel tempo, soltanto la parte meno appariscente: la sensazione di sé come persona che comprende. Di essere il soggetto che domani dovrà riprendere in mano il lavoro.
Ora, si dice un gran male del lavoro precario. Ma non è noioso, non c'è che dire. Prendere un impegno significa da subito essere in ritardo. L'ordine del giorno di incombenze, slegate da studio e insegnamento, tutte diverse tra loro, che il precario della ricerca deve accettare per rimanere nel giro, sono una girandola. In quanto tali, molte non sono esaltanti. Ma sono brevi, veloci e sincronizzate, e non c'è tempo per accorgersene. Anzi, mentre, nello stesso momento, controlla la posta elettronica, risponde al telefono, compila moduli di spesa, il precario si congratula con se stesso. Che impeccabile efficienza gestionale! L'ebbrezza funzionale del multi-tasking. Alla fine di una giornata di perfetto controllo, resta la lista delle attività spuntate. Pronta per finire nella spazzatura.
Ma come si spiega tutto questo in un discorso sensato? Un discorso responsabile e costruttivo? Salire sulle barricate per l'eguaglianza è un po’ demodé. La parola «ammortizzatore sociale» non accende la fantasia, ma almeno è comprensibile. Si può chiedere a qualcuno di battersi in nome della noia?


Il pensare come un fare

Per chi prova a credere nell’idea che lo studio possa avere una sua dignità nel corso dell’intera esistenza, nella misura in cui riesce ad essere generativo almeno su un duplice fronte (quello di un contributo alla ricerca e quello di un contributo alla didattica), questo nostro tempo costituisce una provocazione forte. Scompagina infatti gli equilibri tra insegnamento e ricerca e piega a logiche utilitaristiche e strumentali la scrittura, in nome di una produttività quasi industriale. La didattica, grande orfano nella vita professionale di quei docenti che non ne avvertono la dimensione decisiva di servizio alla società e di continua crescita personale, finisce spesso sulle spalle di chi si vede costretto prima a insegnare e poi a pensare a cosa sta insegnando (qualcosa di urgente nelle agende e secondario negli stimoli, persino per i giovani, creando così un circuito vizioso difficile da interrompere). La ricerca ha dismesso i panni della profondità, come se non ci fosse tempo per stare dietro alle righe di un’opera, alla voce di un classico, alla “astrattezza” di un tema: leggere opere sembra non consenta di leggere la realtà, avere tempo per attingere ad una biblioteca sembra un eccesso di inattualità nel tempo delle fonti in rete, pensare sembra debba necessariamente far rima con fare. Lungi da queste righe rivendicare vagheggiamenti distanti dall’umano o retoriche fini a se stesse, ma la grande sfida delle categorie, la grande ambizione di farsi interprete di un classico, la comprensibile fatica dello scrivere sembra che non abbiano più diritto di cittadinanza nella temporalità accelerata che viviamo. Ecco allora che l’esito di una ricerca nel campo delle discipline umanistiche deve poter essere toccato e misurato come i dati di un esperimento in laboratorio e la serietà di un progetto deve poter essere misurato nei termini del prodotto. Ricerca, didattica, scrittura: questo ordine non è più gerarchico.


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