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Deliberazione e democrazia nella tradizione del pensiero politico occidentale

ROBERTO GIANNETTI
Articolo pubblicato nella sezione La democrazia deliberativa: utopia o progetto politico?

Nella tradizione filosofica occidentale la parola deliberazione, in un’accezione che risale all’Etica nicomachea di Aristotele (III, 1112a 18–1113b 14), viene utilizzata per indicare la fase che precede la decisione, nella quale gli individui attraverso la riflessione, l’analisi e il dibattito, valutano i diversi argomenti a favore o contro una determinata scelta. Sin dalle origini la deliberazione è sempre stata associata alla democrazia (Elster 1998), come testimonia il fatto che i teorici contemporanei della democrazia deliberativa si richiamino più o meno esplicitamente all’esperienza dei greci. Nel ripercorrere l’evoluzione del rapporto tra deliberazione e democrazia distinguerò, secondo lo schema proposto da Boniolo (2011, p. 13), tre diversi aspetti della deliberazione: la deliberazione come «caratteristica di una specifica forma di democrazia»; la deliberazione come «pratica attuata dai rappresentanti»; infine, la deliberazione come «momento propedeutico» che precede il voto o l’elezione dei rappresentanti, limitata a un numero ristretto di individui.


Deliberazione e democrazia diretta

La tesi secondo cui la deliberazione esprima un valore autenticamente democratico risale alla democrazia ateniese, una forma di governo in cui il popolo esercitava in modo diretto la sovranità. Coloro che godevano del diritto di cittadinanza si riunivano fisicamente nella pubblica piazza per esprimere la loro volontà su tutte le questioni politiche, demandando l’esecuzione delle decisioni a magistrature di breve durata – in genere annuali – scelte attraverso l’elezione o il sorteggio. Il ricorso massiccio all’estrazione a sorte per la nomina dei magistrati, combinato con la rotazione delle cariche, costituiva la modalità attraverso cui veniva attuato un principio cardine della democrazia ateniese, in base al quale – come afferma Aristotele nella Politica (VI, 2, 1317a 40-1317b 2) – la libertà democratica consisteva «nel governare e nell’essere governati a turno». Il diritto che la polis riconosceva a tutti i cittadini di salire alla tribuna e di prendere la parola in assemblea (isegoria), di avere eguali probabilità di assumere una carica pubblica o di svolgere la funzione di giurato, si basava sull’assunto che nessuno fosse privo, per lo meno potenzialmente, delle capacità necessarie per prendere parte alle decisioni collettive oltre che su una profonda sfiducia nei confronti della politica come professione.
L’idea che la competenza deliberativa fosse prerogativa di tutti i cittadini è efficacemente sintetizzata in un mito contenuto nel dialogo platonico Protagora (319A-323C). Zeus ha attribuito la giustizia e il rispetto – che sono le basi dell’arte politica – a tutti gli uomini, dal momento che se fossero state riservate solo ad alcuni, come nel caso delle arti che richiedono competenze specialistiche, le città non sarebbero state in grado di sopravvivere e l’umanità sarebbe perita. Il concetto espresso dal mito è che la virtù politica è qualcosa di strettamente legato alla natura dell’uomo: di conseguenza tutti i cittadini hanno il diritto di esprimere le proprie opinioni sulle questioni politiche e di partecipare alla discussione pubblica. Il ruolo centrale che gli ateniesi attribuivano alla deliberazione emerge anche nel logos epitaphios, l’orazione di Pericle, tramandataci da Tucidide (II, 40), pronunciata per commemorare i caduti nel primo anno della guerra del Peloponneso. In quel testo si afferma infatti che il sistema politico e lo stile di vita degli ateniesi si fondano su un impegno costante del cittadino verso la comunità politica e sulle virtù del dibattito pubblico.
L’epitaffio di Pericle esprimeva una concezione prescrittiva della democrazia. Anche se Atene era una democrazia diretta fondata sull’isegoria, ciò non significava infatti che tutti potessero esercitare questo diritto. Lo impedivano le dimensioni dell’assemblea: è evidente che se tutti i cittadini – si trattava di alcune migliaia – avessero preso la parola, la durata di ogni riunione sarebbe stata tale da paralizzare il processo decisionale. Inoltre, non va dimenticato che esistevano istituti come la graphé paranomon in grado di disciplinare l’isegoria: ogni cittadino doveva tener conto del fatto che avrebbe potuto essere incriminato, incorrendo in gravi sanzioni, per aver sottoposto all’assemblea una proposta giudicata illegale. Il dibattito finiva quindi per essere egemonizzato dagli oratori, cioè da persone particolarmente versate nella retorica, ovvero l’arte di parlare in pubblico in modo persuasivo e di prevalere nelle discussioni attraverso un uso sapiente delle più scaltrite argomentazioni. Da qui il timore, condiviso da molti, che la democrazia potesse facilmente scivolare nella demagogia o la convinzione, espressa in modo particolare da Platone, che quest’ultima costituisse l’essenza stessa del governo popolare.


Deliberazione e governo rappresentativo

È un dato incontestabile che sin dalle origini il governo rappresentativo sia sempre stato concepito come quel sistema politico in cui l’assemblea esercita un ruolo chiave e che l’idea della rappresentanza sia sempre stata associata alla deliberazione. Tale aspetto è visibile soprattutto nel pensiero di Edmund Burke, uno dei difensori più autorevoli, da un punto di vista liberale, della funzione deliberativa delle assemblee rappresentative. Per il pensatore anglo-irlandese il parlamento non è «un congresso di ambasciatori di interessi diversi e ostili», ma «un’assemblea deliberativa di una nazione, con un solo interesse, quello dell’intero; dove non dovrebbero essere di guida scopi e pregiudizi locali, ma il bene generale» (Burke 1999, pp. 11-12). Burke riteneva che l’interesse della nazione fosse oggettivo, razionalmente definibile e indipendente dalle aspirazioni degli individui e dei gruppi e che fosse compito dell’assemblea rappresentativa identificarlo attraverso le opportune procedure deliberative. La funzione epistemica attribuita alla deliberazione si può desumere dal profilo del rappresentante che Burke tratteggia nelle sue opere e, in particolare, dal suo esplicito rifiuto della logica del mandato imperativo. Pur affermando che i deputati devono tener conto dell’opinione di coloro che li eleggono, egli sottolineava che «istruzioni imperative, mandati che il membro del parlamento sia tenuto ciecamente e implicitamente a obbedire, a votare e a sostenere, anche se contrari alla limpida convinzione del suo giudizio e della sua coscienza, […] sono cose del tutto sconosciute alle leggi di questa terra, e che nascono da un fraintendimento fondamentale di tutto lo spirito e il tenore della nostra costituzione» (Burke 1999, p. 11). Per Burke l’esprit de géométrie intrinseco alla democrazia era incompatibile con la funzione deliberativa assegnata all’assemblea parlamentare ed egli era convinto che quest’ultima potesse svolgere questo compito soltanto nell’ambito di una società che riservasse la sfera politica ad un’aristocrazia altamente selezionata.
L’intreccio tra deliberazione e rappresentanza si colloca anche al centro dei dibattiti sulla ratifica della costituzione americana redatta a Filadelfia. Tali discussioni vedevano contrapposte due diverse concezioni della rappresentanza. Gli antifederalisti sostenevano che i rappresentanti avrebbero dovuto assomigliare quanto più possibile ai loro elettori e costituire una sorta di popolo in miniatura. Solo se l’assemblea rappresentativa fosse stata lo specchio del corpo elettorale, si sarebbe garantita l’identità tra la volontà dei rappresentanti e quella del popolo e i rappresentanti avrebbero potuto agire come avrebbe agito il popolo stesso. I federalisti, e in particolare Madison, ritenevano invece che i rappresentanti si sarebbero dovuti distinguere dal popolo. Le elezioni avevano infatti la funzione di selezionare un’«aristocrazia naturale» e di far emergere la diversità tra elettori ed eletti, che consisteva nel possesso di speciali requisiti che avrebbero consentito ai rappresentanti di svolgere al meglio il loro compito. Gli autori del Federalist sottolineavano la sostanziale differenza e l’intrinseca superiorità rispetto alle democrazie assembleari dell’antichità di un sistema politico nel quale i cittadini affidano l’esercizio del loro potere a rappresentanti da loro scelti. La «delega dell’azione governativa ad un piccolo numero di cittadini eletto dagli altri» permetteva infatti di «affinare ed allargare la visione dell’opinione pubblica, attraverso la mediazione di un corpo scelto di cittadini, la cui provata saggezza può meglio discernere l’interesse effettivo del proprio paese, ed il cui patriottismo e la cui sete di giustizia renderebbero meno probabile che si sacrifichi il bene del paese a considerazioni particolarissime e transitorie» (Madison 1997, pp. 194-195). Rovesciando il punto di vista degli antifederalisti, Madison sosteneva che «in un regime di questo genere, può ben avvenire che la voce del popolo, espressa dai suoi rappresentanti, possa meglio rispondere al bene di tutti, di quanto non avverrebbe se essa fosse espressa direttamente dal popolo riunito con questo specifico scopo» (Madison 1997, p. 195). Come ha osservato Fishkin – uno degli autori cui si deve la riscoperta dell’ideale deliberativo nel pensiero politico contemporaneo – una costante del pensiero di Madison è proprio la distinzione tra un’opinione pubblica «raffinata», che può emergere soltanto attraverso il «filtro» della deliberazione che avviene nell’ambito di un organismo rappresentativo ristretto, e un’opinione pubblica «grezza», che rispecchia pregiudizi ingannevoli, passioni momentanee ed interessi contingenti (Fishkin 2003, p. 160).
Nelle riflessioni dei primi teorici del governo rappresentativo che si trovarono ad agire sulle opposte sponde dell’Atlantico in scenari politici profondamente differenti emergono alcuni elementi comuni. In primo luogo, l’assemblea rappresentativa, un organismo dalle dimensioni limitate, è il luogo specifico della deliberazione. In secondo luogo, la deliberazione assolve una duplice funzione, quella di produrre un consenso e di identificare l’interesse collettivo. Infine, affinché la deliberazione sia efficace occorre che i rappresentanti siano espressione delle élites della nazione e non siano vincolati ad adeguarsi alle direttive ricevute dai loro elettori né ad attenersi agli impegni assunti di fronte al corpo elettorale.


Non solo élites: la funzione pedagogica della deliberazione

John Stuart Mill può certamente essere considerato un autentico precursore delle moderne teorie della democrazia deliberativa. L’aspetto più originale della sua riflessione sul governo rappresentativo riguarda infatti l’analisi degli effetti delle procedure deliberative sui cittadini. Per il filosofo inglese, il compito fondamentale delle istituzioni politiche è quello di sviluppare le «qualità intellettuali, morali e pratiche» dei cittadini e la democrazia rappresentativa è quella forma di governo che più di ogni altra riesce a «influenzare il carattere individuale» (Mill 1997, pp. 29, 51). Uno dei suoi meriti principali consiste infatti «nell’educare l’intelligenza e i sentimenti persino degli strati più bassi» della popolazione: fornendo a tutti la possibilità di partecipare attivamente alla vita politica, la democrazia fa in modo che il cittadino privato sia indotto a «prendere in considerazione interessi che non sono i suoi, a essere guidato, in presenza di rivendicazioni conflittuali, da una regola diversa dal suo giudizio di parte, ad applicare ogni volta principi e regole che hanno la loro ragion d’essere nel bene comune, e […] a lavorare insieme con persone dalla mente più abituata della sua a quelle idee e a quelle operazioni in grado di indirizzare la sua intelligenza e il suo sentimento verso l’interesse generale» (Mill 1997, pp. 128-129, 58). Pur condividendo molti dei timori nei confronti della democrazia espressi dai conservatori, Mill riteneva che fosse inaccettabile una posizione di principio a favore della limitazione del diritto di voto, perché assumere questa prospettiva avrebbe significato privare una parte cospicua della popolazione – all’epoca la stragrande maggioranza – di qualsiasi possibilità di miglioramento intellettuale e quindi negare la stessa ragion d’essere del governo democratico. A giudizio di Mill, la diffusione delle procedure deliberative, considerate dal punto di vista dei loro effetti sui cittadini, era in grado di raggiungere tre obiettivi fondamentali. In primo luogo, avrebbe stimolato le riflessioni della gente comune sulla condotta degli affari pubblici, allargato i suoi orizzonti, promosso l’espansione delle conoscenze e migliorato le sue capacità intellettuali, contribuendo in modo decisivo alla creazione di una cittadinanza informata ed impegnata. In secondo luogo, si sarebbe rivelata un potente strumento di educazione morale, favorendo attraverso la comunicazione tra i cittadini la trasformazione degli ordinamenti di preferenza individuali che generalmente collocano al primo posto il soddisfacimento di interessi egoistici e di breve periodo. Infine, le procedure deliberative avrebbero avuto un ruolo importante anche nel rafforzamento della legittimità del sistema politico democratico perché, consentendo l’espressione e la ponderazione di tutti i punti di vista, avrebbero reso più facilmente accettabili per le minoranze dissenzienti le decisioni assunte dalla maggioranza.


L’eclissi della deliberazione

La seconda metà del XX secolo è stata dominata da una concezione «aggregativa» del processo democratico, che ha posto al centro della riflessione l’analisi dei meccanismi decisionali quali il voto, considerati come gli strumenti fondamentali per aggregare in una scelta collettiva le diverse preferenze e i diversi interessi individuali che caratterizzano inevitabilmente le moderne società pluralistiche. Nella sua critica alla «dottrina classica» della democrazia Schumpeter (1955) sottolineava che postulare l’esistenza di un bene comune, inteso come un’entità oggettivamente identificabile, significava in realtà fare riferimento ad un criterio del tutto inconsistente, dato che individui e gruppi diversi esprimono necessariamente una concezione soggettiva dell’interesse collettivo. La disinformazione e il disinteresse per la maggior parte delle questioni politiche e l’eterogeneità degli interessi individuali rendevano evanescente anche la nozione di volontà popolare. L’economista austriaco riteneva che la maggior parte delle persone mostrasse scarso interesse nei confronti della politica e che anche coloro che possedevano un certo grado di istruzione non fossero necessariamente in grado di padroneggiare questioni complesse come quelle politiche. Era necessario pertanto riformulare la dottrina classica della democrazia, riconoscendo che il metodo democratico non è nient’altro che uno strumento per selezionare la classe politica e che il ruolo del popolo consiste soltanto nell’accettazione di una leadership, accettazione resa significativa dalla competizione di una pluralità di individui e di gruppi per la conquista del potere. Il processo democratico è modellato in analogia con il mercato. I partiti e i candidati, come gli imprenditori, formulano i loro programmi politici rispondendo alle preferenze degli elettori, i quali, a loro volta, come i consumatori, scelgono la proposta che giudicano più convincente o che maggiormente riflette i loro interessi. Alcune delle intuizioni di Schumpeter verranno riformulate da Downs (1988), il quale metterà in evidenza il problema ineludibile dei costi di informazione e il cosiddetto fenomeno dell’«ignoranza razionale». Per farsi un’opinione sufficientemente precisa sui problemi politici del momento e votare in funzione delle loro preferenze per una determinata soluzione, gli individui dovrebbero dedicare una parte considerevole del loro tempo a questo tipo di attività. E questi costi sono del tutto sproporzionati rispetto all’effetto che il cittadino potrebbe produrre con il suo voto. E Hardin (1999, p. 93), dal canto suo, osserverà che il fenomeno dell’«ignoranza razionale» non rinvia a «un comportamento riprovevole o da considerare immorale o irresponsabile», ma è piuttosto «la naturale implicazione di quella divisione del lavoro che rende la vita più ricca per tutti noi». La concezione procedurale della democrazia articolata da Schumpeter ha influenzato profondamente la maggior parte dei teorici della democrazia del Novecento, da Sartori a Dahl, per i quali le procedure democratiche servono per aggregare le domande e trasformarle in decisioni collettive e non – come sostengono i teorici della democrazia deliberativa – per fornire giustificazioni circa l’accettabilità razionale delle decisioni.


La riscoperta dell’ideale deliberativo

Gli ultimi decenni sono stati caratterizzati da una riscoperta dell’ideale deliberativo che ha condotto all’elaborazione di una concezione della democrazia alternativa a quella che ha dominato il dibattito scientifico e intellettuale nel corso del Novecento. Si può sostenere che, indipendentemente dalle differenze che li contraddistinguono, i teorici della democrazia deliberativa concordano nel ritenere che un sistema politico per essere definito autenticamente democratico dovrebbe rispettare almeno tre condizioni che riguardano, rispettivamente, l’inclusione, le procedure di voto e il dibattito pubblico. In particolare, tutti coloro che appartengono ad una comunità politica dovrebbero avere il diritto di esprimere attraverso il voto la propria opinione sul modo di risolvere i problemi collettivi (inclusive constraint); prima del voto dovrebbero discutere dal punto di vista dell’interesse comune quale decisione sia preferibile (judgmental constraint); la discussione dovrebbe essere quanto più possibile aperta e priva di costrizioni (dialogic constraint) (Pettit 2001, pp. 270-271). Una delle differenze più significative rispetto alla tradizione aggregativa riguarda il ruolo assegnato alla deliberazione nella trasformazione delle preferenze individuali e la connessa distinzione tra una decisione collettiva basata unicamente sulla «forza dei numeri» e una fondata sulla «forza delle ragioni» (Habermas 1986). Se i sostenitori della concezione aggregativa hanno posto l’accento soprattutto sul momento del voto, inteso come meccanismo per aggregare preferenze eterogenee assunte come date, i teorici della democrazia deliberativa, partendo dal presupposto che le preferenze sono suscettibili di essere trasformate, sottolineano invece l’importanza della fase che precede il voto e di quegli strumenti che possono spingere i cittadini a riformulare i propri ordinamenti di preferenza individuali, tenendo conto degli interessi degli altri.
Sono almeno tre gli obiettivi che secondo i sostenitori di questa concezione della democrazia la deliberazione è in grado di raggiungere: in primo luogo, il processo deliberativo produce decisioni migliori, poiché permette di condividere le informazioni disperse tra i vari attori, di ridefinire i problemi e di elaborare soluzioni innovative; in secondo luogo, rafforza la legittimità delle decisioni, perché nel corso della deliberazione vengono presi in considerazione e discussi tutti i punti di vista, ivi compresi quelli di coloro che dissentono dall’esito della decisione finale; infine, rafforza lo spirito civico, perché favorisce le virtù del dialogo, del rispetto, della tolleranza e promuove una maggiore sensibilità nei confronti dell’interesse comune.
Nonostante rappresenti sotto molti aspetti una novità nel panorama delle teorie democratiche, la democrazia deliberativa mantiene un forte legame con molte delle idee che abbiamo esaminato nei paragrafi precedenti. Gli esempi sono numerosi, a cominciare dalla riscoperta dell’uso del sorteggio, una procedura che in ambito politico era stata completamente abbandonata dopo l’esperienza della democrazia ateniese e delle repubbliche cittadine italiane. Se in quelle esperienze il ricorso all’estrazione a sorte serviva per l’attribuzione delle cariche pubbliche, oggi il sorteggio viene utilizzato per selezionare un campione casuale dell’elettorato, «una sorta di microcosmo cittadino», chiamato ad esprimersi ed eventualmente a prendere delle decisioni in nome della collettività (Sintomer 2009, p. 178). L’idea, in sostanza, è quella di riportare in auge alcuni dei principi che avevano ispirato la democrazia antica e, in particolare, di ridimensionare il ruolo dei professionisti della politica dato che qualsiasi cittadino, se sufficientemente informato, è abbastanza qualificato per poter esprimere un’opinione che merita di essere ascoltata. Oppure si pensi al sondaggio deliberativo. Secondo il suo ideatore questo esperimento può essere interpretato come uno strumento per combinare le due concezioni della rappresentanza che erano emerse durante il dibattito sulla ratifica della costituzione americana. Come è noto, il sondaggio deliberativo prevede che il campione si pronunci prima e dopo la deliberazione. I risultati che emergono nella prima fase incorporano l’idea della rappresentanza come «specchio», cioè esprimono «l’opinione pubblica così com’è realmente, con tutti i suoi limiti e le sue imperfezioni»; i risultati che si ottengono alla fine della procedura riflettono gli effetti dell’azione di «filtraggio» ed esprimono quell’opinione «raffinata» che il pubblico avrebbe se avesse l’opportunità di essere informato e di discutere sul problema in questione (Fishkin 2003, p. 172).
Nonostante siano stati ideati numerosi strumenti (Gastil - Levine 2005) per tentare di istituzionalizzare le procedure deliberative e dare attuazione pratica all’ideale di una democrazia fondata sulla discussione pubblica tra cittadini liberi ed eguali, l’impressione che si ricava è che le critiche che Schumpeter muoveva alla dottrina classica della democrazia siano applicabili anche al metodo deliberativo. Come è stato osservato, se è logico attendersi che coloro che occupano posti di responsabilità all’interno del governo o gli stessi legislatori si impegnino nella deliberazione, è irrealistico aspettarsi o auspicare che i cittadini comuni facciano altrettanto, anche tenendo conto del maggiore accesso all’informazione facilitato dalle nuove tecnologie della comunicazione. Con ciò non si intende negare un ruolo importante alla deliberazione nel contesto delle moderne democrazie rappresentative, bensì ridimensionare la pretesa, avanzata da alcuni, in base alla quale la democrazia deliberativa costituirebbe la piena incarnazione dell’ideale democratico.


Bibliografia

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Aristotele (2011), Politica, Laterza, Roma-Bari.
Boniolo G. (2011), Il pulpito e la piazza. Democrazia, deliberazione e scienze della vita, Raffaello Cortina Editore, Milano.
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Pettit P. (2001), Deliberative Democracy and the Discursive Dilemma, in «Philosophical Issues» (supp. di «Nous»), 35, pp. 268-299.
Platone (2001), Protagora, Bompiani, Milano.
Schumpeter J. A. (1955), Capitalismo, socialismo e democrazia, Comunità, Milano.
Sintomer Y. (2009), Il potere al popolo. Giurie cittadine, sorteggio e democrazia partecipativa, Dedalo, Bari.
Tucidide (2000), La guerra del Peloponneso, Rizzoli, Milano.



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