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“Amor fati”, mercato e società dei consumi: il “caso” Warhol

ATTILIO BRUZZONE
Articolo pubblicato nella sezione Tra le righe.

1. Arte e società

Come nota con lucido disincanto Arnold Hauser, è un fatto incontestabile che, nonostante i lamenti di molti nostalgici che rimpiangono e vagheggiano epoche di profonda purezza e onestà intellettuale che mai sono realmente esistite, il fenomeno veramente nuovo dell’arte moderna, iniziato col Romanticismo e proseguito sostanzialmente fino alla Pop Art, «non è tanto la commercializzazione della produzione artistica [che, seppur in modi e livelli diversi, c’è sempre stata] quanto piuttosto l’estraniamento e l’isolamento della grande arte, che dal romanticismo sembra esistere solo per l’artista e non mostra, o almeno pare non mostrare, nessun interesse per il grosso pubblico» (Hauser 1974, p. 275). Ciò non toglie, però, che negli ultimi sessant’anni, nell’epoca del dominio della società dei consumi, «nemmeno all’artista meno disposto a concessioni» si conceda «di lasciare intentata la via della popolarità» (ivi, 275). Questo perché non è più possibile estraniarsi dalla società che ormai vive compiutamente dentro e attraverso di noi. Ecco perché partiamo da qui per affrontare l’enigmatica figura ibrida di Andy Warhol, rappresentante più eminente della Pop Art, icona americana ergo globale e perfetto esempio di artista attraverso cui parla la società, ora pienamente introiettata, rappresentata e ridiretta dal lavoro dell’artista.
Warhol ha rappresentato una svolta significativa nel mondo dell’arte, continuando in maniera originale quella già iniziata dal Dadaismo all’inizio del secolo scorso. Beninteso, va aggiunto che quella della Pop Art, pur con qualche distinzione, è ancora la nostra epoca. Col senno di poi possiamo notare come socialmente non sia forse un caso che un movimento del genere sia sorto in America, paese aperto a ogni stimolo, costituito da una moltitudine di apporti diversificati e sostanzialmente privo di forti ideologie cristallizzatesi nel lungo periodo. Gli Stati Uniti, all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, combinando una netta egemonia in campo economico a un ruolo di guida politica e ideologica del mondo occidentale e allo sviluppo impetuoso dei moderni mezzi di comunicazione di massa (sviluppo favorito proprio da esigenze economiche e politiche, in prima istanza), hanno per la prima volta nella storia dell’umanità imposto in maniera non violenta ma pervasiva una cultura di massa universalmente valida a cui tutti, volenti o nolenti (o, meglio, inconsapevolmente), si conformano.

2. Dialettica

L’Europa, prima dell’America, è il continente che ha consacrato Warhol come artista «serio» (cfr. Danto 2010, p. X). Nel vecchio continente, quando non lo si snobbava, per lo più lo si celebrava entusiasticamente come critico dell’alienazione disumanizzante della società capitalistica americana oppure lo si vedeva con disprezzo come apologeta e celebratore della medesima. Entrambe queste visioni, pur con gradi diversi, sono sbagliate e misconoscono la reale posizione di Warhol (ipostatizzano adialetticamente e aproblematicamente un unico polo della realtà), ed entrambe sono da ascrivere a un approccio di marca idealista tipico del marxismo volgare più ingenuo e adialettico, da un lato volto a individuare esclusivamente nella sola base economica la struttura portante dell’intera realtà e la causa prima di ogni altro elemento sovrastrutturale, dall’altro rigidamente impostato ideologicamente e pronto a rifiutare qualsiasi teoria si discosti dai suoi canoni stabiliti a priori con apodittica certezza, così come ad accettare qualsiasi contributo possa essere letto come potenziale critica alla società capitalistica. Questo marxismo, nella sua componente più idealistica ma anche attenta a celebrare quanto possa essere letto come una critica della società capitalistica, ha decretato in Europa la fortuna intellettuale e artistica di Warhol sulla base di un fraintendimento (vederlo come critico ironico della società che lo foraggiava ampiamente). Infatti, mentre nella sua forma più rigida l’approccio marxista adialettico si declina come rifiuto dogmatico di qualsiasi teoria non immediatamente assimilabile ai suoi canoni prestabiliti e intoccabili, nella sua caratterizzazione più aperta e ingenua è invece pronto ad accettare e utilizzare qualsiasi apporto sembri configurarsi come critica anticapitalistica, senza curarsi di analizzarlo dialetticamente: da qui il rifiuto snobistico e la celebrazione di Warhol ad opera di un marxismo sclerotizzato nella sua intrinseca schizofrenia.
Quel che misconosce ideologicamente ogni visione e interpretazione di Warhol volta a celebrarlo quale profeta della denuncia dell’alienazione capitalistica, è che nella sua arte i «luoghi comuni quotidiani dello star-system o della società dei consumi [...] non sono né [pienamente] approvati, né rifiutati [...], ma in qualche modo esasperati, spinti al parossismo» (Scarpetta 1991, p. 99): si tratta, per Warhol, di appropriarsi per farne altro delle immagini della sfavillante «fantasmagoria delle merci» del mondo capitalista, e infine di «produrre un luogo comune esagerato, supplementare, un “luogo comune del luogo comune”» (ibidem), il tutto senza esprimere alcun giudizio di valore né alcuna critica. Comunque, Warhol non si è semplicemente limitato a decontestualizzare tali immagini, sganciandole dal loro codice d’origine alla maniera surrealista, bensì le ha rinforzate, trasformandole in superimmagini tramite un parossismo iperbolico (Cfr. ivi, p. 103), e, così facendo, ha mostrato nella maniera più precipua che oggi la realtà stessa è un’immagine, anticipando ogni teoria sociologica al riguardo. Ciò però non deve farci cadere nell’errore di inferire che, mutatis mutandis, Warhol fosse un celebratore e un apologeta della società capitalista in cui viveva: pur di segno opposto, questo è un fraintendimento tanto pericoloso quanto quello di chi volle e vuole vederlo come arguto critico di tale società. La soluzione del «caso» Warhol è tutta nella sottile ma perenne dialettica tra questi due poli opposti in cui si disvela la profondità della superficie, caratteristica di questa figura sfuggente ed enigmatica. La verità è che la Pop Art (e con essa Warhol stesso), accettando acriticamente l’impatto con la civiltà tecnologica e lo spazio urbano, «delega ogni aspettativa di trasformazione sociale alla politica e tende a rendere estetica la società di massa americana. Un forte pragmatismo sovraintende all’azione politica e a quella artistica, e spinge entrambe verso una divisione dei ruoli», che non permette sconfinamenti o «atteggiamenti critici che possano mettere in dubbio gli ambiti di specializzazione» (Bonito Oliva 1981, p. 123). Cavalcando l’onda travolgente di un sistema opulento per cui la produzione, il consumo e il successo rappresentano la santa trinità, e per il quale l’effettiva condizione umana in questo orizzonte (visto leibnizianamente come «il migliore dei mondi possibili», e oggi come «l’unico dei mondi possibili») è una variabile trascurabile di cui è inutile preoccuparsi, la Pop Art si muove in anticipo nel territorio postmoderno del recupero e del riciclo «di immagini provenienti dallo spazio della città, megalopoli sconfinata» (ibidem), brulicante di stimoli e merci (Cfr. Simmel 1995), e dall’universo della pubblicità, entrambi fattori essenziali e portato di un’economia in crescita esponenziale.
«La città è lo spazio, l’alveo naturale dell’american dream, inteso come sogno permanente di opulenza e di stordimento organizzato dalla merce» (Bonito Oliva 1981, p. 123). L’arte diventa quindi nel movimento pop pura rappresentazione neutra (né celebrazione né rifiuto) dello stesso American dream, «il momento di esibizione splendente e esemplare di tale sogno, la pratica alta che mette sulla scena definitiva del linguaggio lo stile basso delle immagini, prodotte dai mezzi di comunicazione di massa, dalla pubblicità e dagli altri mezzi di persuasione occulta e esplicita dell’industria americana» (ivi, pp. 123-124). L’intuizione dell’artista pop, che reagisce alla «mancanza di mondo» dell’Espressionismo astratto, è di impadronirsi del banale immaginario consumistico della vita di tutti i giorni - il mondo dei supermercati, dei centri commerciali, dei cartelloni pubblicitari, dei vari prodotti del consumo di massa, ossia il mondo tout court - per traghettarlo nel mondo privilegiato dell’arte, l’ambito della cultura, dove si ritrova trasfigurato contestualmente e sostanzialmente. In breve, l’artista introietta il consumo nell’arte e l’arte nel consumo, rendendo artistici i simboli del consumismo, paradigma e comandamento dell’economia in espansione, e consumistica l’arte, riflesso neutrale e indifferente di tale economia.
Lo strumento di quest’operazione dialettica è quello di uno stile che si «destilizza» (Warhol stesso sosteneva che «lo stile non è importante») e viene «riassorbito nella tecnica» (Cfr. Scarpetta 1991, p. 100), nella misura in cui adotta il sistema meccanico di riproduzione dell’immagine, accogliendone il procedimento e la neutralità di fondo che lo contraddistingue (Cfr. Bonito Oliva 1981, p. 129), ma che, mutatis mutandis, riacquista lo status di stile personale nell’ostentazione più grossolana dell’impersonalità. In questo procedimento anonimo che finisce per funzionare come uno stile immediatamente identificabile (il cui equivalente, nell’arte classica, era la firma dell’artista), l’artista riesce a emergere chiaramente proprio dalla sua scomparsa: è presente nell’assenza. Se in prima battuta, quest’arte riassorbe e annulla la personalità dell’artista nell’anonimità del processo, successivamente la restituisce trasfigurata e potenziata sotto forma di icona e/o marchio. Esibita mancanza di stile che si fa stile nella personale impersonalità del processo creativo/riproduttivo, e banalizzazione dell’oggetto della rappresentazione artistica, il quale - banale, troppo banale - si configura come la «versione moderna della categoria del sublime» (Baudrillard 1976, p. 131): ecco lo stile e l’esito della Pop Art. «L’oggetto cessa di essere banale nel momento in cui diviene significante: [...] la verità dell’oggetto contemporaneo non è più di servire a qualcosa, ma di significare, non è più di essere manipolato come strumento, bensì come segno» (ibidem). L’ostentata mancanza di stile si capovolge dialetticamente in stile, e l’impersonalità assurge a esempio di personalità nella neutralità del processo di esacerbazione ed estremizzazione dell’ovvio e del banale, che, a sua volta, diventa «significante»: queste sono le essenziali caratteristiche dialettiche di tutta l’ambigua produzione di Warhol e dell’arte pop, che rispecchia emblematicamente, oltrepassa e infine influenza a sua volta la società dalla quale emerge.
La standardizzazione della produzione in serie della Pop Art riverbera e potenzia la complementare standardizzazione del comportamento (che non passò inosservata a Warhol: «Tutti si somigliano, tutti agiscono allo stesso modo. È un processo sempre più profondo. Ogni persona dovrebbe essere una macchina» [Sorin 2007, p. 67]), e un più generale appiattimento di cui il mondo moderno della grande metropoli, descritto magistralmente da Simmel all’inizio del secolo scorso, è il teatro, come risulta parimenti dall’opera di Warhol. In questo mondo, vero teatro dell’assurdo, ogni differenza qualitativa scompare senza lasciare traccia, ogni sussulto psicologico è bandito nella misura in cui siamo anestetizzati a causa di una sovrastimolazione sensoriale incessante che altrimenti ci esaurirebbe in un batter d’occhio (Cfr. Simmel 1984, 1995), e gli individui si configurano come brulicanti monadi senza porte né finestre massificate e tenute «insieme» soltanto dall’omologazione al consumo. L’artista, rendendo artistici i prodotti del mondo consumistico e producendo come un automa, si avvicina alla massa anonima della gente comune: entrambi, ma su piani ben diversi, sono testimonianza radicale dell’appiattente orizzonte intrascendibile rappresentato dalla benjaminiana «fantasmagoria delle merci» del libero mercato.

3. “Amor fati”

La Pop Art è mossa da una «fantasia dello statistico» (Bonito Oliva 1981, p. 125), un’«immaginazione sociologica» (Cfr. Wright Mills 1995) che cataloga sistematicamente con occhio fenomenologico (il motto della fenomenologia «verso le cose stesse» è ora aggiornato dal più up to date «verso le immagini stesse») i «dati della realtà visiva della città» (Bonito Oliva 1981, pp. 125-126), astenendosi, beninteso, da qualsiasi giudizio di valore, secondo un pragmatismo, tipicamente americano, che non permette alcun «inutile» giudizio critico «sulla realtà che circonda l’esistenza individuale, incanalata in un ritmo produttivo teso alla specializzazione» (ivi, p. 126), e al perfezionamento finale della divisione del lavoro.
La totale mancanza di critica da parte di Andy Warhol mostra in maniera paradigmatica e impietosa la lucida consapevolezza da parte dell’artista-filosofo dell’inutilità e la banalità di ogni critica nell’orizzonte conglobante del mondo omologato dal materialismo del consumismo universale, dove non c’è spazio per l’anticonformismo del «non-identico»: il presente sistema culturale è totalitario nella misura in cui è «capace di integrare tutti i significati quale che ne sia la provenienza» (Baudrillard 1976, p. 127). La Pop Art rappresenta con brutale candore l’inevitabile compromissione dell’arte con la totalizzante e totalitaria società dei consumi, la quale «è insabbiata nella propria mitologia, [...] è sprovvista di prospettiva critica su se stessa» (ivi, p. 129) e procede inesorabile all’autoaffermazione tautologica. Ogni critica al «sistema» avviene quindi nel suo orizzonte e come tale è neutralizzata e perdente per principio: è inevitabilmente fondata su di esso, tutto onnicomprensivo, quindi «su nulla». Per questo si può parafrasare in parte Max Stirner, sostenendo che la causa contro il sistema è «fondata su nulla» (Stirner 1979, p. 381), senza dimenticare che l’individuo nel «mondo amministrato» (Verwaltete Welt) è effettivamente ridotto a nulla o «[...] ad una quantité négligeable, ad un granello di sabbia di fronte ad un’organizzazione immensa di cose e di forze che gli sottraggono tutti i progressi, le spiritualità e i valori, trasferiti via via dalla loro forma soggettiva a quella di una vita puramente oggettiva» (Simmel 1995, p. 54).
Ed è proprio da qui che si origina uno dei fenomeni più interessanti e, allo stesso tempo, inquietanti, degli ultimi sessant’anni (oggi ancora più chiaro), che, implicitamente ma implacabilmente, l’opera di Warhol ha evidenziato: il fenomeno della banalità, dell’inutilità e dell’ipocrisia della critica. All’interno di questo orizzonte, ogni critica appare, infatti, banale, stantia, già sentita: un cliché di cui si può fare volentieri a meno, prodotto bizzarro ma innocuo dell’immaginazione di un pugno di eccentrici originali (che prima o poi si integreranno e «metteranno la testa a posto»), nel migliore dei casi, o, nel peggiore, frutto malato del risentimento di un branco di ipocriti e falliti, che criticano o perché non sono stati in grado di realizzarsi tramite i mezzi messigli «generosamente» a disposizione, oppure per semplice capriccio e spleen modaiolo. Infatti, ciò fa sì che si abbia innanzitutto la sgradevole sensazione di criticare ciò da cui si dipende e senza di cui non si potrebbe andare avanti, che si insinuino poi il dubbio e il sospetto malcelati verso ogni tipo di critica, la quale viene infine percepita anche come banale e inutile: banalità, ipocrisia e inutilità sono le tre prigioni in cui la mercificazione universale ha relegato la critica corrosiva. Non a caso, è proprio il «sistema» ad amplificare tali critiche attraverso il suo apparato promozionale, ossia il suo contesto di falsità: e così facendo le annulla e riesce a farle percepire come descritto sopra, non dimenticando però di trarre da esse il meritato profitto.
Un altro artista pop, Robert Rauschenberg, nota con angosciante lucidità questo fenomeno: «Quelli che si limitano a contestare non si rendono conto che non possono cambiare in nulla il sistema che criticano, perché il sistema ha bisogno di loro, non può funzionare senza le loro critiche» (Sorin 2007, p. 42). Alla fine, la critica si rovescia quindi in adesione e supporto, e potenzia e serve proprio ciò contro cui scaglia i suoi strali, ormai spuntati e innocui: attraverso la sua banalizzazione viene condannata allo stesso tempo all’ipocrisia e all’inutilità, in un circolo vizioso da cui non c’è scampo.
La Pop Art prova dunque attraverso la sua indifferente neutralità che la critica è fuori moda, andersianamente «antiquata»: quanto più è permessa e istituzionalizzata, tanto meno è efficace e ha valore. Come le parole e i vestiti si logorano e perdono il loro senso intrinseco quando vengono utilizzati troppo e a sproposito, o quando si trovano in un contesto che li rende inutili, così avviene anche per la critica. Per questo il «sistema» - come Warhol, Rauschenberg e altri notavano con cinica ironia - non ha bisogno né di un’epoché, una sospensione scettica del giudizio, né della censura: esse sono già in atto, introiettate ed esercitate «spontaneamente» dagli individui blasé e iperflessibili, sempre pronti all’adattamento, proprio come vuole il dio-mercato, che li ha ridotti a rimasugli di un’umanità offesa, banali cavie interscambiabili per le varie indagini di marketing. Nelle parole di Warhol:

«Qualcuno ha detto che Brecht avrebbe voluto che tutti pensassero allo stesso modo. Anch’io lo voglio. Ma Brecht avrebbe voluto realizzare questo risultato grazie al comunismo. La Russia lo raggiunge servendosi del suo apparato statale. Negli Stati Uniti accade spontaneamente, senza alcuna imposizione; e perché allora non dovrebbe funzionare senza per questo essere comunisti? Tutti si somigliano, tutti agiscono allo stesso modo. È un processo sempre più profondo. Ogni persona dovrebbe essere una macchina. Ogni individuo dovrebbe apprezzare tutti gli altri» (Sorin 2007, p. 67).

Quindi non è più neppure necessario «mettere mano alla pistola quando si sente parlare di cultura», come ancora potevano sostenere Göring e Goebbels: in primo luogo perché la cultura, «compresa l’urgente critica a essa» (Adorno 2004, p. 330), è già stata colpita a morte da tempo ed è un immondezzaio, che produce solo porcherie finalizzate all’adattamento al «way of life» della società dei consumi e dello spettacolo, ed in secondo luogo perché basta tirare fuori l’altoparlante ufficiale del «sistema» e distruggerla nel momento stesso in cui la si favorisce e la si propugna. In fin dei conti, quel che sembrano suggerirci molte opere della Pop Art è di arrenderci all’evidenza dei fatti: il «sistema» integra disintegrando e disintegra integrando, per cui ogni ribellione è un’utopia senza senso. Così Warhol ha mostrato come la critica giusta e sacrosanta divenne banale, inutile e ipocrita, e come nietzscheanamente il mondo falso finì per diventare vero. Alla luce di quanto detto sopra, penso che Warhol potesse essere consapevole del fatto che l’arte, ai suoi tempi come ai nostri, nella mediazione universale e nella compromissione senza riserve, vive soprattutto nella kierkegaardiana «comunicazione indiretta», che disvela significati solo impliciti nell’ambito generale di messinscena plateale che finisce per occultarli, arricchendoli con altri riferimenti e richiami indiretti ad altro, e contestualizzandoli in un certo qual modo. Questa idea dell’arte pop come «comunicazione indiretta» potrebbe anche presupporre il principio di Horkheimer e Adorno della «negazione determinata» di ogni critica immanente e diretta, facendo piuttosto leva sulla contraddizione interna alla realtà che prende in esame e sottolineando l’impossibilità di ogni presupposizione diretta e positiva del bene, che rimane senza nome. Nelle splendide parole ebbre di utopia (che manca totalmente in Warhol) dei francofortesi: «L’invocazione del sole è idolatria. Solo nello sguardo sull’albero disseccato dal suo ardore vive il presentimento della maestà del giorno che non dovrà più bruciare il mondo che illumina» (Horkheimer e Adorno 1997, p. 237). Questo è forse l’unico modo possibile di fare vera critica oggi - astenersi da ogni critica diretta per fare leva sulle contraddizioni irrisolte che spontaneamente diventano critica urgente - e proprio questo potrebbe essere il portato della lezione indiretta della neutralità warholiana.
Infine, al venire meno di ogni posizione critica fa da pendant la scomparsa definitiva e inderogabile della disperazione come slancio utopico. Se nell’Action Painting e nel New Dada si poteva ancora in qualche modo sperare nell’arte nella misura in cui si opponeva «allo spazio negativo e orizzontale della città [simbolo del mondo amministrato delle merci] il gesto verticale e palpitante della creazione artistica» (Bonito Oliva 1981, p. 126), nella Pop Art ci troviamo in un ibrido deserto artificiale dove assieme alla disperazione e all’opposizione è bandita la speranza.
In tutta l’arte del passato, da quella più tradizionale per arrivare alle avanguardie, la forma si configurava come il possibile aggiustamento che l’artista poteva apportare alla realtà deformata, totalmente mercificata e alienata (Cfr. ibidem). Con la Pop Art viene invece completamente meno ogni sentimento dell’arte intesa come utopia, riscatto, montaliano varco dalla catena dell’esistenza senza senso, e apertura di fronte al possibile: l’impossibilità della possibilità viene assunta a categoria esistenziale intrascendibile in una metafisica dell’eterno ritorno della merce e dell’alienazione, dalla quale non si trova scampo neppure nel terreno estetico, che rappresenta una continuazione potenziata del «mondo infernale», del quale non si riesce più ad immaginare neppure l’alternativa. In definitiva, limitandosi a certificare questi dati di fatto, la Pop Art accetta indiscriminatamente, con un atto di panico «amor fati», la condizione di perenne estraniamento della società opulenta - condizione, beninteso, mai stigmatizzata negativamente e neppure in maniera veramente positiva o celebrativa - e ne fa quel che era la vita per Nietzsche: l’orizzonte ineluttabile e intrascendibile, in cui ci troviamo ancora oggi.



Bibliografia

- Adorno T.W. (2004), Dialettica negativa, trad. it. di P. Lauro, Einaudi, Torino.
- Baudrillard J. (1976), La società dei consumi. I suoi miti e le sue strutture, trad. it. di G. Gozzi e P. Stefani, il Mulino, Bologna.
- Bonito Oliva A. (1981), Il sogno dell’arte. Tra avanguardia e transavanguardia, Spirali edizioni, Milano.
- Danto A.C. (2010), Andy Warhol, trad. it. di P. Carmagnani, Einaudi, Torino.
- Hauser A. (1974), Le teorie dell’arte. Tendenze e metodi della critica moderna, trad. it. di G. Simone, Einaudi, Torino.
- Horkheimer M., Adorno T.W. (1997), Dialettica dell’illuminismo, trad. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino.
- Scarpetta G. (1991), L’artificio. Estetica del XX secolo, trad. it. di D. Bellomo, SugarCo, Milano 1991.
- Simmel G. (1984), Filosofia del denaro, trad. it. di A. Cavalli, R. Liebhart e L. Perucchi, UTET, Torino.
- Id. (1995), Le metropoli e la vita dello spirito, trad. it. di P. Jedlowski e R. Siebert, Armando, Roma.
- Sorin R. (a cura di, 2007), Pop Art. Interviste di Raphaël Sorin, a cura di E. Grazioli, Abscondita, Milano.
- Stirner M. (1979), L’Unico e la sua proprietà, trad. it. di L. Amoroso, Adelphi, Milano.
- Wright Mills C. (1965), L’immaginazione sociologica, trad. it. di Q. Maffi, il Saggiatore, Milano.

E-mail: attilio. v. bruzzone [at] gmail. com



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