cosmopolis rivista di filosofia e politica
Cosmopolis menu cosmopolis rivista di filosofia e teoria politica

Il liberalismo e l'arte del "saccheggio":
il liberalismo welfarista

Stefano Zamagni

1. Non è esagerato affermare che il liberalismo è la corrente dominante del pensiero politico contemporaneo. Questa tradizione di pensiero, le cui origini possono essere rintracciate negli scritti di T. Hobbes e J. Locke, ha ricevuto ai tempi nostri il contributo decisivo di pensatori come J. Rawls, R. Dworkin, R. Nozick e altri ancora. Ciò che soprattutto unisce il pensiero dei filosofi del XVII secolo a quello dei liberali contemporanei è l'idea che la nozione dei diritti naturali possa essere considerata indipendente dalle relazioni che legano tra loro gli individui che vivono in società. Questa concezione "individualista" dei diritti – l'idea che la nozione dei diritti naturali possa essere considerata indipendente dalle relazioni che legano tra loro gli individui che vivono in società – è stata ed è criticata da autori contemporanei quali A. Sen, A. Hirschman, J. Broome, S. Kolm, N. Bobbio, ecc. Al fondo delle pur diverse posizioni che distanziano un autore dall'altro, c'è in tutti un elemento comune: l'idea che la dottrina individualista dei diritti è gravemente inadeguata perché, negando l'esistenza della categoria di bene comune, non riesce a dare conto del carattere basicamente sociale dei diritti individuali. I quali sono bensì riferiti al singolo individuo, ma in quanto parte e in quanto agente in una determinata società.
In questa nota, discuterò brevemente le ragioni per le quali un tale vizio di origine non consenta al liberalismo welfarista di conseguire i fini che esso stesso dichiara di voler perseguire. A tale scopo, prenderò le mosse dal periodo in cui prende vita quel modello di ordine sociale che si chiama "economia di mercato", un modello che, a partire dal XIV secolo, ha avuto la sua culla in terra di Toscana e di Umbria e la cui affermazione si deve in gran parte alla scuola di pensiero francescana. (Si badi che l'economia di mercato non è la stessa cosa di un insieme di mercati attivati per facilitare gli scambi: già nell'antichità infatti esistevano mercati, più o meno organizzati).
Quattro sono i pilastri su cui si regge una economia di mercato. Il primo è la divisione del lavoro e la conseguente necessità dello scambio. Il secondo è l'idea di sviluppo e la conseguente accettazione dell'accumulazione. Il terzo è il principio della libertà di impresa da cui discende, come logica implicazione, quello di competizione. L'ultimo pilastro dice del fine che un'economia di mercato deve proporsi di perseguire. Storicamente, questo fine è stato dapprima il bene comune, inteso come il bene di tutti gli uomini e di tutto l'uomo nelle sue plurime dimensioni. È precisamente il fine del bene comune a qualificare l'economia di mercato di prima generazione come economia civile di mercato. L'aggettivo "civile" rinvia alla civitas romana, un modello di organizzazione sociale assai diverso da quello della polis greca. La civitas, a differenza della polis, è una società includente di tipo universalistico. (Si rammenti che nell'agorà della polis non tutti erano ammessi: donne, servi, incolti vi erano esclusi). Non deve dunque sorprendere se le prime forme di welfare si siano realizzate in parallelo con la diffusione dell'economia civile di mercato, come traduzione pratica del principio del bene comune. Si pensi alle gilde, alle corporazioni di arti e mestieri, alle confraternite che gestivano ospedali e case di ricovero, alle Misericordie (che sono state le prime organizzazioni di volontariato), ai Monti di Pietà dei francescani nel Quattrocento italiano che combattevano, con i fatti, l'usura facilitando l'accesso al credito dei non abbienti; e così via.
La stagione dell'economia civile di mercato è stata però di breve durata. In Italia, essa è continuata, ma a tassi progressivamente decrescenti, fino al periodo dell'Illuminismo di marca sia milanese (Verri, Beccaria e poi Romagnosi) sia napoletana (Genovesi, Galiani, Dragonetti, Filangieri). Già a partire dal Seicento le cose iniziano a mutare. Decisiva a tale riguardo è stata l'influenza del pensiero di Hobbes (1651) e dell'antropologia negativa che da esso prende avvio. Con l'arrivo poi del contributo di Mandeville (1713) e soprattutto di Bentham (1789), il creatore dell'utilitarismo, si realizza la svolta: il fine cui tende l'economia di mercato non è più il bene comune, ma il bene totale, inteso – come Bentham aveva scritto – quale sommatoria dei beni individuali. Accade così che i primi tre pilasti che sorreggono l'economia di mercato restano nominalmente gli stessi; quel che muta è la loro interpretazione. La divisione del lavoro, nata per includere tendenzialmente tutti gli uomini nell'attività lavorativa, diviene strumento per escludere i meno dotati e soprattutto gli inefficienti; l'accumulazione, introdotta come espressione di solidarietà intergenerazionale, viene invocata per accrescere la produzione di profitto; la competizione, pensata come un cum-petere, si trasforma in concorrenza, per dare corpo all'aforisma hobbesiano "mors tua, vita mea". Con l'avvento della rivoluzione industriale, infine, l'economia civile di mercato scompare completamente dall'orizzonte per lasciare posto all'economia capitalistica di mercato. E la disciplina stessa dell'"economia civile" diviene "economia politica". (Si noti: civile rinvia a "civitas", così come politica rinvia a "polis").
Adam Smith – il cui impianto filosofico è quello dell'etica delle virtù di derivazione aristotelica, di cui dirò nel prossimo paragrafo – è il primo a rendersi conto della "grande trasformazione". Geniale e ammirevole il suo tentativo di far stare assieme sotto il medesimo tetto concettuale le due versioni dell'economia di mercato, quella civile e quella capitalistica. Invero, il senso profondo del teorema della mano invisibile è tutto qui: se ciascun agente persegue razionalmente l'interesse proprio – come vuole la linea di pensiero Hobbes-Mandeville-Bentham – sotto ben specifiche condizioni la mano invisibile del mercato trasforma gli egoismi individuali in bene comune, proprio come gli umanisti civili volevano che il mercato facesse. Oggi sappiamo perché quelle condizioni non possono mai darsi nella realtà, e quindi perché quel teorema è divenuto di fatto inservibile per lo stesso pensiero neoliberista. La principale di tali ragioni è che il teorema in questione funziona solamente quando si ha a che fare con i beni privati e quando non esistono rilevanti esternalità pecuniarie (da non confondersi con le esternalità tecnologiche e con quelle posizionali). Con beni pubblici e soprattutto con i commons (beni di uso comune) – beni la cui rilevanza si accresce man mano che un paese avanza lungo il sentiero dello sviluppo – il teorema della mano invisibile cessa di funzionare. In situazioni del genere, la smithiana virtù della prudenza non basta più; bisogna attivare le virtù relazionali, la più importante delle quali è la reciprocità.
Il tentativo riconciliatorio smithiano ha vita breve. Già a partire dai primi decenni dell'Ottocento diviene a tutti evidente cosa comporta il passaggio dalla logica del bene comune a quella del bene totale. Interessante, al riguardo, è la posizione di Marx. Non conoscendo la distinzione tra mercato civile e mercato capitalistico e identificando l'economia di mercato con il sistema capitalistico tout court, Marx non può che vedere nell'eliminazione del mercato il rimedio allo sfruttamento e all'alienazione allora galoppanti.
Il mondo democratico non può certo accogliere una prospettiva di discorso del genere. Sulla scia di importanti suggestioni, dapprima di J.S. Mill e poi di A. Marshall, l'alternativa che viene avanzata è quella del welfare state, quale si realizzerà appieno nel Novecento. Per comprendere perché il welfare state viene da subito salutato con favore occorre considerare che, come già Aristotele aveva anticipato, la democrazia presuppone un certo grado di uguaglianza tra i cittadini per poter funzionare. Pertanto, delle due l'una: o si riducono le diseguaglianze oppure si riduce la pratica democratica. James Madison nei Federalist Papers aveva preferito questa seconda soluzione; ma nel XX secolo continuare in quella direzione sarebbe stato troppo pericoloso, e pour cause. Ebbene, il senso ultimo del welfare state è stato quello di aver reso socialmente e politicamente accettabile l'economia capitalistica di mercato. Riduzione delle diseguaglianze e riconoscimento dei diritti di cittadinanza è ciò che serve alla bisogna; quel che serve cioè per garantire la crescita senza eccessive tensioni sociali. Alla mano invisibile del mercato si sostituisce così la mano visibile (e pesante) dello Stato e quella riconciliazione che non era riuscita a Smith riesce alfine a J.M. Keynes[1].


2. L'arrivo della globalizzazione, a partire dalla fine degli anni 70 del secolo scorso - è infatti con il primo summit del G.6 a Rambouillet (Parigi) nel novembre 1975 che ha "ufficialmente" inizio il processo di globalizzazione - modifica radicalmente il quadro. Le diseguaglianze aumentano più che proporzionalmente rispetto all'aumento del reddito a livello sia transnazionale sia intranazionale[2]. E tutto ciò senza che la spesa sociale pubblica sia diminuita. Anzi. (Si pensi che in Italia, oltre il 50% del PIL è ancor'oggi intermediato dal settore pubblico e la stessa spesa pubblica per il sociale è andata aumentando negli ultimi decenni, eccetto che negli ultimissimi anni).
Quali le conseguenze? Che l'universalismo, all'insegna del quale le democrazie liberali si erano proposte come ancoraggio etico per il mondo intero, sembra entrato in conflitto con altri universalismi. Il problema origina dalla circostanza che la perdita dei confini geografici dell'agire umano consente l'espansione su scala planetaria della cultura che risulta più aggressiva e più "adeguata", la quale tende, per ciò stesso, a diventare egemone. A sua volta, un tale processo tende a spiazzare quelle culture locali che fino a tempi recenti erano riuscite a proteggersi grazie all'esistenza di un qualche confine. È in ciò la radice della questione identitaria e del nuovo conflitto – appunto identitario – che da essa origina: che la globalizzazione, in quanto esplosione delle barriere culturali, mette a nudo i conflitti di cui soffre ogni società e, al tempo stesso, indebolisce le identità storiche nazionali mediante l'esposizione delle loro relatività e parzialità.
A fronte di ciò le diverse versioni della matrice filosofica liberale si dimostrano non all'altezza delle sfide in atto. Non perché errate – al contrario, tutte contengono grumi importanti e rilevanti di verità – ma perché riduzioniste. Non riescono, infatti, a concettualizzare un ordine sociale nel quale trovino simultaneamente applicazione il principio dello scambio di equivalenti, al quale si chiede di assicurare l'efficienza nell'allocazione delle risorse; il principio di redistribuzione, al quale viene chiesto il raggiungimento di livelli decenti di equità per rendere concreta la nozione di cittadinanza; il principio di reciprocità, il cui compito specifico è di rendere visibile la cultura della fraternità. Solamente i primi due principi quella matrice riesce a fare stare assieme. Eppure, una società capace di futuro ha bisogno che tutti e tre i principi trovino spazi adeguati di espressione. In un saggio, purtroppo poco noto, di Maritain del 1939 si legge: «Questa democrazia personalistica afferma che ognuno è chiamato, in virtù della comune dignità della natura umana, a partecipare attivamente alla vita politica. […] La Libertà deve essere conquistata con l'eliminazione progressiva delle diverse forme di schiavitù; e non basta proclamare l'Uguaglianza dei diritti fondamentali della persona umana: questa uguaglianza deve passare realmente nei costumi e nelle strutture sociali; infine, la Fraternità nella società esige che la più nobile e la più generosa delle virtù entri nell'ordine stesso della vita politica»[3].
A che gioverebbe, infatti, ridistribuire equamente una ricchezza che fosse stata bensì ottenuta in modo efficiente ma offendendo la dignità di coloro che hanno concorso a produrla? Cosa ce ne faremmo di una società civile pensata come sfera di azione separata dalla società politica? Potremmo forse dire che l'insieme (o la sommatoria) dei beni particolari dei gruppi presenti nella società coincida con il bene comune, inteso come bene dello stesso essere in comune? Potremmo considerare una buona società in cui vivere quella nella quale la multiformità delle relazioni interpersonali fosse ricondotta alla forma speciale del contratto? Come mostrerò, il modello di democrazia che abbiamo ereditato dal recente passato, e cioè il modello elitistico-competitivo, i cui meriti storici mai potranno essere disconosciuti, non riesce a porre la libertà individuale – che vogliamo conservare, anzi dilatare – in sintonia con il bene comune – che pure vogliamo estendere. Ciò in quanto la libertà di scelta non è sufficiente a fondare il consenso. Così sarebbe se scegliere liberamente implicasse acconsentire alle conseguenze che derivano dalla scelta stessa. Il che sempre più raramente accade, oggi.
Cercare di rimettere le cose a posto, cercare cioè di fare stare insieme i tre principi sopra richiamati, è un compito cui gli intellettuali di matrice culturale personalista non possono sottrarsi se vogliono contribuire a superare l'afflizione che colpisce chi pensa – alla maniera di Kafka – che «esiste un punto d'arrivo, ma nessuna via». Invero, se il proprium della politica è il prendersi cura del bene umano, allora il suo fondamento va cercato nell'idea dello "stare con", dato che per poter cogliere l'identità dell'agire umano occorre collocarsi nella prospettiva della persona che agisce e non nella prospettiva neutra della terza persona – come fa il giusnaturalismo – oppure in quella dello spettatore imparziale – come fanno le diverse versioni antiche e moderne del contrattualismo. Già l'Aquinante aveva osservato che il bene morale, essendo una realtà pratica, lo conosce primariamente non chi lo teorizza, ma chi lo attua: è lui che sa individuarlo e quindi sceglierlo con certezza tutte le volte in cui è in discussione. Nasce qui la sollecitazione a portare nell'agorà della polis non solamente i temi della verità e della libertà, ma anche quelli della carità, cioè della fraternità. Ciò in quanto l'azione politica non può essere riduttivamente concepita nei termini di tutto ciò che serve ad assicurare la convivenza sociale; piuttosto, essa deve mirare alla vita in comune. Come Aristotele aveva ben compreso, la vita in comune tra esseri umani è cosa ben diversa dalla mera comunanza del pascolo propria degli animali. Nel pascolo, che pure realizza una forma di convivenza, ogni animale mangia per proprio conto e cerca, se gli riesce, di sottrarre cibo agli altri. Nella società umana, invece, il bene di ognuno può essere raggiunto solo con l'opera di tutti. Ma soprattutto, il bene di ognuno non può essere fruito se non lo è anche dagli altri.
Uno studioso e un uomo politico che, in forte anticipo sui tempi, ha dimostrato di aver compreso i limiti della matrice di pensiero liberal-individualista è stato Luigi Sturzo. Al quale non sfuggì che per assicurare la sostenibilità di una vitale economia di mercato c'è bisogno di una continua immissione di valori dall'esterno del mercato stesso. In tal senso, ritengo si possa sostenere a ragion veduta che Sturzo anticipa quello che oggi è noto come paradosso di Böckenförde, secondo cui lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che esso non può garantire. L'idea del paradosso sta in ciò: lo Stato liberale può esistere solo se la libertà, che esso promette ed assicura ai suoi cittadini, viene regolata dalla costituzione morale dei singoli e da strutture della società ispirate al bene comune. Se invece lo Stato liberale tenta lui stesso di assicurare quella regolazione, avvalendosi del suo potere di coercizione, esso rinuncia al proprio essere liberale, finendo col ricadere in quella stessa istanza di totalità da cui afferma di emanciparsi.
Sturzo dimostra di comprendere appieno la portata di tale paradosso quando osserva che il mercato postula l'eguaglianza tra tutti coloro che vi prendono parte, ma al tempo stesso genera, ex post, diseguaglianza di risultati. Ebbene, quando l'eguaglianza nell'essere diverge troppo e troppo a lungo dall'eguaglianza nell'avere, è il meccanismo stesso del mercato ad incepparsi e a produrre risultati perversi. In Economia e morale del marzo 1947 si legge: «Si dice giustamente che l'economia abbia per fine specifico l'utile, ma per valutarne la portata, occorre precisarne il significato e il carattere. L'utile che fa oggetto dell'economia è di carattere sociale. […] L'oggetto dell'economia non è mai individuale, ma sociale, perché l'individuo preso da solo, operante da solo non esiste né può esistere; l'individuo è sociale. […] Qui è il punto nel quale la morale incide nell'economia, quando l'individuo viene a domandarsi le ragioni e i limiti nell'uso dei beni. Il furto è certo di sua natura utilitario; il ladro vuole arrivare al godimento di un bene per la via più corta; se l'economia fosse individualistica, egli avrebbe risolto la quadratura del circolo. […] La sua [del ladro] economia è fallita, perché è fallita la base morale su cui poggiava».
Non v'è bisogno di essere esperti esegeti per comprendere quanto profondo è l'anti-utilitarismo di Sturzo e, inoltre, quanto distante è il suo pensiero dalla concezione allora dominante del welfare state. Scrive il 26 Agosto 1958 su "Il Giornale d'Italia": «Oggi vogliono [i suoi rivali politici italiani] ad ogni costo darsi l'aria di aver scoperto lo Stato sociale perché hanno letto il libro di Lord Beveridge, gli articoli dell'Esprit, qualche opuscolo di Maritain e Dio volesse che non si fossero imbevuti delle idee di un socialismo che va corrodendo le ossa di certa gioventù cattolica che scopre quelle novità che ignorava sotto il fascismo o credeva di trovarle nel corporativismo del partito unico. Lo Stato sociale esisteva prima che fosse scoperto, perché il bene comune è funzione dello Stato».


3. La sfida da raccogliere, oggi, è quella di battersi per restituire il principio di reciprocità alla sfera pubblica. La reciprocità, affermando il primato della relazione interpersonale sul suo esonero, del legame intersoggettivo sul bene donato, dell'identità personale sull'utile, deve poter trovare spazio di espressione ovunque, in qualunque ambito dell'agire umano, ivi compresa l'economia e la politica. Il messaggio è dunque quello di pensare la fraternità, come cifra della condizione umana, vedendo nell'esercizio del dono gratuito il presupposto indispensabile affinché Stato e mercato possano funzionare avendo di mira il bene comune.
Su una prima implicazione di ordine pratico della cultura della reciprocità desidero soffermare brevemente l'attenzione. Come si sa, il modello liberale di ordine sociale si fonda sul binomio libertà-responsabilità. Ai cittadini devono essere assicurate eguali opportunità ai punti di partenza, intervenendo per cancellare eventuali discriminazioni nell'accesso a posizioni e risorse e ciò allo scopo di mitigare, se non proprio cancellare, gli effetti della lotteria naturale. Ma una volta effettuata la scelta, l'individuo è responsabile delle conseguenze che ne discendono, quali che esse siano. Tutt'al più può aspettarsi – ma non pretendere – una qualche forma di pietà, pubblica o privata che sia. E ciò in forza del principio liberale secondo cui se uno sceglie un'opzione, consapevolmente e in assenza di coercizioni, acconsente agli effetti che ne derivano: consensus facit justum! Cosa dire dei casi, oggi sempre più frequenti, in cui si commettono errori oppure si operano scelte sbagliate per akrasia (debolezza della volontà)?
Ronald Dworkin ha scritto che la società liberale non ha il dovere di perdonare l'errore. Perché mai, si chiede il filosofo inglese, la società dovrebbe tassare chi ha lavorato sodo e che ha scelto bene e finanziare, con le tasse così raccolte, il nuovo inizio di chi ha scelto male, offrendo loro una seconda chance di vita? Nessun perdono dunque per gli imprudenti e per i non virtuosi. Diametralmente opposta è la prospettiva dalla quale si colloca M. Fleurbaey[4]: la società aperta e libera deve trovare il modo di compensare, almeno in parte, i "costi dell'insuccesso" dovuti a scelte sbagliate, creando dei fresh start funds, il cui fondamento non è nel "conservatorismo compassionevole" ma nella triade perdono sociale–libertà–responsabilità. Secondo Fleurbaey, una società in cui i cittadini pagano una piccola imposta quando le cose vanno bene, ma ricevono una seconda chance quando le vicende sono avverse è più libera e più civile di una società in cui si è leggermente più ricchi se le cose vanno bene (perché non si paga alcuna tassa) ma si rischia di andare in rovina quando si compie una scelta sbagliata. (La grave crisi finanziaria, scoppiata nell'estate 2007 negli USA e poi diffusasi per contagio nel resto del mondo, costituisce solamente un esempio di quanto sarebbe stato per tutti vantaggioso disporre di fresh start funds).
È chiaro, a questo punto, il nesso tra matrice culturale e proposte come quella di Fleurbaey e altre del genere. Perdonare, letteralmente, significa "donare completamente". Invero, non è capace di perdonare chi non è capace di donare. Ebbene, una cultura economica che non solo espunge dal proprio lessico ma, quel che è peggio, elimina dal proprio orizzonte scientifico il principio del dono, mai potrà pretendere di contribuire a migliorare la condizione di vita umana. E quindi si condanna all'irrilevanza pratica. Infatti, senza pratiche estese di dono si potrà anche costruire un mercato efficiente ed uno Stato autorevole, ma non si riuscirà mai a risolvere quel "disagio di civiltà" di cui parla S. Freud nel suo celebre saggio. Perché efficienza e giustizia, anche se unite, non valgono a soddisfare il nostro bisogno di felicità. La quale non sopporta né il solo "dare per avere", né il solo "dare per dovere".
Cosa c'è dunque alla radice dell'insuccesso relativo del welfare state? C'è che questo modello si regge su un presupposto fallace; vale a dire sulla logica dei due tempi di ascendenza kantiana: "facciamo la torta più grande e poi ripartiamola con giustizia". È da qui che discende la ben nota divisione di ruoli: al mercato (capitalistico) si chiede di produrre quanta più ricchezza possibile, dato il vincolo delle risorse e della tecnologia, e senza soverchie preoccupazioni circa il modo in cui questa viene ottenuta (perché "business is business" e "competition is competition" – come a dire che la dimensione etica nulla ha a che vedere con l'agire economico); allo Stato poi il compito di provvedere alla redistribuzione secondo un qualche criterio di equità, quale quello di Rawls o di altri ancora. Eppure già il grande economista francese Leon Walras, alla fine dell'Ottocento, aveva provveduto a "rispondere" a Kant scrivendo: «Quando porrete mano alla ripartizione della torta non potrete ripartire le ingiustizie commesse per farla più grande».
Il limite notevole del vecchio welfare state è quello di accettare, più o meno supinamente, che il mercato capitalistico segua appieno la sua logica, salvo poi intervenire post-factum, mediante interventi ad hoc dello Stato, per mitigarne gli effetti indesiderati, ma lasciando intatte le cause. Si osservi che il modello dicotomico di ordine sociale stato-mercato ha prodotto conseguenze nefaste anche a livello culturale, facendo credere a studiosi e policy-makers che l'etica, mentre avrebbe qualcosa da dire per quanto concerne la sfera della distribuzione della ricchezza, nulla c'entrerebbe con la sfera della produzione, perché quest'ultima sarebbe governata dalle "ferree leggi del mercato".
Aver legittimato politicamente la separazione (e non già la distinzione) tra sfera economica e sfera sociale, attribuendo alla prima il compito di produrre ricchezza e alla seconda il compito di ridistribuirla è stato il grande limite del welfare state. Perché ha fatto credere che una società democratica potesse progredire tenendo tra loro disgiunti il codice dell'efficienza – che basterebbe a regolare i rapporti entro la sfera dell'economico – e il codice della solidarietà che presiederebbe ai rapporti intersoggettivi entro la sfera del sociale. Donde il paradosso che affligge le nostre società: per un verso, si moltiplicano le prese di posizione a favore di disabili, di poveri di vario tipo, di chi resta indietro nella gara di mercato. Per l'altro verso, tutto il sistema di valori (i criteri di valutazione dell'agire individuale, lo stile di vita) è centrato sull'efficienza, sulla capacità cioè di generare valore aggiunto mercantile. È oggi a tutti chiaro il contrasto fondamentale su cui si è retto finora il welfare state. Si tratta del contrasto tra il rispetto dovuto alle persone in quanto individui – e quindi essenzialmente diversi – e il rispetto dovuto alle stesse in quanto esseri umani – e quindi essenzialmente eguali. Come ha scritto un liberal-democratico di rango, Michael Ignatieff: «Avremmo dovuto aspettarci che con la sanzione di una visione del bene comune nel welfare state ci saremmo avvicinati gli uni agli altri. Il welfare state ha cercato di realizzare la fraternità, dando a ciascun individuo il diritto di attingere alle risorse comuni. Tuttavia, anche se si soddisfano i bisogni fondamentali di ognuno, non si soddisfa necessariamente il bisogno di solidarietà sociale» (sic!)[5].
Non ci si deve allora meravigliare se oggi non solamente le diseguaglianze continuano ad aumentare ma addirittura gli indicatori di felicità pubblica registrano diminuzioni costanti. Né c'è da meravigliarsi se il principio di meritorietà viene confuso (maldestramente) con la meritocrazia, come se si trattasse di sinonimi. (E dire che Aristotele fu il primo a scrivere che la meritocrazia è pericolosa per la democrazia). Infine, non c'è da meravigliarsi se la reciprocità viene confusa con l'altruismo e se i beni comuni vengono confusi con i beni pubblici.
La crisi fiscale dello Stato e l'allargamento della forbice tra risorse disponibili e ampliamento della gamma dei bisogni – entrambi i fenomeni conseguenza sia della globalizzazione sia della terza rivoluzione industriale, quella delle tecnologie info-telematiche – ha reso palese a tutti la crisi entropica (e non già congiunturale) del welfare state. Ebbene, è in questo quadro che si spiega la ripresa di interesse al modello civile di welfare, un modello che affonda le sue radici, come si è detto, nell'economia civile di mercato. Oggi, sono soprattutto le cosiddette scarsità sociali e non tanto quelle materiali a fare problema nelle nostre società. Si pensi ai commons, beni di uso comune come l'aria, l'acqua, le foreste, la conoscenza, ecc. Sappiamo che lo Stato non è attrezzato per risolvere questo tipo di scarsità, come già F. Hirsch nel suo famoso libro del 1976[6], aveva ampiamente dimostrato. E sappiamo anche che non tutti i bisogni possono essere espressi in forma di diritti politici e sociali. Bisogni quali quello di felicità, dignità, senso di appartenenza, di riconoscimento ecc., non possono essere rivendicati come diritti di cittadinanza. Mai lo Stato potrà mettersi a capo di processi di aggregazione della domanda che, soli, possono sortire l'effetto desiderato per rispondere alle nuove scarsità. D'altro canto, anche le virtù tipicamente individuali (come la ricerca prudente del proprio interesse) non danno la garanzia di saper affrontare la sfida dei beni comuni – come già Katharine Coman aveva anticipato nel suo saggio sull'"American Economic Review" del 1911.
Per raccogliere e vincere tali sfide ci vogliono virtù di reciprocità, che esprimano da subito un legame tra le persone. La prima di tali virtù è la fraternità. Si badi che mentre libertà e uguaglianza sono valori individuali, la fraternità è un valore essenzialmente relazionale. Senza riconoscimento dei legami che uniscono gli uni agli altri non si supera la "tragedy of commons" nel senso di R. Hardin. Il welfare state, attribuendo al solo ente pubblico il compito di farsi carico della giustizia distributiva, ha finito per creare un cuneo tra fraternità e solidarietà, e ora se ne vedono le conseguenze.

E-mail:



[1] Per approfondire, si veda S. ZAMAGNI, Slegare il Terzo Settore in ID. (a cura di), Libro Bianco sul Terzo Settore, il Mulino, Bologna 2011.
[2] A. MADDISON, The Word Economy: Historical Statistics, Development Centre of the Organisation for Economic Co-operation and Development, Paris 2003.
[3] J. MARITAIN, I believe, Simon & Schuster, New York 1939, p.10.
[4] Cfr. M. Fleurbaey, Fairness, Responsability and Welfare, OUP, Oxford 2008.
[5] M. Ignatieff, I bisogni degli altri, Il Mulino, Bologna 1986, p. 133.
[6] Cfr. F. HIRSCH, I limiti sociali allo sviluppo, Bompiani, Milano 1986.

torna su