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Membra corporis sunt omnia simul.
Il tempo e il corpo tra teologia e politica

Giuliana Parotto

L'oggetto del presente contributo è una riflessione teologico-politica attorno al nesso tra il corpo e la temporalità. Si articola in tre passaggi che sono altrettante figure del corpo. Il primo, che altresì illumina il contesto teorico dove trova collocazione il problema della temporalità in rapporto al corpo, è relativo al corpo mediale. Il secondo passaggio è incentrato sulla figura del corpo politico, nello speciale rapporto che intrattiene con la temporalità. Il terzo affronta la figura del sovrano cristomimetes in cui la temporalità riceve una significazione escatologica. Nelle conclusioni il problema della temporalità è ripreso in chiave ermeneutica.


1. È sotto gli occhi di tutti come il corpo mediale sia l'inedito protagonista della politica contemporanea. La società del visuale ha enfatizzato l'interesse quasi ossessivo per il corpo nel suo insieme, che, già posto a simbolo fondamentale nella società[1], diviene il centro della comunicazione sociale, simbolica, perfino personale. L'immagine mediale dei corpi è uno dei mezzi principali attraverso cui sono imposti non soltanto canoni estetici, ma anche, non disgiunti da questi, valori e disvalori, stereotipi e modelli. La forma fisica comprende quella morale e psichica: il corpo che sorride suggerisce i gesti, gli atteggiamenti e persino i sentimenti; attraverso il corpo sono introdotte pratiche e discipline, mode e stili di vita. Nel corpo sono scolpite nuove forme di soggettività, come sostiene Foucault che, a questo proposito, impiega il termine «incorporamento»[2]. Il nesso tra il corpo e la mente si rivela indissolubile: il corpo dà accesso alla mente, mentre la mente si fa corpo, vuoi che si "scelga se stessi" – liberamente modificando il corpo così da far affiorare l'anima – vuoi che si interiorizzino le forme attraverso cui la società pensa e tematizza il discorso vero attorno al corpo. In questo quadro il corpo mediale del leader politico non sfugge alla logica generale del corpo mediale di divi ed attori. L'attenzione di cui è fatto oggetto ne è prova evidente; si pensi soltanto a tutte le vicende collegate alla story tra Sarkozy e Carla Bruni, o i racconti attorno al Presidente del Consiglio italiano, a proposito del quale la dimensione del corpo ha da sempre goduto di uno specifico interesse. L'immagine del corpo può essere "idealizzata" – con abili manipolazioni si eliminano difetti e mancanze. Il corpo del leader politico è, a pieno titolo, un "corpo trasfigurato", senza odori, senza sapori, pura immagine e in sé perfetto. D'altra parte lo stesso corpo è scandagliato, spiato e investigato anche laddove, nell'interazione faccia a faccia, la discrezione non lo permetterebbe. Si trova qui l'aspetto forse più caratteristico del corpo mediale: l'assottigliamento della distinzione tra una sfera pubblica, rappresentativa, e una sfera intima, personale, che appartiene esclusivamente al soggetto in quanto persona privata.
Indubbiamente a rendere questa distinzione sempre più labile e insignificante ha contribuito, come ormai molti studi dimostrano, l'introduzione del mezzo televisivo che, sottratto alla disciplina e alla regolamentazione rigida e burocratica che caratterizzava il regime di monopolio, ha invaso con i suoi codici e le sue modalità l'intero ambito un tempo considerato pubblico. Questa "invasione", che ha trasformato radicalmente le modalità di comunicazione politica, è un fattore importantissimo per il nuovo significato e l'evidente enfasi che circonda il corpo. Il corpo è diventato un elemento centrale della comunicazione politica, portando a compimento il processo di assottigliamento tra sfera pubblica e sfera privata. Il corpo posto alla ribalta, infatti, non è il corpo delle "cerimonie ufficiali", il corpo irrigidito nelle liturgie politiche, quasi una sorta di res extensa che funge esclusivamente da supporto alla funzione rappresentativa altrimenti significata – dagli abiti, dal portamento, dal contesto cerimoniale, se non dalla divisa o altro. Il corpo messo in primo piano è il corpo "privato": tanto quello idealizzato e perfetto quanto quello sudato, scomposto, scamiciato e incontrollato. È quest'ultima la dimensione che Federico Boni ha definito «deiettiva»[3]. Nella ostensione di questo corpo – esempi ce ne sono a iosa, basti pensare al classico caso di trash televisivo costituito dall'interrogatorio del giudice Starr fatto a Bill Clinton in occasione del caso Lewinsky[4] – emergono soprattutto le zone d'ombra, ciò che si vorrebbe nascondere, ciò che contraddice la grammatica della rappresentanza.
Si presenta qui un aspetto fondamentale del nostro problema, che definisce il significato politico assunto dal corpo. Il corpo "televisivo", che costituisce l'acme della sovrapposizione tra sfera pubblica e sfera privata, ovvero la privatizzazione del pubblico e la pubblicizzazione del privato, contraddice il linguaggio della rappresentanza e, come si può facilmente intendere, anche la funzione rappresentativa stessa. È questo, in sostanza, il senso dell'affermazione di Regis Debray, secondo cui la televisione non può rappresentare perché impedisce di "vedere doppio"[5]. La duplicità è il presupposto imprescindibile della rappresentanza. Le forme moderne di leadership e l'irruzione della sfera privata nella vita pubblica mettono in crisi la grammatica della rappresentanza, perché configurano appunto la negazione del corpo politico "astratto". Paradigmatico in questo senso il rimprovero che Bernhard Henry Levi ha mosso a Sarkozy. Egli avrebbe dimenticato che «quando un uomo, nel preciso istante in cui accede al potere supremo, vede il suo corpo, il proprio essere, scindersi letteralmente in due. Da un lato, un corpo comune, [….] dall'altro un corpo sacro, distaccato dal turbinio degli altri corpi, impassibile quanto l'altro è appassionato, muto quanto l'altro è loquace e capriccioso: un corpo, se non mistico, perlomeno misterioso, immateriale, invisibile…»[6]. Sarkozy avrebbe dimenticato questo secondo corpo, il corpo invisibile, i cui tratti sono stati definiti nell'opera di Kantorowicz I Due Corpi del Re, definita da Bernhard Henry Levi «trattato di teoria politica contemporanea». Prima di affrontare il problema del corpo politico astratto e della rappresentanza, dal punto di vista sopra enunciato, ovvero quello relativo al problema del tempo, è opportuno muovere alcune osservazioni sul rapporto che con il tempo intrattiene il corpo mediale del leader politico.
Qui mi limito a sottolineare come il corpo mediale, in generale, intrattenga un rapporto molto particolare con la temporalità. L'amico mediale, come ci fa notare Joshua Meyrowicz[7], in realtà non muore mai. La morte riesce solo a «raffreddare»[8] il rapporto che ad esso ci lega. È evidente che questa affermazione può essere estesa al leader politico: il suo corpo è infatti, anzitutto, corpo mediale. Questo aspetto, che ascrive al corpo del leader una sorta di immortalità, appunto "mediale", va ad accentuare una tendenza già interamente presente e che sempre più si afferma nella cosiddetta "società del corpo", come è stata definita la società contemporanea[9]. La tendenza, cioè, a far carico del compito e nello stesso tempo del privilegio dell'eternità l'individuo stesso, e, segnatamente, il suo corpo. Si tratta qui di un fenomeno sfaccettato e complesso. E tuttavia è necessario sottolineare alcuni aspetti, collegati più immediatamente col problema della temporalità.
Il desiderio di eternità investe oggi l'individuo singolo. La scienza, la medicina, la tecnica, assumono il compito di correggere, integrare, sostituire pezzi del corpo e spostare così il limite di sopravvivenza. In questa tensione verso l'eternità la «generazione eterna», come viene definita da Hervé Jouvin, «ha dimenticato il suo debito con le generazioni passate e, contestualmente, sembra dimenticare quelle che le succederanno»[10]. Questo fenomeno rappresenta la distruzione della dimensione della continuità, la dimensione propriamente diacronica, basata sull'idea della trasmissione, della tradizione, della successione tra una generazione e l'altra. Vengono a costituirsi identità labili, occasionali e effimere che si cristallizzano attorno a figure carismatiche, anch'esse precarie ed altrettanto occasionali. Tanto più la continuità nel tempo perde di significato tanto maggiore è l'importanza della leadership mediale. L'affermarsi di essa è, insieme, effetto dello sfilacciamento della diacronicità, della continuità temporale, ed allo stesso tempo la più efficace manifestazione di eternità individuale.
In sintesi è possibile assumere che la crisi della rappresentanza connessa all'emergere della leadership mediale si accompagna ad una trasformazione radicale della temporalità in cui, eclissandosi la dimensione diacronica della continuità, l'eternità passa dai soggetti collettivi all'individuo stesso nella sua concreta materiale corporeità. Il corpo che, nella sua illimitata manipolabilità tecnica, tende all'immortalità, la realizza interamente come simulacro mediatico, corpo virtuale. Qui il corpo diventa immediata, assoluta manifestazione di potere, un potere tanto più efficace quanto meno viene percepito come tale.


2. Molto diverso è il rapporto tra il corpo politico, che Bernard Henry Levy così lucidamente contrappone al corpo mediale, e la temporalità. Per metterlo a fuoco occorre tener presente la questione relativa alla rappresentanza. Si tratta, evidentemente, di un tema complesso che supera i limiti del presente lavoro. Solo un aspetto è necessario richiamare alla mente per lo sviluppo del nostro problema. Come ha sottolineato Hanna Fenichel Pitkin, essa è una sorta di congiunzione degli opposti: qualcosa di assente, di invisibile, viene, attraverso il suo rappresentante, reso visibile[11]. La natura di questo "qualcosa" è, nella sua totalità, il corpo elettorale anzitutto, e maggiormente ancora lo stesso corpo politico. Ancora decisive restano, a tale proposito, le osservazioni fatte da Carl Schmitt nella Verfassungslehre: rappresentare, afferma Schmitt, significa rendere visibile, illustrare un essere invisibile, per mezzo di un essere presente pubblicamente[12]. L'essere che viene ad essere "pubblicamente" rappresentato è nella teorica schmittiana l'unità politica stessa, riconosciuta nella sua esistenza fattuale, nel suo agire storico. È questa unità politica ad essere nel contempo assente e rappresentata. Del resto l'indagine attorno alle origini dell'impiego del termine repraesentare sul terreno politico, mostra come esso venga introdotto da canonisti ed giuristi intorno al secolo XIII quasi quale escamotage terminologico atto ad esprimere l'idea di una comunità invisibile, un soggetto collettivo, un'universitas[13]. L'universitas che viene pensata come uno è il corpo politico, come afferma Hasso Hoffmann: «Nel significato del corpo in senso traslato, il termine problematico definisce l'unità giuridica di una pluralità di persone»[14]. Il corpo, e questa non è certo una novità perlomeno nella cultura occidentale, è la metafora privilegiata attraverso cui è pensata quella molteplicità in cui le diverse funzioni e compiti sono orientati verso un unico scopo. Leggiamo nella Summa di Tommaso d'Aquino III Pars Q. 8 ad 4um: «Unum autem corpus similitudinarie dicitur una multitudo ordinata in unum secundum distinctos actus sive officia». Di tale corpo si può parlare solo per similitudine; è fictum, imaginatum, repraesentatum, appunto, non veramente reale. È da questa finzione giuridica – il corpo collettivo invisibile – che nasce il problema della rappresentanza: il corpo invisibile ha bisogno di un "rappresentante" ovvero di qualcuno che sia in grado di farlo agire sulla scena pubblica.
Ora, per mettere a fuoco il rapporto specifico che lega il corpo politico astratto con la temporalità, occorre fare ricorso all'opera che ha segnato un momento importante nella riflessione attorno a questi temi e che ho già citato sopra, ovvero l'opera di Kantorowicz, I due corpi del Re. Con quest'opera Kantorowicz ha illuminato come si è prodotta l'idea del corpo politico che ancora troviamo presente nella riflessione schmittiana e in tutta la problematica della rappresentanza. I due corpi di cui parla Kantorowicz sono infatti il corpo naturale, concreto del sovrano e il corpo politico astratto che egli incarna. Evidentemente fuoriesce dai limiti di questo lavoro un'analisi di quest'opera. Mi attengo, perciò, ad alcuni punti che mi paiono importanti.
In primo luogo occorre osservare come l'idea dei due corpi del re subentri a una concezione della sovranità che viene definita di tipo cristocentrico. Secondo questa forma il sovrano è cristomimetes, simile a Cristo: «in officio et figura imago christi est»[15]. La similitudine deve essere interpretata nel senso di una vera e propria assimilazione. La consacrazione ha l'effetto di cambiare radicalmente la natura del sovrano, che si «trasforma in un altro uomo»[16].
In secondo luogo è importante l'idea che il "secondo corpo", ovvero il corpo politico astratto, nasce in quello che egli stesso definisce come «processo di secolarizzazione». Questo consisterebbe e si produrrebbe attraverso il cambiamento di senso che segna il concetto di corpus mysticum, che, dal significato sacramentale e mistico passerebbe a designare il corpo istituzionale e giuridico della chiesa. Diventerebbe, insomma, quasi un concetto "sociologico", per riprendere un termine utilizzato dallo stesso Kantorowicz. Non si tratta, evidentemente, di un processo che si ferma esclusivamente all'ecclesiologia; è un processo politico di straordinaria importanza, in quanto segna la nascita delle modernità, che avviene in una sorta di grande chiasmo dove la chiesa assume i tratti politici delle nascenti entità nazionali e, d'altra parte, gli stati attingono alla ricchezza simbolica e teologica della Chiesa per potersi pensare. Nel grande chiasmo troviamo così le radici dello stato moderno, quello che i giuristi e i teorici iniziano a definire il "corpo mistico dello stato". Esso ottiene, in tal modo, le caratteristiche che erano ascritte al corpo mistico della chiesa: perpetuità, continuità, universalità.
Quanto emerge qui è una forma specifica di temporalità, che costituisce il presupposto necessario al rapporto di rappresentanza. Il cambiamento del senso della temporalità procede di pari passo a quello che caratterizza la trasformazione della nozione di corpo mistico ed è altrettanto fondamentale. Kantorowicz parla a questo proposito di una "rivoluzione filosofica" di primaria importanza. Continuità, perpetuità e universalità sono caratteri che possono esistere soltanto a fronte di una ben definita concezione della temporalità. Stando agli assunti di Kantorowicz, si passerebbe da una concezione del tempo "tradizionale", definita in termini complessivi nel pensiero di Agostino, ad una concezione nuova, condizionata dall'introduzione dell'opera di Aristotele e di Averroè. Lo spostamento sarebbe, anche in questo caso, ricco di conseguenze. Nel pensiero di Agostino la temporalità, infatti, è interpretata nella tensione tra l'eternità divina – eterno presente che raccoglie in sé, in un unico gesto, passato presente e futuro – e il tempo umano inteso come tempo della dispersione, della lontananza da Dio, della malattia, e della decadenza e della morte. Il tempo avrebbe, dunque, una valenza di tipo negativo. D'altra parte la riscoperta degli scritti di Aristotele, della Fisica soprattutto, introdurrebbe ad una concezione di "tempo eterno", intesa come un continuo di istanti che passano da un'eternità all'altra. Si tratta qui, a ben guardare, della nozione di infinito potenziale – infinito che non può esistere tutto insieme attualmente (ovvero in atto) come sembra anche essere quello agostiniano – ma che si svolge e si accresce senza fine. Questo "tempo eterno" andrebbe a inserirsi come un tertium tra l'idea di eternità divina e quella di temporalità umana. Il tempo, da simbolo di morte, si trasformerebbe quindi in simbolo di vita. È in questo tempo "di vita" che vengono ad essere collocate le essenze e, insieme con esse, anche l'invisibile, mistico, corpo dello stato.
Il tempo eterno andrebbe dunque a creare uno "spazio metafisico", una zona in cui le essenze sarebbero collocate. Questo spazio delinea, all'interno del rapporto di rappresentazione, ovvero del farsi visibile di queste essenze astratte, la relazione tra il corpo mortale del rappresentante e il corpo immortale del rappresentato. Così come le specie aristoteliche sono presenti e si mostrano negli individui, anche il corpo mistico dello stato che dura in eterno viene di volta in volta ad incarnarsi in un essere mortale, nel corpo del re. Ed è in virtù di questo dualismo che il corpo del re può anche cessare di essere rappresentativo e può venire contrapposto al corpo politico. Per tale dualismo fu possibile al parlamento inglese di chiamare a raccolta per autorità di Carlo I, corpo politico del re, gli eserciti che avrebbero combattuto Carlo I, corpo naturale del re[17]. Ciò che muore è l'individuo, ciò che resta, il corpo politico. Così non desta stupore che le realtà politiche stesse, ivi compreso l'ormai secolarizzato corpo mistico della chiesa, vengano investite delle stesse problematiche relative alla disputa sugli universali, secondo quanto afferma Guglielmo da Occam[18]. Eternità della chiesa ed eternità del corpo mistico dello stato andrebbero, dunque, ad identificarsi.
In tale identificazione prende rilievo un elemento importante relativo alla temporalità. Questo elemento è l'escatologia che riveste, per quanto attiene al significato dell'eternità della chiesa, un ruolo imprescindibile.
È con la dimensione temporale propria dell'escatologia cristiana che il corpus mysticum dello stato si pone a confronto. Non si tratta, anche qui, di un confronto che riveste i caratteri di novità in senso assoluto, che si porrebbe, cioè, solo a partire dalla acquisizione del concetto di corpo mistico da parte delle nascenti entità politiche statuali. Già un regno terreno aveva mostrato una forte rilevanza escatologica: secondo una tradizione che trova le sue radici già in epoca post apostolica, il Sacro Romano Impero sarebbe stato l'ultimo prima del regno di Cristo, che si sarebbe stabilito sulla terra al termine del tempo, in una dimensione, quindi, di tipo non trascendente ma cronologico. È in questa tradizione che trova una prima collocazione la rilevanza escatologica di una potenza secolare: l'Impero romano è eterno come la Chiesa.
Non sorprende affatto che, nel processo con cui il corpo mistico dello stato si va a costituire, l'attributo della perpetuità venga ad essere apparentato con la perpetuità escatologica dell'Impero romano[19], declinata tuttavia, secondo il modello aristotelico: «Come infatti il popolo di Bologna è lo stesso di cento anni fa, anche se oggi sono tutti morti coloro che allora erano vivi, così il tribunale rimane il medesimo anche se due o tre giudici sono morti e sono stati sostituiti da altri. Analogamente (per quanto riguarda una legione), anche se tutti i soldati sono morti e vengono rimpiazzati da altri, si tratta sempre della stessa legione. Ancora, nel caso di una nave, anche se essa è stata parzialmente ricostruita, o anche se ogni singola tavola è stata sostituita, si tratterà sempre della medesima nave»[20].
Glossando questo passo Baldo osserva: «populus non morietur» – il corpo sovrapersonale non cessa di esistere, anche se gli individui che lo rappresentano hic et nunc sono destinati a morire.
È proprio questa eternità temporale che pare aver presente Tommaso d'Aquino quando, affrontando nella III Pars, q.8 art. 3 il tema del corpus mysticum della chiesa, individua la differenza tra quest'ultimo e il corpo naturale esattamente nella temporalità: «haec est differentia inter corpus homini naturale et corpus Ecclesiae mysticum, quod membra corporis naturalis sunt omnia simul membra autem corpori mystici non sunt omnia simul»[21].
Tuttavia la temporalità di cui parla Tommaso apre a dimensioni diverse e più complesse, eppure qui viene ad assimilarsi, per certi versi, all'eternità "filosofica" ascritta al corpo politico astratto: Ecclesia nunquam morietur, la "Chiesa non muore mai" si legge nel Decretum Gratiani, che va così a definire l'equivalente giuridico della dimensione escatologica[22]. Si può osservare come lo spostamento dall'interpretazione del corpus mysticum dall'ambito sacramentale a quello ecclesiologico, comporti anche il passaggio da una concezione temporale di tipo mistico ad una connotazione temporale di tipo filosofico. Forse non è un caso – ma posso formulare qui solo un'ipotesi – che contestualmente all'affermarsi di questo spostamento concettuale si assista anche ad una significativa fioritura di forme escatologiche esclusivamente pensate in forma temporale, ovvero di tipo teleologico immanentistico. Anche qui al tempo viene assegnata una funzione positiva e l'escatologia assume la forma del tempo storico, del tempo della vita dell'uomo. Mi riferisco evidentemente a Gioacchino da Fiore che, con l'idea della successione trinitaria dei tre grandi periodi del Padre del Figlio e dello Spirito Santo, ha iniziato a pensare l'escatologia in termini teleologico/immanentistici esaurendola nella dimensione cronologica del divenire storico. L'escatologia ha, tuttavia, sfondi più complessi. L'idea che il corpo mistico della Chiesa sia avviluppato in una dimensione temporale, che non è solo quella della decadenza e dell'allontanamento, implica certo l'idea di eternità, ma non quella aristotelica dell'infinito potenziale, bensì quella escatologica della tensione verso il compimento. A questa occorre ora fare riferimento.


3. Kantorowicz ha molto proficuamente tematizzato la rotazione che subisce l'idea di temporalità e il suo rapporto con la nascita dell'idea di corpo mistico dello stato. Nulla invece ha scritto attorno al concetto di temporalità relativo alla forma di sovranità cristocentrica che rappresenta il precedente storico da cui la dottrina dei due corpi scaturisce. Ciò che risulta veramente importante per la forma cristocentrica di sovranità è l'escatologia cristiana e il suo modo di interpretare il tempo storico. Si tratta, anche qui, di un problema molto complesso, l'escatologia nel cristianesimo non è, infatti, una dottrina compatta ed univoca quanto piuttosto un campo di tensioni e talvolta anche di scontri, tra concezioni diverse. D'altra parte l'escatologia costituisce, per la nostra ricerca, un passaggio imprescindibile, obbligatorio. Mi limiterò qui a sottolineare alcuni punti che ritengo essenziali.
La temporalità è un aspetto centrale del corpus mysticum, non solo nell'accezione "sociologica" che si afferma a partire dal 1100. La troviamo presente anche nell'accezione del corpus mysticum Christi, l'accezione eucaristica che prevale fino alla controversia tra Ratramno e Paschasio, con cui si avvia il processo di trasformazione cui abbiamo sopra fatto riferimento. Il corpus mysticum è il mistero della presenza reale di Cristo nell'ostia, ed è anche initium, inizio di un processo prospettivo. L'eucarestia è rivolta verso l'avvenire che da essa stessa dipende: l'edificazione della Chiesa, il rendersi completo del corpus mysticum, il raggiungimento del numero dei santi. Il tempo non è qui inteso come allontanamento, dispersione. Il tempo è anche potenzialità positiva. Il tempo della storia coincide con il tempo della Chiesa. Laddove i regni tramontano e vengono sostituiti, la Chiesa è eterna, ovvero è destinata a rimanere fino alla fine del tempo. Di questa edificazione l'eucarestia stessa è pignus et imago: simbolo del vincolo che unisce i suoi membri, si proietta nella dimensione escatologica, quando il Corpus Christi quod est Ecclesia si sarà appunto interamente costituito. La valenza temporale è, dunque, fin dall'inizio presente, interamente permeata, però, dall'idea sacramentale: il mysterium della presenza reale, che è e resta il significato primo del corpus mysticum. In altri termini questa idea non è scindibile, come ha messo in luce Henry de Lubac, dalla eucaristia come partecipazione reale al corpo di Cristo. L'eucarestia è presenza di Cristo nel fedele e, allo stesso tempo, segna l'entrata del fedele nel corpo di Cristo che è la Chiesa. È esattamente qui che si rivela la dimensione escatologica, che svela due possibili linee interpretative, che tuttavia non si escludono.
La prima è definita escatologia trascendente. L'attesa del Regno di Dio, come eschaton della storia, non è un'attesa che si riferisce alla dimensione temporale, bensì si riferisce in prima istanza al fedele stesso. Chi vive nella dimensione escatologica è il credente, colui che è in Cristo e pertanto vive tanto in questo aion – l'eone della temporalità umana e storica – quanto anche nel prossimo[23]. Il rapporto tra gli avvenimenti ultimi e l'accadere storico è dato attraverso coloro che credono. L'escatologia è interamente orientata al significato trascendente degli eventi, e le manca letteralmente una dimensione cronologica. Parusia, risurrezione, giudizio universale sono oggetti di un'attesa che è vicina. Ma non in senso temporale. In senso trascendente, se vogliamo, spaziale. Il compimento trascendente, che è già interno alla vita del cristiano, morto a questo mondo, può essere esteso a tutta la storia nel suo insieme. Così inteso, l'intero tempo storico, non solo il tempo della vita del fedele, vive già allo stesso tempo nella fine della storia. La fine c'è già. Anche l'Apocalisse di Giovanni, il libro delle attese messianiche per antonomasia, «la porta cupa», come è stata definita da Victor Hugo, può essere letto in questo senso. La tensione verso il punto d'arrivo finale che permea l'intero libro neotestamentario è tensione verso la venuta di Cristo, «ma non si tratta di quella che avverrà alla fine dei tempi, bensì di quella che è attuata nel corso di tutta la storia, a cominciare dalla creazione del mondo e che ha avuto il suo punto culminante nel grande "evento" (kairos) della venuta storica di Gesù Cristo»[24]. Il tempo di cui parla l'Apocalisse – «il tempo è vicino!» si legge nel Prologo al versetto 3 – è kairòs, non è chronos, non è tempo cronologico, ma è tempo esistenziale, che sostanzia la vita e le azione dell'uomo. Ciò significa che l'eterno non è pensato come qualcosa che subentra alla fine, l'eternità dopo il tempo, ma è dentro la dimensione temporale. Questa "eternità nel tempo", che suona come un paradosso, è espressa ed incarnata, in maniera paradigmatica ed unica, da Cristo stesso. Hans Urs von Balthasar ha sottolineato questo aspetto in maniera chiara e radicale. Proprio qui si trova, secondo Balthasar, la novità assoluta del cristianesimo: «La temporalità e la storicità è proprio ciò in cui l'essere eterno più chiaramente e più positivamente si è rispecchiato»[25]. È nella accettazione intera del tempo, non nella fuga dal tempo o la sua trasposizione, che troviamo l'eterno. In tal senso i "segni del tempo" non sono inquietanti e oscure profezie di catastrofi future, ma rivelano il significato della storia nella trascendenza, in altri termini, la presenza dell'eterno hic et nunc, proprio in questo tempo.
Si evidenzia a questo punto il secondo aspetto dell'escatologia, che possiamo definire di tipo teleologico. Ancora il punto di partenza è il noi – ovvero la realtà del credente nella sua partecipazione del corpus christi mysticum, alla realtà di Cristo. Qui però il compimento implica l'idea del completamento della storia sacra, che viene definito dal raggiungimento del "numero dei giusti", la comunità perfetta dei santi – la Chiesa in senso, appunto, escatologico. La comunione dei santi ha bisogno di diventare intera, si legge in Esdra IV e nell'Apocalissi di Giovanni (7,4 ss). È evidente che le due linee dell'escatologia, quella verticale e quella orizzontale non si escludono affatto, ma si integrano. Entrambe hanno come centro la figura di Cristo e del cristiano da un lato, e la comunità dei santi, che diviene presente nella storia dall'altro. Se vogliamo trasporre questo concetto in una terminologia balthasariana, possiamo pensare all'idea di Cristo come universale ante rem, ovvero come colui che, in quanto modello universale – modello antropologico in senso forte morphè, omoioma, skema – fonte di ispirazione e di grazia, informa di sé l'umanità intera, creatrice, questa, di storia. La temporalità teleologica della storia è interamente circondata dalla temporalità mistica della storia sacra, afferma Danielou: «la storia profana rientra nella storia sacra»[26].
È evidente come la temporalità relativa alla sovranità di carattere cristocentrico possa essere compresa solamente alla luce della temporalità intesa a partire dall'escatologia. Il sovrano christomimetes è completamente attraversato dalla tensione escatologica: vivo nell'eone presente è anche interamente appartenente alla dimensione trascendente. Partecipa, come Cristo, alla comunità dei santi. Ed ha, in questo senso, un rapporto speciale con la temporalità. Kantorowicz ha cercato di illustrare il significato della regalità cristocentrica attraverso l'interpretazione dell'immagine di Ottone II tratta dall'Evangelario di Aquisgrana. Ebbene, l'immagine può essere compresa interamente soltanto alla luce della temporalità escatologica, a cui abbiamo fatto riferimento. Essa trova espressione visiva perfetta e paradigmatica nell'icona.
L'icona è escatologica nel senso pieno del termine. È, infatti, la soglia attraverso cui visibile ed invisibile si toccano: è, seguendo le parole di Pavel Florenskij, inaudita congiunzione, rappresentazione del lato invisibile del visibile e visibile dell'invisibile. È testimone del mondo invisibile, "porta" attraverso cui esso è presente, e nello stesso tempo fa vedere le linee che, nel visibile, tradiscono la presenza dell'invisibile stesso. Ripercorre, in altri termini, le stesse linee della temporalità che vediamo attraversare la figura di Cristo. Cristo è l'eternità nel tempo, come abbiamo accennato sopra facendo riferimento alla Teologia della Storia di Hans Urs von Balthasar, fino nella sua essenza: non si può trovare in Cristo contraddizione tra la forma temporale e la forma eterna di esistenza[27].
Questa valenza escatologica riceve intera rappresentazione nella visione del monte Tabor. Qui l'eternità, già presente in Cristo, diviene improvvisamente visibile: sul monte «venne illuminata la divinità e l'eternità sempre presente in maniera latente in ciascun attimo»[28]. La visione è interamente visione appunto, escatologica, per un momento gli occhi di Pietro, Giovanni e Giacomo possono vedere la natura eterna ed umana di Cristo: «Si trasfigurò davanti a loro – si legge – e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime»[29]. Si deve notare come qui la temporalità implichi tutta la dimensione del mondo, sfera appunto, temporale. Come l'eternità non cancella il tempo, ma lo svela e lo raccoglie, così il visibile, non è cancellato, ma è svelato nella sua eternità. Pavel Florenskij ha espresso il rapporto tra la temporalità e l'icona come segue: «l'icona è un'immagine del tempo venturo; essa consente di saltare sopra il tempo e di vedere, seppure vacillanti, le immagini – "come enigmi in uno specchio" – del mondo venturo»[30].
Essa riesce a mettere direttamente in comunicazione con la comunità escatologica dei santi, mediazione tra visibile invisibile[31]. Il rivelarsi dell'eternità è lo svelamento della vera natura spirituale del visibile.
Se ora noi torniamo al frontespizio di Aquisgrana ci accorgiamo che si tratta qui della stessa temporalità. Un evidente segno di tale valenza escatologica sono i quattro animali che circondano la figura dell'imperatore, simbolo dei quattro evangelisti, e figure dell'Apocalisse. Il libro escatologico per eccellenza. Ottone II, Cristomimetes, è trasfigurato. Il suo corpo, che rivela l'essenza spirituale regale e divina, è avvolto in un mantello rosso, che porta ad altezza fantastica l'assimilazione a Cristo. Il rosso è insieme colore regale ed anche colore sacrificale. Si rivela qui quell'intreccio mistico e simbolico, fra la porpora imperiale e il sangue di Cristo nella eucarestia e nella crocefissione, che riporta alla simbologia del sangue, Blut, da termine tecnico della tintura di murice – il processo di produzione della porpora è legato alla figura di Johannes Blut – a nozione cristomimetica e dunque basilicale della porpora come immagine del sangue di Cristo[32]. Nel sacrificio della messa il corpus mysticum, il pane consacrato, viene spezzato al di sopra del calice, a simboleggiare il sacrificio e la morte di Cristo. Nel rito bizantino l'ostia è divisa in quattro parti, distinte, che creano una quaterna il cui significato è "iesus Xristos nika" (IS XS NI KA) Gesù Cristo vince[33]. Vi è, in sostanza, coincidenza tra il Cristo crocifisso – che versa il sangue per la salvezza – e il Cristo glorificato, re della gloria e pantocrate. Il rosso della porpora imperiale e il rosso del sangue si mescolano: sofferenza della divinità e suo imperio sull'universo coincidono.
Nel frontespizio l'idea dell'incarnazione si rende dunque presente, visibile. Ci troviamo, in altri termini di fronte all'eterno, non nel regno dell'apparenza ma in quello della apparizione. Del sacro e non del metafisico.

 

 

Conclusioni

 

Con un salto cronologico – ma dopo queste considerazioni sulla dimensione del tempo anche l'esistenza di siffatti "salti" può essere vista criticamente – occorre ritornare ora al punto di partenza. Sulla scorta di quanto fin qui analizzato, in guisa di ipotesi interpretativa e non di mera suggestione, mi sembra possibile ravvisare nelle forme della leadership moderna una sorta di riproposizione analogica del sacro. Possiamo definirlo una sorta di pseudo sacro, di sacroide, che riemerge nel quadro della crisi della rappresentazione. Che questa coincida con una nuova immagine del corpo – il corpo mediale – non è un caso. Il corpo mediale si impone con la stessa immediatezza del sacro. Non rappresenta qualcosa che non c'è, la comunità invisibile, il corpo mistico dello stato, ma è immediatamente presente – come il sacro. Vi è anche una forte analogia sotto il profilo della temporalità: il corpo mediale rivendica, altresì, una sorta di eternità, non solo perché non muore, ma anche perché rappresenta esemplarmente quella tendenza generale ad eternizzare il corpo, ad ascrivergli il valore dell'eternità. Si è accennato anche all'elemento di trasfigurazione che investe il corpo mediale; ad esso è senz'altro affiancato l'aspetto "sacrificale", relativo alla debolezza, alla deiezione, alla sofferenza e alla violenza. In tal senso il corpo mediale è anche del tutto analogo a Cristo, in cui i due aspetti sono ugualmente presenti. Senza, tuttavia, che Cristo sia presente. Ed è qui che possiamo trovare il significato più decisivo di quello che ho definito "sacroide". Quello che manca, oltre le analogie "formali", è qui la sostanza. Dietro l'apparizione non c'è, infatti, nulla. Non appare il volto di Cristo – la vera icona. Quello che appare è la maschera, il vuoto; né apparenza e nemmeno apparizione, né copia né realtà, è solo simulacro, non significa niente. Ancora, in questo senso, le parole di Pavel Florenskij sono significative:
«Ma il significato del volto diventa negativo quando in luogo di svelarci l'immagine di Dio, non solo non offre niente per questo verso, ma altresì ci inganna, indicandoci con la frode delle cose inesistenti»[34].



[1] Cfr. G. MOSSE, L'immagine dell'uomo. Lo stereotipo maschile nell'epoca moderna, Einaudi, Torino 1997, p. 7 ss.
[2] M. FOUCAULT, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1978.
[3] F. BONI, Il corpo mediale del leader. Rituali del potere e sacralità del corpo nell'epoca della comunicazione globale, Meltemi, Roma 2002.
[4] Ivi, p. 63 ss.
[5] R. DEBRAY, Lo stato seduttore, Editori Riuniti, Roma 2003.
[6] B.-H. LÉvy, Il corpo di Sarko, così poco sacro, "Corriere della Sera", Venerdì 7 Marzo 2008, p. 50.
[7] J. MEYROWITZ, Oltre il senso del luogo. L'impatto dei media elettronici sul comportamento sociale, Baskerville, Bologna 1992.
[8] Ivi, p. 206.
[9] H. JUVIN, Il trionfo del corpo, EGEA, Milano 2006.
[10] Ivi, p. 125.
[11] Cfr. H. FENICHEL PITKIN, The concept of Representation, University of California Press, Berkeley 1967, pp. 144 ss.
[12] C. SCHMITT, Verfassungslehre (Berlin, 1928), tr. it. La dottrina della Costituzione, Giuffrè, Milano 1984, p. 271 ss.
[13] H. HOFMAN, Repräsentation. Studien zur Wort und Begriffsgeschichte von der Antike bis ins 19 Jahrhundert, Dunker Humblot, Berlin 1974.
[14] «In der Bedeutung von Körper im übertragenen Sinne, bezeichnet der fragliche Terminus die rechtliche Einheit einer Personvielheit» (ivi, pp. 128-129).
[15] E. KANTOROWICZ, I Due Corpi del Re, Einaudi, Torino 1989, p. 44.
[16] E. KANTOROWICZ, Deus per naturam, deus per gratiam. A note on medieval political theology, in "Harvard Theological Review", vol. XLV, n. 4, October 1952, pp. 253-277, p. 255.
[17] E. KANTOROWICZ, I Due Corpi, cit., p. 19.
[18] GUGLIELMO DA OCCAM, Opera politica, vol II, ed R.f. Bennet, H.S. Offler, Mancunii 1963, p. 569.
[19] Furono i Romani a fungere da archetipo per il carattere perpetuo di un popolo. Cfr. E. KANTOROWICZ, I Due Corpi, cit., p. 255.
[20] Cfr. ivi, p. 253.
[21] Ivi, p. 264.
[22] Si tratta di un'opera importantissima per il diritto canonico, redatta da Graziano, monaco camaldolese vissuto verso la fine del XI secolo. Il Decretum è una raccolta di fonti disparate in cui si cerca di trovare una corrispondenza. Da qui il nome Concordia discordantium canonum, solo più tardi denominata Decretum Gratiani. Cfr. C. FRANTAPPIÈ, Introduzione storica al diritto canonico, Il Mulino, Bologna 20032, p. 95.
[23] Cfr. E. LEWALTER, Eschatologie und Weltgeschichte in der Gedanken Augustins, in Zeirschrift fuer Kirchengeschichte, IV, vol. LIII, 1934, pp. 1-51.
[24] E. CORSINI, Apocalisse prima e dopo, Società editrice internazionale, Torino 1980.
[25] «Zeitlichkeit und Geschichtlichkeit ist grade das, worin sein ewiges Sein am klarstem, am positivsten zu spiegeln gruht hat» (H. URS VON BALTHASAR, Theologie der Geschichte, Johannes, Einsiedeln 1950, p. 11, traduzione mia).
[26] J. DANIELOU, Saggio sul mistero della storia, Morcelliana, Brescia 1957.
[27] H. URS VON BALTHASAR, Theologie der Geschichte, cit., p. 13.
[28] «...war die in allen zeitlichen Augenblicken latent gegenwaertige Gottheit und Ewigkeit hervorgeleutet» (ivi, p. 49).
[29] Marco, 9,2.
[30] P. FLORENSKIJ, Le porte regali, Adelphi, Milano 2007, p. 120.
[31] «Il culto dell'icona giunge all'archetipo e ora non soltanto siamo illuminati e illuminanti a opera dello spirito santo, ma ci troviamo nel secolo venturo, in modo sublime ed ineffabile, realmente splendono del fulgore del sole i corpi dei santi» (ivi, p. 62).
[32] F. CARILE, Immagine e realtà del mondo bizantino, Lo scarabeo, Bologna 2000, p. 108.
[33] C. G. JUNG, Il simbolo di trasformazione nella messa, in Opere, vol. 11, Boringhieri, Torino 2004, p. 212.
[34] P. FLORENSKIJ, Le porte regali, cit., p. 45.

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