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Alessandro Galante-Garrone:
il «mite giacobino»

Paolo Bagnoli

Nella vicenda collettiva di ogni Paese troviamo delle personalità che emblematizzano cosa quel Paese avrebbe potuto essere se avessero prevalso le loro idee e i loro valori; personalità rilevanti per motivi culturali, storici, politici e, naturalmente, morali. Paradossalmente queste considerazioni riguardano sempre personalità di minoranza che, per il loro stesso ruolo, testimoniano di un Paese assai diverso da quello che in effetti è, ma in esso sono particolarmente radicate tanto da contribuire, da collocazioni talora di estrema minoranza, alla conformazione dell'identità alta del Paese cui appartengono.

È questo il caso di Alessandro Galante Garrone, uomo di scienze giuridiche e storiche, antifascista di primo piano, specchiata figura di italiano tanto impegnato nel non mollare quanto nell'impegno per migliorare il proprio Paese. E l'Italia di Galante Garrone è la stessa di Ferruccio Parri, Leo Valiani, Piero Calamandrei e di tanti, tanti altri, azionisti per scelta nella lotta al fascismo e durante la Resistenza – Galante Garrone fu ispettore delle formazioni GL in Piemonte – e azionisti per sempre, anche dopo la fine del partito, cui si legarono le speranze della rivoluzione democratica, un evento palingenetico destinato a dotare l'Italia di quella modernità che la sua complessa storia le ha sempre negato e la cui speranza, a ben vedere, svanì con la caduta del governo Parri nel dicembre 1945.

La persona di Alessandro Galante Garrone si presterebbe ad una serie di considerazioni sugli intrecci profondi della vita italiana, compresa quella che lega i valori risorgimentali a quelli dell'antifascismo: due suoi zii, Eugenio e Giuseppe, fratelli della madre, sono medaglie d'oro del primo conflitto mondiale. È una cifra che ritroviamo spesso nella grande famiglia dell'antifascismo democratico italiano; basti pensare, per tutti, a Carlo e Nello Rosselli.

Nato a Vercelli l'1 ottobre 1909 – lo stesso anno di Bobbio e di Valiani – figlio di un professore di liceo, studente brillantissimo tanto da vincere nel 1908 il premio Amsterdam di latino davanti a Giovanni Pascoli, studente di legge, nel 1927 partecipa alle manifestazioni degli studenti antifascisti torinesi in difesa di Francesco Ruffini. Entra in magistratura non essendovi l'obbligo del giuramento al fascismo; si avvicina al movimento di Giustizia e Libertà e nel 1942 è tra i fondatori del Partito d'Azione. Dopo l'8 settembre, sfollato con la famiglia a Coassolo Torinese, entra in contatto con le prime formazioni partigiane della Val di Lanzo e, tre mesi dopo, diviene ispettore delle brigate gielliste occupandosi, soprattutto, delle formazioni operanti nel cuneese. Componente, nella primavera del 1945, del CLN piemontese, dopo la liberazione di Torino lo è della giunta regionale di governo e di quella consultiva durante l'amministrazione degli Alleati.

Benché magistrato il forte interesse per gli studi storici lo portò, nel 1963, ad abbandonare la toga per dedicarsi completamente all'insegnamento; era già diventato libero docente di storia moderna all'ateneo torinese. Insegnante di storia moderna, contemporanea e Risorgimento espletate nelle università di Cagliari e di Torino, ha lasciato alla storiografia studi importanti sulla Rivoluzione francese, sulla storiografia rivoluzionaria e sul Risorgimento nazionale. Addirittura fondamentali i suoi studi su Filippo Buonarroti (1951), i radicali in Italia (1973), Felice Cavallotti (1976), Zanotti Bianco e Salvemini (1984) e Calamandrei (1987). Nel 1994, in un libretto con Paolo Borgna, si definì «un mite giacobino». In altri termini un rivoluzionario democratico a caratura radicale essendo egli un azionista fedele al filone della democrazia radicale che, oltre ad essere una posizione politica, fu per Galante Garrone anche la bussola che mosse il proprio continuo impegno pubblicistico, caratterizzato da una moralità concreta nel leggere un paese sempre più tristemente e squallidamente risucchiato dalla malversazione del pubblico denaro, il disprezzo della Costituzione, la perdita di senso di quell'Italia civile in cui egli, e con lui tanti altri, avevano creduto ed avevano continuato a credere.

Dalle pagine de "La Stampa", "Il Ponte", "L'Astrolabio", "L'Espresso" e di altre sparse testate del mondo della Resistenza, condusse una battaglia militante, fatta di idee e di valori, ma non per questo astratta sfatando, tra l'altro, così, il mito stupido della cultura azionista come di un qualcosa di confuso e fuori dal campo realistico della politica.

Il suo rifarsi alla Resistenza non fu un retorico passaggio di memoria, ma il richiamo alle ragioni viventi e vivificanti della democrazia italiana, attento all'insegnamento che gli veniva dalla storia, quella vissuta di personalità che definì, in un libro famoso, I miei maggiori (1984); coloro cui si richiamava perché espressione di «una passione di libertà sempre ispirata dalla ragione». E spesso, nel suo parlare, andava, ma non pensando al passato, ma all'oggi che costruisce, o dovrebbe costruire il futuro, all'insegnamento di Salvemini, al liberalismo di Gobetti, al socialismo liberale di Rosselli.

Magistrato, storico, pubblicista, in fondo Alessandro Galante Garrone si sentì sempre, fino all'ultimo dei suoi giorni, il partigiano Sandro; morto a Torino il 30 ottobre 2009 cantando canzoni partigiane e accompagnato nel suo ultimo viaggio, dal fazzoletto verde dei giellisti piemontesi.

Oggi Galante Garrone torna tra noi grazie all'editore Aragno con la riedizione del libro del 1996 L'Italia corrotta, prefato da Edmondo Bruti Liberati; come ha scritto ("Corriere della Sera", 13 gennaio 2010) Corrado Stajano, «un libro severo e spesso accorato».

Ecco: Galante Garrone è stato un uomo severo e accorato soprattutto sui temi della democrazia, nel non stancarsi mai, come scrive nel ripresentare su "La Stampa" (2 febbraio 1966) il saggio di Giuseppe Maranini su "La Repubblica" nel «rendersi conto del valore delle nostre istituzioni, e dei pericoli che le insidiano, della loro costante problematicità».

Ecco perché, al di là di ogni altro motivo di ricordo o di omaggio, tornare a riflettere su Alessandro Galante Garrone è importante, sempre che si abbia a cuore il valore supremo della libertà.



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