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La grande frattura

ANTONIO TURSI
Articolo pubblicato nella sezione Tra le righe.
Era necessario. Era necessario che Renzi vincesse le primarie e diventasse segretario del Partito democratico. Ed era necessario che ciò avvenisse con una grande partecipazione popolare (quasi 3 milioni di elettori) e con una netta vittoria del candidato favorito (con il 68% dei voti validi). Senza questo evento e senza queste circostanze non ci sarebbe infatti più il Pd e non avrebbe più alcun senso impostare una riflessione sul suo futuro. Una riflessione che naturalmente non dimentichi ciò che è avvenuto nel suo passato anche recente. Quella vittoria ha di fatto rappresentato l’attraversamento di una soglia che era necessario superare affinché il Pd continuasse ad esistere. La soglia è quella che gli elettori italiani hanno, in più occasioni sino ad arrivare al febbraio 2013, segnalato con il loro voto. Una soglia che non riguarda i contenuti ideali o programmatici del partito bensì i soggetti che li incarnano o che comunque ne sono protagonisti. Questa soglia riguarda la credibilità di una intera classe dirigente. Una soglia che non poteva essere attraversata dai chierici officianti il funerale del Pd, da chi lo ha portato al suicidio (Gilioli 2013, Allievi 2013) e che dunque non poteva certo rappresentarne il futuro.
Il superamento di questa soglia è propedeutico a qualsiasi riflessione per il semplice motivo che senza di esso ogni riflessione (e a maggior ragione ogni tentativo di azione politica concreta) è inficiata dalla strumentalizzazione messa in opera dagli intramontabili leader del Pd e dai loro giovani epigoni scelti per cooptazione. Un agire strumentale sanzionato a più riprese dagli elettori, anche da coloro che in alcuni casi già votano a sinistra o potrebbero decidere di farlo.
Tre esempi ben si prestano a mostrare i limiti di una qualsiasi riflessione sulla cultura politica del Pd senza un preliminare superamento di quella classe dirigente che lo ha guidato sinora. Tre esempi scelti in relazione a quelle che vengono indicate come le tre fondamentali dimensioni del partito politico: il rapporto con le cariche, con gli elettori e con le politiche (cfr. Raniolo 2013). I cosiddetti giovani turchi hanno rappresentato nel tempo della segreteria Bersani la punta avanzata della riflessione sul posizionamento del partito a livello di cultura politica. Essi sono parsi esprimere la linea del partito addirittura meglio dello stesso Bersani, con maggiore nettezza e anche con quelle venature di nostalgia utili a rinsaldare il rapporto con la base dei vecchi compagni. La loro era la linea che avrebbe permesso di far risorgere il sol dell’avvenire. La linea del più puro socialismo europeo. Ebbene questo posizionamento ha mostrato la sua vera natura ideologica con la costituzione del governo Letta. Purtroppo, non si trattava della versione marxiana del termine bensì di quella di Mannheim: l’ideologia come mascheramento. I giovani turchi non solo non si sono strenuamente opposti alle perverse intese con la destra berlusconiana ma non hanno affatto disdegnato di occupare posti di primo e secondo piano nel governo Letta e negli anfratti del sottogoverno. Perché si sa: la rivoluzione è un pranzo di gala e perciò la si porta meglio a compimento stando assisi su comode poltrone.
Qualsiasi ragionamento sul posizionamento del Pd ovvero sulla sua identità richiede dunque coerenza e conseguenza tra un dire che si fa carico di una prospettiva di lungo periodo e un fare che riguarda la lotta politica quotidiana. Le doppie morali non servono a ricostruire il Pd. Lo stesso vale per un’altra grande questione che concerne sia l’identità che l’organizzazione del Pd: il valore e i limiti delle primarie. Possiamo individuare la ragion d’essere di questo meccanismo di selezione della classe dirigente (l’apertura del partito alla società civile) e i suoi intrinseci limiti (per esempio la congenita personalizzazione della leadership) ma questo serve a poco se poi le primarie che si svolgono in alcune regioni d’Italia sono un semplice imbroglio gestito dai capibastone e dai funzionari locali. Ancora aspettiamo di sapere cosa è successo a Napoli tra Cozzolino, Ranieri, Mancuso, Oddati e i cinesi nella consultazione per scegliere il candidato a sindaco (Iaccarino, Cerulo 2011). E delle parlamentarie in Calabria si ricordano: i rumors su diversi seggi che pare abbiano comunicato i risultati senza neppure essersi insediati e dunque aver adempiuto alle operazioni di voto; i molti comuni dove i voti espressi dai militanti e dai simpatizzanti non sono stati semplicemente superiori alle medie di altri territori bensì superiori ai voti realmente raccolti nelle successive elezioni vere e proprie; le polemiche per il mancato riversamento delle spettanze dovute alle strutture superiori di controllo (i due euro pagati da ciascun elettore). Troppe anomalie e aggiustamenti che avrebbero dovuto portare a un annullamento dei presunti risultati. Una situazione che dunque non è servita neppure a una “cosmesi” dei leader ma ha solo fatto perdere ulteriormente la faccia al partito calabrese (che infatti continua ad accumulare sconfitte) e a quella dirigenza nazionale che ha tollerato o addirittura incoraggiato simili comportamenti.
Infine, dopo aver considerato il rapporto con gli elettori e con le cariche pubbliche, un terzo esempio recente di non credibilità di quella che è stata la classe dirigente democratica è offerto dalle policies. Tra i pochi punti programmatici espressi chiaramente durante una campagna elettorale vaga e incerta, si annoverava la dichiarata inutilità e di conseguenza la volontà di annullare gli impegni presi sull’acquisto degli aerei militari F35. Tempo qualche mese e il Pd al governo ha radicalmente cambiato opinione: non solo il presidente del consiglio Letta e gli uomini a lui vicini hanno indicato l’insuperabilità del programma F35 bensì anche uomini provenienti dalla tradizione comunista si sono messi a sostenere la spesa per gli armamenti. Insomma, anche su uno dei pochi temi su cui il Pd si era espresso chiaramente in campagna elettorale, la posizione è radicalmente cambiata mostrando la insincerità di certe affermazioni da parte della sua dirigenza.
Nanni Moretti redarguiva “con questi dirigenti non vinceremo mai”. Non coglieva purtroppo che a quei dirigenti di vincere importava assai poco: l’importante era conservare posizioni e relative rendite. Di conseguenza, senza un’operazione preliminare di sbancamento di queste posizioni e rendite non aveva senso cercare di proporre un pensiero democratico e su questa base tentare una (ri)costruzione del Pd.


La metafisica del concreto

La nuova classe dirigente che con Renzi potrà (ri)costruire il Pd si trova di fronte a due problemi non risolti dalla precedente (anzi neppure chiaramente individuati durante la segreteria Bersani): 1) il Pd in quanto partito; 2) il Pd in quanto partito di sinistra. In altri termini, il Pd ha bisogno di una organizzazione complessa e di una identità profonda. Entrambi questi elementi non erano individuabili nel precedente coacervo di fazioni in precario e vago equilibrio tra loro. In questa sede non proviamo neppure ad accennare i nodi legati alla forma-partito in quanto organizzazione. Ci soffermiamo invece su due nodi problematici strettamente connessi e sulla base dei quali dovrebbe costruirsi l’identità di un partito di sinistra nel XXI secolo: il duplice riconoscimento della struttura della nostra società e dei soggetti che la abitano.
Come reazione tanto alla sbornia mediatica propinata dal berlusconismo quanto, in una sorta di contrappasso, a una affannosa ricorsa comunicativa da parte di una sinistra cosiddetta “liquida”, un pregiudizio si è annidato nel Pd bersaniano: un pregiudizio anticomunicativo, antimediologico, sin quasi antitecnologico. Un pregiudizio che si è potuto cogliere in affermazioni e comportamenti di Bersani: nella sua ribadita avversione alla personalizzazione della politica (che la televisione ha sicuramente incentivato, ma non solo negli ultimi anni e non solo in Italia); nella sua opposizione tra comunicazione (di cui non ci si occupa) e economia reale; nelle sue formule come “la comunicazione non rende l’acqua vino”; nelle sue definizioni della Rete come “ambaradan” o “tabernacolo”.
Queste denunce e rinunce manifeste e continue da parte di Bersani del demone comunicazione hanno espresso una koinè diffusa in quella che è stata negli ultimi anni la cultura della sinistra italiana. Il nuovo realismo ispirato da Maurizio Ferraris si è proposto come filosofia del Pd (Taddio 2012) e lo ha fatto in nome di un ritorno alle cose, alla materialità dell’esistenza, alla concretezza dei fatti, di contro alla virtualità, all’immaterialità, alle interpretazioni effimere che i media condenserebbero in sé. Con il rischio di proporre una sorta di metafisica del concreto, Ferraris ha preso distanza dal postmodernismo di suoi vecchi sodali come Vattimo e Derrida. Una presa di distanza che, ad onor del vero, non si è mai spinta a negare una certa attenzione ai media (telefonino, documenti elettronici, iPad sono stati suoi recenti oggetti di riflessione). Oltre si sono spinti invece altri centri della cultura della sinistra democratica. Non solo denunciando i rischi legati ai media, ma indicando questi ultimi come causa prima della crisi politica attuale ovvero della decadenza dell’idea stessa di partito. Così, per esempio, già qualche anno fa Ferruccio Capelli, direttore della Casa della Cultura di Milano, denunciava sin dal titolo di un suo lavoro la deriva verso una sinistra brillante ma leggera, una Sinistra light (Capelli 2008), e la imputava senza esitazioni all’inseguimento del demone comunicativo. E Michele Prospero, gravitante intorno al romano Centro per la Riforma dello Stato, nel suo Il partito politico (Prospero 2012), istituiva una sorta di contrapposizione senza appello tra partito e media, imputando alla centralità dei media il venir meno dell’orizzonte ideale e della struttura organizzativa dei partiti di massa.
Su questa scorta, parole immaginifiche come speranza, visione, futuro sono risultate parole vituperate da Bersani e dai suoi intellettuali. Tutte parole sovrastrutturali, metafisiche, intangibili. Rispetto alle quali, Bersani si è voluto presentare come uomo del fare, delle cose concrete, delle scelte tangibili. Ecco il portato di quella metafisica del concreto che è stata promossa come antidoto al populismo mediatico. Purtroppo invece di decostruire una fisica dei rapporti di forza (cioè invece di fare la rivoluzione) quella metafisica è servita solo ad innalzare un inaccessibile muro fatto di non pronunciamenti, di non scelte, di piccoli ammiccamenti alle presunte qualità concrete dell’amministratore Bersani. L’uomo delle cose concrete è stato capace di far fuori la Politica del Progetto a favore dell’oculata gestione amministrativa (promessa) e del bilancino per tenere in equilibrio precario le fazioni del Pd. E vista la mancanza di carisma dell’amministratore di provincia e la sua impossibilità di proporre scelte chiare e di lungo periodo, con la Politica si è deciso di non prendere in considerazione neppure la comunicazione. E l’ordine causale è stato questo e non altro: la mancanza di comunicazione del Pd è dipesa in primo luogo dalla sua mancata prospettiva politica.
Questa percorsa da Bersani e da certa intellighenzia di sinistra è una strada senza uscita. Intanto, si riducono processi complessi a causalità lineari, innalzando di fatto a causa unica dei processi politici contemporanei quello che per lo stesso Marshall McLuhan era solo uno dei fattori del mutamento sociale. Relegando così a un secondo piano altri importanti fattori che hanno avuto un forte impatto sulla ridefinizione dei partiti politici negli ultimi decenni: fine delle grandi narrazioni, difficoltà del welfare state, globalizzazione dell’economia, limiti degli stati-nazione. Inoltre, dei media di fatto viene predicato una sorta di onnipotenza nell’alterare il gioco politico. Insomma, chi oggi si accanisce a denunciare i media spesso mostra una visione deterministica che, a parti inverse, neanche gli apologeti più accaniti della comunicazione si sognano di proporre.
Ma siamo sicuri che questa storia del rapporto tra media e sinistra debba svolgersi o con affannose ma vane rincorse o con nette scomuniche? Probabilmente qui si paga un retaggio storico pesante: i media sono mera sovrastruttura, riguardano i desideri superficiali e non i bisogni profondi, rappresentano una sorta di oppio dei popoli. Eppure proprio a questo riguardo il buon vecchio Karl Marx, soprattutto in tempi in cui si nota un rinnovato interesse per il suo pensiero, potrebbe insegnare qualcosa a una certa sinistra italiana. Il filosofo di Treviri non ha mai mancato di porre attenzione alle tecnologie, senza mai cadere in qualche sorta di determinismo tecnologico (Antonelli, Vecchi 2012). La sua attenzione non era tanto posta sulle gazzette (i mezzi di comunicazione del suo tempo) quanto sui mezzi di produzione del XIX secolo. Ma oggi sarebbe attento alle macchine a vapore o ai flussi di informazione? Attento alla catena di produzione o alla catena globale del valore? Attento alla meccanica della fabbricazione o alla telematica della circolazione? E ancora prima, attento alla recinzione delle terre incolte o ai brevetti e ai copyright sui saperi comuni? Insomma, le tecnologie di comunicazione rappresentano la struttura della nostra epoca e non possono essere messe a margine di un progetto politico. E un progetto di sinistra dovrebbe individuare proprio in queste tecnologie il nuovo campo della lotta per l’emancipazione. Questa è la realtà dell’economia del tempo presente e il primo insegnamento di Marx è quello di vedere “sotto e dietro” la superficie, anche andando al di là di consolidati pregiudizi. Accanirsi contro la comunicazione non porta da nessuna parte. Saper essere all’altezza delle sfide che le tecnologie di comunicazione pongono significa invece rilanciare davvero la Politica nel tempo presente. E queste sfide non riguardano (semplicemente) la campagna elettorale (andare o meno in televisione, scrivere più o meno tweet). Queste sono sfide da affrontare per disegnare un orizzonte politico e dunque in primo luogo per realizzare una decisa azione di governo. Queste infatti sono sfide che riguardano l’ambiente in cui abitano le soggettività che noi siamo e quelle che vorremmo diventare. Così osservando il paesaggio mediale, vediamo spuntare all’orizzonte, come predoni capaci di catturare l’attenzione, quelle giovani generazioni che sulla Rete abitano quotidianamente.


La storia non è finita

Giovani generazioni che si esprimono in Rete, che abitano la Rete ma che il Pd non conosce affatto. E invece proprio dalle loro istanze plurime si dovrebbe partire per costruire un progetto politico all’altezza del tempo presente. E tra le molte istanze espresse alcune dovrebbero essere riconosciute immediatamente da un partito di sinistra. Istanze racchiuse in alcuni dati imprescindibili per la sinistra, anche nel XXI secolo. La disoccupazione giovanile in Italia segnava nel 2012 un tasso del 25,2% tra i giovani occupabili tra i 15 e i 29 anni (Rapporto annuale 2013 dell’Istat). Un tasso in crescita rispetto al 20,5% del 2011. Queste percentuali riguardano la media del nostro Paese: se si considera la situazione delle regioni meridionali si riscontra un tasso del 37,3% di disoccupazione giovanile. Tassi che risultano ulteriormente in crescita anche nei rilevamenti effettuati nel corso del 2013: ormai un giovane su due è senza occupazione nel meridione.
La situazione risulta ancora più grave se si considerano altri due dati significativi. Sempre secondo lo stesso Rapporto dell’Istat, l’Italia è la nazione europea con più elevata percentuale di neet (not in employment, education or training): nel nostro Paese il 23,9% tra chi non ha compiuto 29 anni oltre a non lavorare neppure studia o è inserito in altri percorsi formativi. In altri termini, un giovane su quattro non ha alcuna speranza di un futuro per cui impegnarsi. In totale si tratta di 2 milioni e 250 mila giovani. Ma anche chi è inserito nel mondo del lavoro non se la passa benissimo. Secondo l’Employment outlook dell’Ocse a fine 2012 oltre la metà dei lavoratori italiani under 25 era impiegato in un lavoro precario (il 52,9%).
Insieme a questi dati, bisogna leggere l’analisi dei risultati delle elezioni politiche del 24 e 25 febbraio 2013 (così come proposta da Diamanti 2013). In primo luogo, va notato che tra i disoccupati il Pd prende solo il 13,1% dei voti a fronte del 40% ottenuto dal M5s e del 26,5% preso dal Pdl. Uno scostamento negativo rispetto al dato medio del Pd (il 25,4%) di ben 12,3 punti percentuali (mentre il M5s prende tra i disoccupati ben 14,4 punti percentuali in più della sua media e il Pdl pur sempre 4,9 punti in più). In secondo luogo, è interessante notare che nella classe d’età tra i 18 e i 29 anni il Pd prende appena il 17,1% dei voti rispetto al 31,6% del M5s. In terzo luogo, non si può non tenere conto che il Pd perde quasi tutte le regioni meridionali (non conquista il premio di maggioranza al Senato in Puglia, Campania, Calabria, Sicilia, Abruzzo) e solo in cinque province di queste regioni (su 40) risulta essere il primo partito alla Camera dei deputati, con molte di queste province che fanno registrare cali di consenso di ben oltre i dieci punti percentuali rispetto al 2008.
Da questi dati si deve trarre la conclusione che il Pd non ha saputo fare breccia tra i giovani senza lavoro o senza un lavoro stabile, che per la maggior parte risiedono nelle regioni meridionali. Perché questi dati debbono ritenersi un punto di partenza fondamentale per ricostruire il Pd? Perché indicano la più profonda frattura sociale che contrassegna l’Italia all’inizio del XXI secolo e nel contempo l’incapacità del Pd sinora conosciuto di tradurla politicamente. E ogni tradizione politica forte e duratura è emersa sulla base di profonde fratture che richiedevano una ricomposizione politica.
Attualmente la frattura più profonda riguarda i giovani senza lavoro che sono esclusi da tutti i circuiti della nostra società. Ancora il lavoro come base di riconoscimento e lotta politica? Certamente. Nella consapevolezza però che la categoria richiede di essere rivista profondamente. Da un lato, infatti, il lavoro non è più l’unico scoglio su cui si costruisce l’identità soggettiva. L’importanza di altre dimensioni dovrebbe essere pienamente riconosciuta: il tempo libero e il consumo, il corpo e l’immaginario, la religione e la socialità, per citarne alcune. Occorre dunque confrontarsi con soggettività dalle identità multiple e mutevoli. E proprio la Rete è lo spazio più adatto per questo confronto. Ma questa pluralizzazione dei profili identitari non comporta la fine del lavoro come una delle dimensioni decisive nella costruzione dell’identità. Dall’altro lato, è necessario superare una politica centrata sulle ideologie della vecchia economia industriale, le fabbriche, gli operai, i padroni. I disoccupati e i precari non hanno luoghi e tempi per sviluppare coscienza di classe. Disoccupati o precari sono i figli degli operai e i figli dei ceti medi. E dunque vanno rappresentati non in quanto classe, ma nelle singolarità delle loro storie di vita, nella solidarietà delle loro aggregazioni momentanee, negli immaginari diversi che costituiscono le loro identità.
Il Pd deve impegnarsi ad affrontare culturalmente queste sfide offrendo prospettive all’altezza delle società complesse in cui viviamo. In questo senso, non può essere definito semplicemente come il partito del lavoro. Ma, visto il deserto di idee della precedente dirigenza, ripartire dal lavoro è forse il modo migliore per legare le tradizioni culturali che sono confluite nel Pd e le sfide impellenti del presente e del futuro. Dalla mancanza di lavoro e di “buon” lavoro deriva infatti una esclusione più ampia. A disoccupati e precari è preclusa la rappresentanza sindacale dei loro diritti così come è precluso l’accesso ai consumi, un accesso che non comporti il desiderio di accaparramento e il conseguente indebitamento forzato. E purtroppo alcuni debiti (per esempio i mutui) non sono neppure contraibili da parte di questi giovani mancando le necessarie garanzie di solvibilità. Questi giovani, inoltre, non hanno fiducia nei partiti politici (la cui legittimità sociale è in generale assai bassa), si rifugiano nel disimpegno e nell’astensione elettorale e, quando decidono di votare, si rivolgono a un comico come Beppe Grillo. Questi giovani disoccupati (soprattutto meridionali) si sentono dunque esclusi dai canali di fluidificazione democratica del potere: cioè non fanno più parte della nostra democrazia. In definitiva sono esclusi dalla possibilità di progettare e costruire un futuro. A loro è preclusa la speranza di futuro, di un futuro per cui lottare.
Ecco il valore di quell’aggettivo con il quale si è inteso denotare il partito nuovo nato nel 2007: “democratico”. Un partito la cui necessità storica consiste non semplicemente nel riaffermare vecchie lotte (che continuano a doversi combattere pur non segnalando più la maggiore delle fratture dei nostri giorni) ma nel riuscire a riarticolare la società italiana in modo che quei milioni di giovani disoccupati e precari entrino a far parte della nostra vita in comune. Anzi, riescano a fornire quel plus di energia e di creatività che faccia da volano a una ripresa generale del sistema-Paese.
Solo se riuscirà a cogliere la profondità di questa frattura e dunque la richiesta di altra politica che da lì proviene, il Pd potrà ripensarsi e offrire un progetto politico all’altezza del tempo presente. Ovvero offrire quella visione del futuro capace di generare speranza nei cittadini, speranza di un diverso orizzonte di aspettative e realizzazioni.


Riferimenti bibliografici

Allievi S. (2013), Chi ha ucciso il Pd (e cosa si può fare per salvare quel che ne resta), Mimesis, Milano.
Antonelli F., Vecchi B. (a cura di, 2012), Marx e la società del XXI secolo, Ombre corte, Roma.
Capelli F. (2008), Sinistra light. Populismo mediatico e silenzio delle idee, Guerini e Associati, Milano.
Diamanti I. (a cura di, 2013), Un salto nel voto. Ritratto politico dell’Italia di oggi, Laterza, Roma-Bari.
Gilioli A. (2013), Chi ha suicidato il Pd, Imprimatur, Reggio Emilia.
Iaccarino L., Cerulo M. (2011), Emozioni primarie, Guida, Napoli.
Prospero M. (2012), Il partito politico. Teorie e modelli, Carocci, Roma.
Raniolo F. (2013), I partiti politici, Laterza, Roma - Bari.
Taddio L. (a cura di, 2012), Quale filosofia per il Partito democratico e la sinistra, Mimesis, Milano.



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