cosmopolis rivista di filosofia e politica
Cosmopolis menu cosmopolis rivista di filosofia e teoria politica

La società meridionale verso il terzo millennio:
Bari e Napoli

Franca Papa

Ci sono molti “sud”. La società meridionale ha reagito alla fine della “prima repubblica” in modo diversificato e complicato anche se con eguale densità drammatica. Mi sembra di capire che la linea discriminante abbia una qualche consistenza geopolitica e corra lungo la dorsale dell’Appennino, anche se individuare e definire per differenza un “mezzogiorno adriatico” da un “mezzogiorno tirrenico” rischia di offuscare altre fratture che hanno più lunga consistenza storica e quindi morfologica, cioè del carattere e del senso comune diffuso che è, come è noto, largamente incisivo sul modello di società. Bari e Napoli sono, forse, la cifra simbolica di due destini differenti e collegati, due facce diverse della stessa storia e tuttavia anche due forme diverse della soggettività “meridionale”.
La lunga stagione della crisi conclamata del sistema politico italiano che si fa visibile a partire dal 1989 e si fa tumultuosa durante lo sviluppo della vicenda di “tangentopoli” è certamente l’evento più determinante anche nella storia contemporanea della “questione meridionale”. La fine della democrazia fondata sui partiti, l’avviarsi ad estinzione delle due grandi forze politiche popolari (la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista) che, se pure con soluzioni diverse, avevano accettato la sfida del superamento della arretratezza del Sud, e del suo ritardo, cambiano profondamente la struttura della società meridionale.
Se pure con differenziata energia, anche il “mezzogiorno adriatico” aveva puntato con forza, fin dall’inizio del Novecento, sulla “nazionalizzazione” del Sud, cercando di costruire un’identità culturale ed economica ambiziosa e tutta proiettata verso il Levante, ma come punto della mediazione, luogo dell’intreccio tra la Nazione e il Mediterraneo del “vicino oriente” così a lungo frequentato dalle culture e dalle comunità delle origini.
A questa “impresa” di costruzione identitaria e vocazionale avevano contribuito con energia non solo gruppi intellettuali ma anche, e con maggior vigore a partire dal fascismo, a supporto delle politiche neocoloniali che si venivano sviluppando, larghi strati della borghesia produttiva moderna ed il ceto politico. A Napoli, invece, dopo la grande stagione dell’egemonia di Croce, il tema della nazionalizzazione del mezzogiorno si era andato via via prosciugando fino ad estinguersi perché la borghesia produttiva non ne era stata toccata che in minima parte ed i gruppi dirigenti politici avevano poco intensamente interpretato la questione. Questo dato differente della storia sociale e politica si predisponeva ad incidere profondamente nel destino di questi due comparti della struttura geopolitica del Sud[1].
A Napoli non si forma una borghesia produttiva ed un ceto politico in grado di “sostenere” lo slancio dei gruppi intellettuali e questo produce degli effetti duraturi sui caratteri specifici della cultura napoletana. Anche quella insistenza sul primato intellettuale di Napoli che accompagna il declino di quell’area del paese comincia ben presto a segnalare “una debolezza” più che “una forza” meridionale e nazionale.
Sull’altro lato, verso l’Adriatico, sarà la politica della “guerra fredda” e la divisione del mondo in blocchi politici contrapposti a produrre la fine del sogno “levantino”. Per molto tempo, quasi mezzo secolo, l’Adriatico si trasformerà in un “oceano” non navigabile e popoli e culture che avevano fatto la più antica esperienza di prossimità della storia d’Europa si sveglieranno dritti sui lati opposti di una barricata, come nel bel mezzo di un “conflitto di civiltà”.
Ma nel frattempo quella differenza aveva impresso caratteri irriducibilmente diversi nel modo in cui le classi dominanti e le élites politiche si andavano formando nei due Sud.
Tornano allora, con forza, i caratteri originari della differenza: sul Tirreno, si guarda ad un certo tipo di storia e di tradizione: capitali antichissime e lungamente egemoni (Napoli e Palermo), patrimoni culturali ed artistici di fermissima consistenza, investiti dal processo di modernizzazione più passivamente e dall’alto, impoverite e declassate fin dalla unificazione della nazione, fortemente “appesantite” dalla nobiltà della storia e frenate nel percorso verso la modernità. E dunque si fa via via più acuto un sentimento di deprivazione di ruolo e di funzione ed anche una difficoltà vera ad immaginare una vocazione davvero all’altezza della storia.
Dall’altro lato, verso l’Adriatico, si accentua il desiderio di emergere riqualificando le funzioni produttive ed un ruolo nella nuova divisione regionale del lavoro che si tenta ancora di proporre alla nazione.
Se Bari giunge quasi fino agli anni '60 “con i piedi piantati nella terra”, cioè con la forza del radicamento in un retroterra agricolo vero, produttivo, ancorché tecnologicamente arretrato (a Bari si avvia la costruzione dell’acquedotto pugliese, a Bari si costituisce la Fiera del Levante), Napoli non decide e non definisce il punto del suo radicamento se non nell’ambizione delle sue istituzioni culturali e dei suoi gruppi intellettuali che pure potrebbero sicuramente esercitare una funzione nazionale, almeno fino agli anni '60, ma appaiono sempre più isolati.
La grande stagione della speculazione edilizia si abbatte su tutto il Mezzogiorno, trasforma profondamente le città meridionali e modifica i rapporti di forza tra le classi sociali producendo l’emergere di nuova ricchezza: anche i consumi si fanno più articolati e diffusi. Questi processi inducono anche la percezione superficiale di una maggiore inclusione delle comunità meridionali nella società nazionale.
Cambia profondamente il volto della società meridionale. “Homines novi” si fanno largo rapidamente e cinicamente. Nasce quella dimestichezza con l’arricchirsi velocemente, con la mobilità sociale continua: tutti possono tutto, non sono indispensabili requisiti, qualità umane, si può passar sopra ad ogni cosa. È il denaro che spinge con forza verso una specie di società “ultrademocratica” in cui salta definitivamente ogni possibile nesso tra merito e destino. È una “borghesia cinica”, quella che si fa carico di questa speciale “rivoluzione intellettuale e morale”, che esercita lungo un ventennio di storia il compito della formazione di quel mutamento della mentalità che porterà tutto il Sud, ma più rapidamente ed in forma conclamata la Campania, la Calabria e la Sicilia, più lentamente e meno visibilmente la Puglia, ad una prossimità progressiva verso le dinamiche di una nuova criminalità.
Si poteva resistere? Difficile a dirsi. Questi processi erano in larga misura prodotti dal modo in cui le classi dirigenti nazionali e non solo meridionali andavano interpretando la questione sempre aperta del modello di sviluppo italiano; la deindustrializzazione, lo smantellamento della ricerca sull’innovazione e poi, soprattutto, il ridimensionamento e la dislocazione subalterna dell’intero sistema-paese rispetto all’economia-mondo ed alla divisione internazionale del lavoro.
Per di più, in tutto il percorso storico così lungo e complesso di avvicinamento alla nazione, alla forma di vita nazionale che sempre era stata offerta e proposta in maniera fittizia e formale, come una prospettiva remota e difficile da raggiungere, il Sud non aveva ricevuto altro strumento di civilizzazione e di educazione alla cittadinanza che la Scuola e l’Università pubblica ed i grandi Partiti nazionali e popolari. Napoli e Bari erano sedi di grandi Università e questo dato contò a lungo per la formazione di quelle classi dirigenti nazionali e meridionali a cui era affidato il destino di questa parte della nazione[2].
La fine della democrazia dei partiti imprime una svolta netta alla vita civile delle comunità meridionali. Le generazioni nate dopo il 1980 non hanno mai potuto fare esperienza della cittadinanza attiva. Esse conoscono solo la politica spettacolare e lontana dalla quotidianità e vi aderiscono o la rifiutano sulla base delle emozioni.
Questa trasformazione priva il Mezzogiorno di una risorsa civile fondamentale che non si può rimpiazzare né con la videocrazia né con il plebiscitarismo. Queste forme nuove della politica intensificano la passivizzazione delle nuove generazioni e le consegnano inermi alle difficoltà crescenti dei cicli produttivi che investono la nazione dagli anni novanta. Questa trasformazione della politica investe a pieno la storia civile della nazione ma impatta tutto il Mezzogiorno in modo devastante proprio perché sottrae una risorsa grande in una endemica scarsità.
La crisi della Scuola pubblica ha origini complesse e possiamo qui solo accennarvi. L’affievolirsi progressivo della funzione formativa della Scuola e della funzione di orientamento valoriale della famiglia sono processi paralleli: la penetrazione profonda del mercato in tutti gli ambiti della forma di vita (inevitabile forse) risistema tutti i valori tradizionali di riferimento delle comunità meridionali. Il “bene” è ormai definitivamente divenuto “l’utile” o “il piacere”, esso si declina meglio secondo concetti più “omogenei” a quelli propri del mercato: “utile-vantaggio” o “piacere-interesse” appaiono più congeniali alla vocazione dell’individuo contemporaneo inserito in un processo all’interno del quale il Denaro è il grande ed unico mediatore; la “cultura” cessa di essere un valore socialmente condiviso e diviene un fine accessorio alla realizzazione delle nuove generazioni.
Il trionfo dell’individuo acquisitivo spazza via ogni legame sociale e frantuma quei mondi vitali sulla cui sopravvivenza si era potuta sostenere almeno in parte una società coesa e disciplinata anche al primo forte impatto della modernità. Il resto del disastro della Scuola pubblica lo produce il taglio della spesa sociale a partire dagli anni novanta, la inutile e insostenibile sequenza di “riforme” che la investono, e la totale sottovalutazione dell’impatto sociale di una deculturazione di massa di cui sono responsabili le classi dirigenti nazionali e meridionali.
Dagli anni novanta il Mezzogiorno resta solo.
Sono questi gli anni in cui comincia a prendere forma la “questione settentrionale” come quel partito che prende forma nelle culture politiche ma poi diverrà una vera e propria strategia che darà vita ad una forza politica. L’esigenza che si afferma è quella di ridiscutere interamente il patto di cittadinanza sul quale si è fondata la nazione fin dalla sua Carta Costituzionale.
Il Mezzogiorno resta solo ma la sua solitudine non è, come spesso si crede, il venir meno delle risorse finanziarie che tradizionalmente venivano destinate a sostenere il suo sviluppo.
È vero, quegli anni novanta sono anche e soprattutto quelli in cui approda in Italia in maniera vistosa la crisi dei sistemi di welfare che è crisi mondiale già ricca di storia e di morfologia differenziata. In Italia è proprio la crisi dei grandi partiti popolari e dei grandi sindacati storici che rende catastrofica ed immediata la crisi del welfare italiano. Tuttavia le risorse, prima nazionali, poi europee ancora più ingenti continuano ad affluire nel Sud.
Quello che appare sempre più evidente è la mancanza di strumenti di controllo, di regolazione e di produzione di strategie per l’uso sociale delle risorse. I luoghi in cui le risorse affluiscono sono separati dalla “costituzione materiale” della società che è sempre più esile e frammentata. Spesso questi luoghi sono opachi ed inintellegibili e non incrociano mai la vita della gente.
L’anomia, la perdita di identità, il senso del declino viene da questo affievolirsi della soggettività meridionale, dal riprodursi continuo di una società deculturata ed antipolitica a tal punto da consentire il formarsi di un circuito di utilizzazione delle risorse che quando va bene è parassitario e autoreferenziale, quando va male è malavitoso.
Nel panorama di un sistema-mondo sempre più intensamente globalizzato, dopo il 1989, cioè al momento in cui la società europea si spalanca all’ingresso di flussi umani sempre più impetuosi, venuto meno ogni criterio di regolazione del mercato del lavoro e delle merci (il ciclo liberista disintegra in Italia quel poco che era sopravvissuto alla fine disastrosa del sistema politico dopo “tangentopoli”) il Sud resta solo a far fronte, con gli strumenti più antichi del suo umanesimo, all’impatto di un fiume continuo di umanità dolente e disperata.
Sempre più lontano dai luoghi residui della vitalità intellettuale e scientifica, sempre più marginale per la progressiva polverizzazione ed estinzione di tutti gli strumenti della circolazione delle idee (Riviste, Case Editrici, Televisioni, Radio), sempre più esile nelle strutture della ricerca e della formazione, sempre più modesta la qualità della vita nelle grandi aree urbane, sempre più penetrata e degradata dai fenomeni criminali la morfologia della vita quotidiana, il Sud vive l’ultima grande rapina: l’emigrazione delle intelligenze. Non si resta al Sud. Che sia l’arte o la letteratura, la musica o la ricerca scientifica: al Sud non si può fare e se lo fai, comunque, non conta, non vale, non si ascolta, non si legge. Devi andare a Bologna, a Torino, a Milano, a Parigi o, meglio ancora, a New York o a San Francisco. E i meridionali, i pugliesi soprattutto, lo mettono in pratica e così, per caso, ti accorgi che l’ultima personale successo a Parigi è di un giovane artista brindisino o che il direttore di una grande istituzione musicale a Firenze è un barese e che registi, musicisti di livello nazionale e internazionale sono nati nel Sud.
Mentre questo accade il senso comune si racconta la favola della “società senza produzione e senza lavoro”, di un nuovo mondo post-moderno in cui il denaro produce denaro e si balocca e si compiace dello splendore delle vetrine dei negozi del centro, dell’eleganza della vita nei caffè, acquietando la curiosità ed il desiderio di stare dentro il mondo, collezionando la partecipazione ad “Eventi” che si susseguono numerosi (Conferenze, Convegni, Festival di ogni tipo, Incontri culturali). L’“Evento” è proprio il simbolo concentrato e denso di questo modo speciale di “essere nel mondo” del nuovo “costume civile meridionale”. La cittadinanza attiva si converte e si trasforma in presenza plaudente, piena di ossequio e gratitudine per la visione che del mondo, dello spettacolo e della politica che viene graziosamente concessa, privilegio acquisito per la fortuna d’esser ammessi a far da cornice e vantaggio di poter dire “io c’ero”, “ io ero lì, nel paradiso frammentato di scimmie ammaestrate pur sempre e comunque assolutamente necessario a realizzare l’“Evento”. Non si riflette mai abbastanza su che tipo di considerazione del “pubblico” è implicita nel concetto di “Evento”.
Dove va il Sud? Da solo non va in nessun luogo. Anzi, da solo va verso il nulla. Occorrerà attendere di capire dove va la nazione: se l’Italia si incamminasse verso una fase più alta e decisiva della sua storia democratica potrebbe materializzarsi ancora un’occasione. Ma questo, purtroppo, non è dato sapere e, comunque, non è nelle nostre mani.

E-mail:

[1] Per la ricostruzione dei principali paradigmi teorici sulla questione meridionale si veda F. CASSANO, Tre modi di vedere il Sud, Il Mulino, Bologna 2009.
[2] Sulle caratteristiche della società pugliese negli anni ’60 si veda il saggio introduttivo in M. MONTANARI, Immagini della Puglia, Pensamultimedia, Lecce 2008.
torna su