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Gli intellettuali di fronte alla società

Pietro Barcellona

Nonostante nel 1992 Baumann descriveva come inevitabile la decadenza degli intellettuali che da “legislatori” erano diventati dei meri interpreti abilitati soltanto a favorire la comunicazione fra i diversi gruppi sociali, non credo che il tema degli intellettuali abbia perso ogni rilevanza nella società contemporanea. È certo che le forme di comunicazione e i criteri di legittimazione sono profondamente cambiati, ma non si può affatto affermare che questa sia una società nella quale gli opinion leaders e i “grandi professori”, che scrivono e insegnano nelle varie parti del mondo, non siano chiamati ad esprimere i loro giudizi sul significato dei fatti. Basta guardare i nomi degli editorialisti dei principali giornali nazionali, gli esperti che curano la corrispondenza con i lettori dei settimanali, i salotti televisivi dove Lerner, o Floris, o Fazio, o la Bignardi invitano a discutere gli autori dei libri di successo. È sempre più evidente che i vari conduttori delle trasmissioni, come i direttori dei giornali, cerchino di ricavare prestigio e autorevolezza dagli ospiti che riescono a coinvolgere nelle discussioni.
Il problema è capire chi sono questi intellettuali e cosa legittimi loro ad emettere sentenze sui fatti sociali che vengono portati all’attenzione pubblica. In base a quale criterio pontificano ogni volta che un delitto più o meno terribile occupa le pagine dei giornali e diventa materia di intrattenimento serale per gli spettatori. Bruno Vespa si affretta a convocare Paolo Crepet che, con l’aria distaccata di un santone, un po’ distratto e un po’ scettico, invita ad ascoltare gli altri come se tutti fossimo diventati sordi. Non è chiaro neppure perché, quando si tratta dei problemi della legge fondamentale della Repubblica, la voce di Zagrebelsky si rivolge suadente a tutti i telespettatori per convincerli che la Costituzione è la massima fonte di legalità a cui tutti debbono rispetto assoluto. Alla stessa maniera, quando si tratta delle questioni legate alla libertà e ai diritti individuali, Floris si affretta a convocare Rodotà che impartisce lezioni di diritto agli spettatori profani che non sanno distinguere un ladrone di strada da un imprenditore di successo che ha ingannato migliaia di risparmiatori. Nei casi estremi viene ascoltato Sartori che, essendo più americano che italiano, appare sempre con l’aura di uno che si rivolge dal cuore della modernità pulsante agli arretrati e semi-barbari abitanti di un Paese senza regole e senza civiltà.
Tutto questo per dire che è assolutamente falso affermare che gli intellettuali, nell’epoca attuale, hanno perso ogni ruolo e sono decaduti a meri interpreti. La loro presenza è diffusa nei giornali e nelle televisioni, e i loro linguaggi sono più prescrittivi di quanto non fossero quelli dei loro predecessori chiamati a legiferare. Non mi sentirei di dire che i filosofi dell’Illuminismo, considerati gli attori principali del grande moto rivoluzionario del 1789, contassero di più di quanto non contino oggi gli opinion leaders.
Il problema è capire come si definisce oggi la figura dell’intellettuale e in base a quale criterio le si attribuisce un grande potere di seduzione e di consulenza nei confronti dei cittadini “ignoranti”. Sarebbe il caso di procedere ad un’inchiesta sul campo per verificare quanti spettatori, ascoltando le analisi di Cassano, invitato da Piero Angela a discettare sui disturbi mentali, non si siano convinti, guardandosi allo specchio, di essere affetti da una grave forma di depressione. Basta mettersi la cravatta al contrario, o farsi la barba da un solo lato, per auto-diagnosticarsi una grave patologia del tono dell’umore.
Ciò su cui voglio anzitutto richiamare l’attenzione, nel commentare la situazione appena descritta, è il “titolo” in base al quale gli illustri personaggi indicati, e gli altri che compongono la schiera del sistema degli intellettuali, si sentano autorizzati ad emettere giudizi sul comportamento dei loro contemporanei. Dico “giudizi” perché, nonostante l’apologia continua del dubbio metodico e del pluralismo delle opinioni, tutti coloro che sono chiamati ad intervenire sulle questioni appena accennate, proclamano certezze che non ammettono obiezioni, anche quando sono presentate con grande garbo e sapienza discorsiva.
Nel libro di Baumann a cui ho fatto riferimento all’inizio, la storia degli intellettuali prende le mosse da un breve excursus sullo sciamanesimo. L’organizzazione delle società più antiche sembrava strutturarsi attorno a due poli con funzioni assai diverse fra loro e spesso confliggenti: lo sciamano e il capo tribù. Lo sciamano era autorizzato a leggere i segni dei fenomeni naturali e a trarne indicazioni per la condotta del popolo, era in grado di diagnosticare e curare i malanni più misteriosi, pronunciava parole che avevano la virtù di risuonare immediatamente nella mente e nel cuore degli ascoltatori. Si può dire che lo sciamano era, in qualche modo, una figura di intellettuale perché aveva la funzione di trasformare le paure, le emozioni, le sofferenze e le energie dei pensieri negativi in parole e rappresentazioni mentali che permettevano di guardare al futuro in modo più sereno. Gli sciamani erano i mediatori tra il mondo fantastico e allucinato del gruppo sociale e la realtà del mondo quotidiano. Si potrebbe dire con Bion che erano un “gruppo di lavoro” addetto a mettere in contatto i fantasmi interni con la realtà esterna. Ma gli sciamani traevano questa legittimazione autonomamente dalla loro iniziazione e dalla loro esperienza. Il capo tribù, invece, era l’espressione della forza militare, colui che doveva proteggere il gruppo sociale dagli attacchi esterni: era lo stratega della forza, la cui unica legittimazione era la detenzione del potere. La parola dello sciamano, al contrario, non traeva alcuna legittimazione dal rapporto col potere, ma era legittimata dall’autorità personale che egli rivestiva nel gruppo in virtù della sua stessa vita: era piuttosto la testimonianza vivente di chi aveva attraversato personalmente il mondo delle esperienze più terribili, delle angosce e delle malattie di cui poi doveva prendersi cura.
Di questa origine dell’autorità della parola in sé, a mio avviso, sono intrise tutte le religioni e le figure sacerdotali che hanno avuto la funzione storica di mediare il rapporto tra il dio nascosto e il mondo degli uomini, lottando spesso con il potere militare per cercare di limitarne l’influenza sulle condotte individuali e collettive.
È col secolo dei lumi che avviene una profonda trasformazione del rapporto tra l’autorità della parola e il potere della forza. Gli intellettuali della rivoluzione tendono a diventare immediatamente le guide del popolo e i capi stessi dei movimenti popolari. Non a caso gli aristocratici e il clero sono indicati come nemici da abbattere in quanto sottraggono con le loro superstizioni la sovranità che spetta al popolo direttamente rappresentato dai suoi “filosofi”. La dea ragione diventa la nuova fonte di legittimazione della parola, ma la parola, a sua volta, si trasforma in comando. Si potrebbe dire che la rivoluzione rappresenta, in questa fase, una sorta di enorme passaggio all’atto che assume i connotati di uno scarico violento e immediato delle pulsioni. Tutto ciò che viene dopo è una razionalizzazione del rapporto fra parola e potere, fra forza e giustizia. Il grande espediente con cui la modernità governa questo processo è quello di rendere anonimo il potere e di trasformare gli intellettuali in esperti consulenti dell’organizzazione e della gestione della società.
Vitiello, nel descrivere magistralmente i tentativi degli intellettuali di prendere in mano direttamente il potere di comando della società (potere dal quale ormai dipende l’autorità della parola), fa riferimento alla rivoluzione sovietica come simbolo della presa del potere da parte della filosofia e come tentativo estremo di far coincidere la teoria con la pratica. Il fallimento drammatico di questa esperienza e il successo, sia pur astratto, del modello democratico hanno portato alla configurazione del potere come macchina impersonale e hanno ricollocato gli intellettuali in un apparente ruolo di neutralità, destinato ad accrescere il sapere collettivo sulla natura e sulle risorse che essa fornisce alla crescita del benessere economico e sociale.
La proclamata fine delle ideologie ha provato a rilegittimare il ruolo degli intellettuali sul terreno delle competenze specialistiche, affidando loro una funzione nettamente ausiliaria rispetto all’attività economico-produttiva, diventata centro della vita sociale. È nata una nuova figura di intellettuale che si presenta come “esperto” di uno specifico saper fare che, applicato alle diverse attività produttive, ne incrementa la quantità. Gli esperti si sono così candidati a gestire la creazione di strumenti sempre più idonei a produrre utilità. La figura emergente è stata quella dell’ingegnere che si è proiettato in tutti i campi, dalla progettazione urbanistica all’invenzione di macchine e strumenti per le fabbriche e le aziende. Questa specializzazione ingegneristica del sapere sociale, intesa in senso ampio come governo materiale della società, ha tuttavia lasciato scoperto il lato più delicato del rapporto fra potere e popolo: il consenso e la legittimazione. Di fronte al fallimento di molti progetti di ingegneria sociale, si è dovuto constatare che l’efficienza non è da sola in grado di assicurare consenso e coesione sociale.
È ritornato in auge il ruolo dell’intellettuale “generale”, una sorta di filosofo sociale e politico che deve, tuttavia, intrattenere un rapporto col potere, giacché la sua parola non ha più l’autorità che deriva dalla vita e dall’esperienza diretta. Dopo il periodo degli intellettuali impegnati che si presentavano come organici ai movimenti politici di sinistra e che pensavano la rivoluzione come una missione da assolvere, siamo entrati nella fase degli intellettuali apparentemente neutrali, che traggono l’autorità dal proprio ruolo di imparziali mediatori del conflitto.
Ancora una volta un discorso mistificatorio, giacché mai come oggi gli intellettuali si candidano a governare la società e persino a proporre modelli di vita “autentica”. Ma questa volta, a conferir loro il potere di parlare di tutto a tutti è il sistema mediatico. Un passaggio da Fabio Fazio incrementa di migliaia di copie la vendita di un libro. Lo star system ha creato una casta di personaggi autoreferenziali che si passano la palla come i globe trotter e che sono capaci di stare dentro il cliché dello spettacolo senza perdere il loro aplomb. La nuova legittimazione degli intellettuali di questo tipo dipende essenzialmente dalla presenza come opinion leaders nei giornali più diffusi, come intervistati da autorevoli conduttori di salotti televisivi o come predicatori delle buone maniere nella varie rubriche di consigli ai lettori.
La casta degli intellettuali che si è formata nell’ambito dello star system è ormai un pezzo rilevante dei processi di formazione del senso comune. Sono molto lontani i tempi della scuola critica francofortese. Con buona pace della democrazia dell’opinione pubblica, di cui il povero Habermas continua a parlare, mentre Sloterdijk conquista spazi televisivi sempre più vasti, vendendo filosofia ermetica al pubblico tedesco sempre più disposto a lasciarsi guidare nella post-post-modernità.

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