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Il sistema della giustizia negli altri paesi europei

Patrizia Pederzoli

1. L’Europa a più velocità

Considerata nei singoli contesti nazionali, la giustizia è un insieme di non così agevole lettura, vuoi per le sue numerose articolazioni organizzative, vuoi per le asperità tecniche delle regole formali che la governano. Basti pensare alle tante e diverse unità di cui si compone (corti e procure), alle norme che definiscono lo status giuridico di chi la amministra o vi assume altri ruoli necessari (rispettivamente giudici e pubblici ministeri), o ancora alle norme in base alle quali opera (il processo nelle sue diverse declinazioni). Il tutto, tralasciando qui il complesso di apparati “serventi”, che costituisce parte essenziale, anche se in genere poco visibile, del suo buon funzionamento.
Le cose si complicano ulteriormente quando si amplia il raggio d’osservazione. Una volta proiettata su scala e dimensioni europee, la giustizia finisce infatti con l’assomigliare ad una sorta di galassia, formata da sistemi che sempre più comunicano e interagiscono tra loro, ma comunque distinti e talora anche assai distanti, per peculiarità o caratteri specifici. Una galassia che tale resta per il momento, malgrado i processi di armonizzazione e di integrazione da tempo avviati sia dal Consiglio d’Europa sia dall’Unione europea. Conferma questo quadro a tutt’oggi composito il voluminoso rapporto sull’efficienza della giustizia presentato nel 2008, ma sulla base di dati raccolti due anni prima, dall’omonima commissione del Consiglio d’Europa[1], che disegna una mappa abbastanza dettagliata dei sistemi giudiziari di 45 dei 47 stati membri di questa organizzazione internazionale, col duplice intento di descriverli e di consentire un raffronto tra esperienze nazionali, pur con tutte le cautele del caso. Va da sé che entro un’area geografica così vasta – che spazia dal Portogallo alla Russia, dalla Scandinavia alla Turchia, include democrazie ancora giovani e paesi con tassi diversi di sviluppo economico – le differenze sono inevitabili e talora di ampia portata. A spiegarle concorrono sia il consueto spartiacque fra tradizioni giuridiche, oggi forse meno vitale di un tempo, sia il diverso radicamento dell’idea stessa di stato di diritto, a sua volta non così univoca[2]. D’altronde, a quelle differenze concorrono in misura ben maggiore le scelte dei singoli governi in materia di politiche della giustizia, più o meno sensibili alle sollecitazioni che provengono dagli organismi internazionali e comunitari.
In effetti, anche a voler restringere il campo ai soli 27 paesi dell’Unione europea, si possono osservare variazioni non lievi rispetto a ciascuna delle dimensioni sondate nel rapporto Cepej: dall’organico degli uffici alle risorse finanziarie, dalle forme di risoluzione alternativa delle controversie al ruolo del pubblico ministero, dai parametri del giusto processo alle garanzie di indipendenza, passando attraverso alcuni dati relativi all’avvocatura. Sono tutti elementi, ed altri ancora ne vengono considerati, che contribuiscono alla qualità della giustizia. Nel loro insieme sono intesi a valutare se e in che misura un sistema giudiziario rende un servizio adeguato alle attese dei cittadini, fornisce risposte tempestive ed autorevoli alle loro domande, ne riscuote o meno la fiducia, offre una tutela concreta a diritti che potrebbero altrimenti rimanere sulla carta, sostiene lo sviluppo sociale ed economico invece di frenarlo. Come si vede, la posta in gioco è alta e molti sono i fattori che andrebbero presi in esame. Dati i limiti di spazio, conviene allora isolare solo alcuni tra quelli che da anni sono al centro del confronto politico e del dibattito tra gli operatori della giustizia nel nostro Paese. Più che tentare una comparazione, l’intento è semmai quello di portare in luce tendenze generali – come fanno i più – avendo a mente soprattutto difficoltà e problemi nostrani.

2. Indipendenza: quanta e per chi?

Nessuna democrazia, per quanto giovane, viene considerata tale se non afferma e difende nella pratica l’indipendenza di chi rende giustizia. Non è forse superfluo rammentare che questo valore e le garanzie che lo concretano sono normalmente riferite al giudice. È infatti il giudice che assegna il torto e la ragione tra due controparti; e una di esse, nel processo penale, è il pubblico ministero. Essere ed apparire al di sopra delle parti è perciò ingrediente indispensabile di questo ruolo e condizione necessaria affinché la decisione sia accettata come legittima, anche da chi perde, oltre che dalla collettività. Venendo meno tale condizione, si profila il rischio di incorrere nella sindrome del «gioco due contro uno»[3]: il triangolo formato da due contendenti e da un terzo super partes che decide, il giudice, potrebbe cioè apparire sbilenco. Si tratta di un rischio non così remoto, specie quando parte in causa è un’altra autorità pubblica. Così è non solo nel processo penale ma anche, ad esempio, nel contenzioso amministrativo. Dopotutto, il giudice è pur sempre un “funzionario” pubblico, della cui imparzialità o equidistanza si potrebbe in questi casi dubitare. È anche per prevenire i danni collettivi arrecati da una flessione di fiducia nella giustizia, e assicurare il corretto svolgimento dei processi, che le democrazie sanciscono e proteggono l’indipendenza del corpo giudiziario. Lo fanno con assetti istituzionali che variano da un paese all’altro, ma contraddistinti da un tratto tendenzialmente comune: l’indipendenza incontra dei limiti o, per meglio dire, dei contrappesi[4]. Si vuole così evitare – altra cosa è che ci si riesca – che il corpo giudiziario diventi una sorta di masso erratico sganciato dalla comunità. Pur assumendo forme diverse, quei contrappesi si propongono infatti di aprire un canale tra la magistratura giudicante ed altre istituzioni dello Stato, fra le quali il parlamento, tentando di bilanciare indipendenza e responsabilità, imparzialità e «dovere democratico di rendiconto»[5] da parte di chiunque eserciti funzioni pubbliche, a maggior ragione laddove si tratti di un potere dello Stato, quello giudiziario.
In molti paesi europei questa camera di compensazione tra indipendenza e responsabilità è data principalmente dai “Consigli della giustizia”, tra questi anche il nostro Consiglio superiore della magistratura (Csm), nei quali i rappresentanti del corpo togato sono affiancati dai cosiddetti laici, ossia componenti espressi da altre istituzioni dello Stato. Il rapporto numerico tra gli uni e gli altri è aspetto non secondario, che in ultima analisi fa la differenza tra governo e autogoverno del corpo giudiziario. Anche perché questi organismi hanno quasi sempre una voce in capitolo, spesso robusta, nelle decisioni che in maniera diretta o indiretta toccano lo status dei giudici, la loro indipendenza. Nel 2004 è stata anche creata una rete europea di questi organismi, che tra l’altro si propone di favorire la conoscenza reciproca dei rispettivi sistemi nonché l’attenzione ai principi di autonomia e indipendenza del potere giudiziario[6]. Reti simili sono ormai numerose, a livello comunitario (circa una decina) così come internazionale. Sono luoghi tutt’altro che virtuali in cui si elaborano e sponsorizzano modelli istituzionali, che non di rado vengono poi proposti alle più giovani democrazie dell’Europa centro-orientale. In queste ed in altre sedi simili l’Italia sembrerebbe all’avanguardia nel promuovere il proprio modello di governo autonomo della magistratura, che nel nostro caso include anche i pubblici ministeri. La progressione nel tempo è stata abbastanza rapida. Nella raccomandazione n. 12 del 1994 il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa suggerisce una “autorità” competente in materia di selezione e carriera, due aspetti centrali dell’indipendenza, con membri designati dallo stesso ordine giudiziario. Nel 1998 la European Charter on the Statute for Judges auspica che almeno metà dei componenti di tale “autorità” siano giudici eletti dai colleghi con metodi idonei a garantire la più ampia rappresentanza del corpo togato. E nel 2007 il Consiglio consultivo dei giudici europei esprime una netta preferenza per un “Consiglio della magistratura” formato esclusivamente da giudici, o nel quale i togati eletti dai colleghi siano almeno in maggioranza; in questo secondo caso le decisioni più importanti dovrebbero essere riservate ai soli giudici[7]. La si direbbe una configurazione in gran parte tributaria del modello italiano – col suo Csm dotato di poteri decisionali a largo spettro e per due terzi composto da togati – che molti ritengono in grado di garantire il pieno dispiegarsi dell’indipendenza, ma sul quale non mancano voci critiche[8]. Ad ogni modo, il pendolo della storia europea sembra ora muovere verso un terzo potere sempre più autonomo, dopo la lunga stagione di fragilità strutturale che lo ha caratterizzato nella tradizione del vecchio continente. Ci si dovrebbe però interrogare sull’altro valore in gioco – il rendiconto democratico, quella accountability cara alla tradizione statunitense – che proprio in forza di questi sviluppi sembra entrare in un cono d’ombra.

3. Il quarto potere: l’accusa pubblica

Anche il ruolo del pubblico ministero presenta in ambito europeo variazioni di una certa entità, che tuttavia non impediscono di enucleare alcuni tratti ricorrenti. Stiamo parlando, è bene ricordarlo, di una «autorità pubblica»[9] che svolge le proprie funzioni prevalentemente nel settore penale, ove rappresenta l’interesse della collettività a che la legge e le sanzioni da essa previste siano applicate dal giudice, quando questi accerti la commissione di un reato. Tralasciando le possibili competenze nel settore civile, e talora anche amministrativo, i compiti che possono essere attribuiti al pubblico ministero sono numerosi. Ovunque è chiamato a promuovere l’azione penale davanti ad una corte. Con poche eccezioni ha inoltre la responsabilità di coordinare o supervisionare le indagini, avviate e condotte dalle forze di polizia, ma non di rado può anche intraprenderle di propria iniziativa. In genere, sostiene l’accusa nel corso del processo e può appellarsi ad una corte superiore in caso di sentenza sfavorevole. Molto meno frequente nei sistemi continentali è invece la facoltà di negoziare una sanzione con la difesa – prerogativa tipica del prosecutor statunitense – o addirittura di imporre una sanzione senza l’intervento del giudice, cosa peraltro limitata ai reati minori e in presenza di elementi certi di prova.
Carattere comune e distintivo di questo ruolo resta comunque l’iniziativa penale, la richiesta al giudice di applicare la legge, di solito attraverso l’irrogazione di una pena. In 38 dei 47 stati membri del Consiglio d’Europa questa funzione non è soggetta al principio di obbligatorietà[10], che la nostra Carta fondamentale sancisce all’art. 112. La maggior parte dei paesi si affida dunque al contrapposto principio di opportunità, che lascia al pubblico ministero margini più o meno ampi di discrezionalità nel decidere se esercitare o meno l’azione penale, in presenza di determinate condizioni. Posto altrimenti, il pubblico ministero opera in questi casi come autentico filtro della giustizia penale; un filtro che trova la propria ragion d’essere anche nella pressione esercitata sul sistema giudiziario da fenomeni criminali di ben diverso spessore o allarme sociale e nella conseguente esigenza di non disperdere le (sempre limitate) risorse pubbliche destinate alla prevenzione e repressione di quei fenomeni[11]. Va da sé, poi, che all’esplicito conferimento di poteri discrezionali corrisponde una gamma più o meno articolata di controlli tanto sull’azione quanto sulla inazione penale.
Strettamente correlata a questa differenza di fondo è la questione dello status attribuito a chi svolge funzioni requirenti. Da tempo, va sottolineato, si è venuta manifestando la tendenza a riconoscere al pubblico ministero maggiori garanzie, ad esempio nel caso della Francia. Presente e avvertito è infatti il rischio che un potere così penetrante, l’accusa pubblica, possa essere manipolato con intenti partigiani e distolto dalle sue finalità istituzionali, magari anche sfruttando impatto e distorsioni mediatiche, che ormai sono una costante della giustizia penale[12], specie nella fase delle indagini. E tuttavia il pubblico ministero gode in genere di garanzie attenuate rispetto a quelle del giudice. Spesso non è neppure un magistrato, bensì un funzionario. Nella maggior parte dei casi, gli uffici requirenti sono inoltre direttamente collegati all’esecutivo, di solito tramite il ministro della giustizia, essendo strutture che concorrono alla formulazione e soprattutto alla messa in opera delle politiche penali, storicamente uno dei pilastri sui quali è sorto lo stato moderno[13]. D’altronde, il cammino verso le odierne democrazie liberali ha condotto a deconcentrare il potere dello Stato, attraverso la sua separazione tra apparati distinti, a tutela dei diritti individuali. In molte democrazie, europee e non, ad essere oggi separati sono il potere di chi accusa e il potere di chi giudica sul fondamento di quella accusa.

4. La qualità della giustizia

Che la qualità della giustizia sia da tempo entrata nell’agenda delle istituzioni europee ed internazionali, tra queste anche la Banca mondiale, è cosa che non dovrebbe sorprendere. Efficacia, tempestività e correttezza di questo servizio incidono sul progresso civile e sullo sviluppo economico. Non di rado, sono però messe a dura prova da una domanda di giustizia che non accenna a diminuire. Conciliare i grandi numeri con standard qualitativi elevati, o anche solo soddisfacenti, non è ovviamente impresa da poco; tanto più che al buon funzionamento della giustizia concorrono parecchi fattori, oltre a quelli già visti. Per semplificare il discorso, conviene assumere a punto di riferimento lo stato di sofferenza in cui versa il nostro sistema. L’Italia, e non da ieri, è al primo posto per numero di cause pendenti e fra gli ultimi per durata dei processi sia civili sia penali[14]. È una situazione che ci mette in seria difficoltà sia sul versante “esterno”, per il mancato rispetto dell’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che sancisce i principi del giusto processo e della sua durata ragionevole, sia sul versante “interno”, dato che nel 1999 questi stessi principi sono stati ribaditi nell’articolo 111 della nostra Costituzione.
Tra i tanti fattori che influiscono sulla qualità della giustizia, l’attenzione si sofferma spesso sulle risorse pubbliche ad essa destinate. Che si tratti di una voce importante è fuori discussione, ma non va trascurato il modo in cui quelle risorse vengono utilizzate. Quanto agli stanziamenti in bilancio, l’Italia occupa posizioni mediane nella graduatoria europea e supera ad esempio la Francia, ma si è appena visto che consegue risultati tutt’altro che lusinghieri. Altrove la forbice tra costi e rendimento della giustizia è dunque più stretta. Come ci si riesce? È giocoforza accantonare il discorso sulla razionalizzazione delle risorse, sempre invocata ma raramente praticata nel nostro Paese, che porterebbe troppo lontano. Vi sono anche altre strade che non pochi sistemi hanno seguito con maggior decisione del nostro. Ci limitiamo ad indicarne due, tra le tante possibili.
Una di queste strade consiste nel promuovere e sostenere attivamente le cd. forme alternative di risoluzione delle controversie, come la conciliazione[15] e la mediazione. Si può così ridurre il carico di lavoro dei tribunali ed avere le premesse sia per un più rapido trattamento delle cause sia per aggredire l’arretrato, i processi pendenti. Per riuscire in questi obiettivi, a tacer d’altro, occorre naturalmente che tali procedimenti siano pubblicizzati, facilmente accessibili e non troppo onerosi, oltre che efficaci.
Molti paesi europei, dalla Spagna alla Germania, hanno poi introdotto dei filtri (a volte autentici sbarramenti) nei meccanismi di impugnazione delle cause civili e penali. Dopo il primo ed eventualmente il secondo grado di giudizio, non si può sempre avere accesso alle corti supreme. In questo caso occorre individuare un punto di “equilibrio” tra legittime domande di giustizia e concrete capacità di risposta da parte del sistema; cosa in sé non semplice, ma neppure impossibile ed anzi necessaria. Da molti anni, riforme in questo senso sono sollecitate dalla nostra Corte di cassazione, letteralmente schiacciata da una mole di lavoro che non ha paralleli in altri paesi e ne mette a repentaglio il compito istituzionale[16]. I vantaggi che potrebbero derivare dall’adozione di filtri sono più d’uno. Come accade altrove, grazie alla selezione dei casi, le corti supreme possono concentrarsi sui ricorsi davvero meritevoli del loro intervento – non dettati, ad esempio, da intenti pretestuosi o dilatori – che saranno perciò trattati in tempi ragionevoli. Il minor carico di lavoro consente poi di avere corti supreme più snelle, formate cioè da un minor numero di giudici. Almeno in linea di principio, ciò le mette in condizione di meglio adempiere alla loro missione istituzionale, ossia interpretare ed applicare le norme in maniera per quanto possibile uniforme. Ci si può così avvicinare, ma non più di questo, a due mete ideali comuni a tutte le democrazie: la certezza del diritto e l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge.

E-mail:

[1] Cfr. european commission for the Efficiency of Justice (Cepej), European Judicial Systems – Edition 2008 (Data 2006): Efficiency and Quality of Justice (www.coe.int).
[2] Cfr. D. PIANA, Rule of law e costituzionalismo, in “Quaderni di scienza politica”, 2008, 15, n. 3, pp. 499-528.
[3] Cfr. M. SHAPIRO, Courts. A Comparative and Political Analysis, The University of Chicago Press, Chicago 1981.
[4] Cfr. C. GUARNIERI, Giustizia e politica. Pesi senza contrappesi, Il Mulino, Bologna 2003.
[5] Cfr. M. Cappelletti, Giudici irresponsabili?, Giuffré, Milano 1988.
[6] Rete europea dei Consigli della Giustizia (www.encj.net).
[7] Parere n. 10 del 21-23 novembre 2007 (www.coe.int). Il Consiglio consultivo (Ccje) è stato istituito nel 2000 dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa.
[8] Cfr. G. DI FEDERICO, L’indipendenza della magistratura in Italia: una valutazione critica in chiave comparata, in “Rivista trimestrale di diritto e procedura civile”, 2002, n. 1, pp. 98-128.
[9] Così definita nella raccomandazione n. 19/2000 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa.
[10] European Commission for the Efficiency of Justice (Cepej), cit., p. 168.
[11] Va qui menzionato il caso della Germania, dove l’obbligatorietà dell’iniziativa penale, retaggio di una lunga tradizione, è stata progressivamente circoscritta ai reati di maggiore gravità.
[12] Cfr. D. SOULEZ-LARIVIERE, Il circo mediatico-giudiziario, Liberilibri, Macerata 1994.
[13] Cfr. C. GUARNIERI, P. PEDERZOLI, La magistratura nelle democrazie contemporanee, Laterza, Roma-Bari 2002.
[14] Cfr. European Commission for the Efficiency of Justice (Cepej), cit.
[15] Su questo punto L. D’URSO, Più conciliazione per la giustizia-lumaca, 10.02.2009 (www.lavoce.info), che ricorda come, relativamente ai tempi processuali per ottenere il recupero di un credito, l’Italia sia abbondantemente superata da paesi come l’Angola e il Gabon.
[16] Cfr. AA.VV., Le corti supreme, Giuffré, Milano 2001.
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