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Giustizia sociale e autenticità cristiana: una coerenza difficile

Luigi Alici

1. Il dislivello di amore e giustizia

Appartiene ad uno dei compiti più ardui della testimonianza cristiana il dovere di articolare in modo coerente e praticabile, nella vita personale e pubblica, l’insieme delle virtù che possono onorare i comandamenti divini, cercando di corrispondere al mistero di quella ineffabile e infinita trascendenza che, con linguaggio biblico, si potrebbe chiamare il volto di Dio. La cifra dell’Alleanza, in cui si racchiude il senso più profondo della rivelazione cristiana, dice di una relazione paradossale tra il Creatore e la creatura, che sostituisce ogni ritualismo esteriore e strumentale, in nome di una inedita forma di reciprocità oblativa: «Voglio l’amore e non il sacrificio» (Os 6,6).
L’anomalia di questa reciprocità consiste nella sua assoluta asimmetria. Il fondamento incrollabile dell’alleanza, infatti, non riposa sul bilanciamento simmetrico di un contratto tra pari, ma sull’assoluta fedeltà di Dio a se stesso, cioè alla propria santità: «Sulla mia santità ho giurato una volta per sempre» (Sal 89,36). L’Alleanza non è un contratto e non sono previste clausole subordinate di revocabilità; solo a parte hominis infedeltà e tradimento possono interrompere unilateralmente la relazione. L’amore del Padre, in cui possiamo scorgere il volto autentico di Dio (1 Gv 4,7-8), non è sotto condizione: «Anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non si allontanerebbe da te il mio affetto, né vacillerebbe la mia alleanza di pace, dice il Signore che ti usa misericordia» (Is 54,10).
La nuova Alleanza lo conferma in modo inequivocabile: dinanzi alla colpa umana, l’amore di Dio non arretra verso la sanzione, ma compie un ulteriore “passo avanti” – umanamente inconcepibile – verso il perdono e la misericordia. In conseguenza dell’incarnazione di Cristo la Legge appare in una luce nuova: «Ciò che era impossibile alla Legge, resa impotente a causa della carne – afferma san Paolo –, Dio lo ha reso possibile: mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e a motivo del peccato, egli ha condannato il peccato nella carne, perché la giustizia della Legge fosse compiuta in noi, che camminiamo non secondo la carne ma secondo lo Spirito» (Rm, 8,1-4).
Nell’insegnamento paolino, la grazia ha il potere di giustificarci, cioè di liberarci dai peccati e comunicarci la «giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo» (Rm 3,22). Tale giustificazione, in cui si riassume l’incontro tra la grazia divina e la libertà umana, manifesta quindi il vertice infinito dell’amore divino, che Agostino considera come un’opera addirittura «più grande del cielo e della terra, e di tutto ciò che in cielo e in terra si vede»[1]. Nella fede in Gesù Cristo il credente riconosce la “giustizia di Dio”, che designa la rettitudine del suo amore indefettibile e sconfinato. Come ha scritto Benedetto XVI, con un’espressione insolitamente forte, «l'amore appassionato di Dio per il suo popolo – per l'uomo – è nello stesso tempo un amore che perdona. Esso è talmente grande da rivolgere Dio contro se stesso, il suo amore contro la sua giustizia» (Deus caritas est, n. 10). Di conseguenza, la curvatura universalista e smisurata all’amore cristiano chiama ad una giustizia “più grande”: «Se la vostra giustizia non sarà più grande di quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 5, 20), impegnando il credente a farsi concretamente operatore di giustizia: «Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità» (1 Gv 3,18).
Nel processo d’inculturazione della fede, la tradizione cristiana, impegnandosi in un audace confronto con il pensiero greco (in particolare platonico), ha cercato di riflettere questo dislivello umano di carità e giustizia, collocando la prima fra le virtù teologali e la seconda fra le cosiddette virtù cardinali; le prime sono doni dello Spirito, che istituiscono la vita cristiana incorporandola nel mistero di Cristo, mentre le seconde sono il frutto di comportamenti acquisiti, che si differenziano in ragione di attitudini morali stabilizzate e finalizzate alla vita buona. Come la fede e la speranza, la carità, quindi, esprime nella finitezza perfettibile della vita cristiana la partecipazione al mistero della comunione trinitaria, mentre la giustizia è considerata un “cardine” della vita morale (come la prudenza, la fortezza e la temperanza); essa riguarda non soltanto i beni materiali, ma deve governare in modo ordinato e reciproco la geometria delle relazioni interpersonali, in vista del bene comune.
Nasce da qui quella tensione di amore e giustizia che il pensiero cristiano cercherà di articolare secondo una circolarità virtuosa; quando tale circolarità viene meno, si assiste ad una riduzione unilaterale della tensione e ad un conseguente pendolarismo tra un sentimentalismo intimistico e evasivo da un lato, e un attivismo intransigente in favore di una fraternità fondata solo sulla giustizia sociale dall’altro.

2. Tra individualismo e soprannaturalismo

La difficile calibratura di tale equilibrio chiama in causa una complessità di fattori, dal piano etico-teologico a quello storico-sociale. In questa sede è sufficiente segnalare una dissimmetria fondamentale nel valutare ogni esercizio imperfetto, per difetto o per eccesso, della giustizia: mentre, in un caso, una scarsa attenzione alla orizzontalità dei rapporti interumani è spesso interpretata come un’incoerenza pratica, tollerabile in un cristianesimo intimistico e rilevante solo sul piano dell’ortoprassi, nell’altro caso un impegno prioritario in favore di una giustizia capace di farsi prossimo con tutti i diseredati della terra, fino a mettere in discussione le strutture economiche e sociali, viene guardato con sospetto sul piano dell’ortodossia, in quanto tendente a snaturare la vita cristiana, imprimendo una pericolosa curvatura politica alla riflessione teologica.
A motivo di questa dissimmetria, il magistero della Chiesa ha costantemente messo in guardia contro il potenziale eterodosso implicito in un modello di vita cristiana ispirato alla (sola) giustizia, più di quanto non abbia fatto nei confronti di una vita cristiana disposta a tollerare il declassamento della giustizia, fino a considerarla un’encomiabile ma rischiosa attività supererogatoria. Questo, tuttavia, forse non basta a spiegare ritardi e disattenzioni nei confronti della giustizia, dovuti anche ad altre motivazioni: ad esempio, ad una carente sensibilità per la rete dei “rapporti lunghi”, oltre che ad un deficit di categorie culturali per interpretare alcune emergenze di ordine sociale. Lo riconosce con franchezza anche Benedetto XVI nell’enciclica Deus caritas est (2005): «È doveroso ammettere che i rappresentanti della Chiesa hanno percepito solo lentamente che il problema della giusta struttura della società si poneva in modo nuovo» (n. 27).
La comunità cristiana ha dovuto compiere un lungo cammino per recuperare una visione della giustizia più fedele alla Scrittura e alla tradizione; ancora in Tommaso d’Aquino, ad esempio, troviamo una difesa appassionata della giustizia come espansione della carità alla vita associata, che si fa carico del bene supremo dell’umanità, anteponendo il bene comune al bene del singolo individuo («bonum commune multorum divinius est quam bonum unius»[2]).
L’appannamento di questa linea di pensiero si fa particolarmente forte in epoca moderna, quando una separazione sempre più marcata fra natura e soprannatura si salda con un’antropologia individualista. Da un lato, la dottrina della giustificazione sarà alla base di un’aspra controversia teologica, riconducibile alla radicalizzazione luterana: sola fides, sola gratia, sola scriptura. Se è unicamente la grazia di Dio a rendere giusto l’uomo peccatore (beninteso in senso relativo, restando l’essere umano simul iustus et peccator), la giustizia è solo un attributo di Dio e non ha senso parlare di giustizia dell’uomo: «Il diritto dell’uomo – scriverà Barth – è fondato nel fatto che egli ha torto»[3].
Da un altro lato, anche nella Chiesa cattolica si tenderà ad interpretare il rapporto tra uomo e società in senso intrinsecamente strumentale, come si può ancora riscontrare, ad esempio, nell’enciclica Immortale Dei (1885) di Leone XIII. Tale rapporto, oltre tutto, restava confinato nell’ordine naturale, rispetto ad una “salvezza dell’anima” avvertita essenzialmente, nell’ordine soprannaturale, come faccenda privata. Lo stesso Leone XIII nella Rerum Novarum (1891) scriveva: «Soddisfatte le necessità e la convenienza è dovere soccorrere col superfluo i bisognosi», precisando che, «eccetto il caso di estrema necessità, questi, è vero, non sono obblighi di giustizia, ma di carità cristiana» (n. 19).
Del resto, nei manuali di teologia morale fino al Concilio si registrava una sproporzione macroscopica fra lo spazio dedicato all’etica sessuale e quello dedicato all’etica sociale; una medesima sproporzione si poteva riscontrare confrontando le poche righe dedicate alla giustizia distributiva e legale con le molte pagine dedicate alla giustizia commutativa[4]. Lo stesso dovere di contribuzione fiscale appariva spesso riconducibile a leggi mere poenales. Il singolo poteva praticare l’evasione, accettando a suo rischio e pericolo le possibili sanzioni; tutto si risolverebbe in un calcolo strumentale, che non coinvolge la coscienza morale e non chiama in causa la nozione di peccato.
Per rendersi conto della svolta profonda su questo terreno basterà mettere a confronto una tesi sostenuta in uno dei manuali ancora in uso negli anni ’60 nelle università ecclesiastiche («sociabilitas non est constitutivum essentiale personae»[5]) con quanto scriveva Jacques Maritain già nel 1937 («Per la personalità è essenziale tendere verso la comunione»[6]) e con il rifiuto di Emmanuel Mounier, alla fine degli anni ’40, «di dare un coefficiente peggiorativo all’esistenza sociale o alle strutture collettive»[7]. Anche in Italia, nel 1945 Giorgio La Pira scriveva: «La natura umana è, per definizione, sociale; gli uomini, cioè, in virtù di una legge costitutiva della loro natura, sono sospinti a vivere in relazione»[8].

3. La lezione conciliare

Con il Concilio Vaticano II la riabilitazione della giustizia coincide con la vigorosa riaffermazione dell’«indole comunitaria dell'umana vocazione nel piano di Dio», di cui la Gaudium et spes darà la motivazione più alta, affermando «una certa similitudine tra l'unione delle Persone divine e l'unione dei figli di Dio nella verità e nell'amore» (n. 24). Sotto questo aspetto, alla luce della lezione conciliare la dialettica di amore e giustizia viene liberata da ogni ottica individualistica e aperta al riconoscimento della «legittima autonomia delle realtà terrene» (Gaudium et spes, n. 36). L’amore cristiano non sconfessa l’ordine della giustizia; il rovesciamento dell’asimmetria del mio e del tuo, di cui l’amore è capace (“il mio è tuo”) rispetto alle prevaricazioni dell’ingiustizia (“il tuo è mio”) è possibile solo se si è in grado di riconoscere il loro confine legittimo (“il mio è mio, il tuo è tuo”).
Per questo l’amore non dev’essere confuso con una forma di supplenza paternalistica; contro il pericolo di dare agli altri per amore quello che in realtà spetta loro per un atto di giustizia, aveva già messo in guardia anche Agostino: «Tu dai il pane all'affamato, ma sarebbe meglio che nessuno avesse fame»[9]. Nel decreto conciliare sull’apostolato dei laici si afferma senza mezzi termini: «Siano anzitutto adempiuti gli obblighi di giustizia, perché non avvenga che offra come dono di carità ciò che è già dovuto a titolo di giustizia; si eliminino non soltanto gli effetti ma anche le cause dei mali; l'aiuto sia regolato in modo che coloro i quali lo ricevono vengano, a poco a poco, liberati dalla dipendenza altrui e diventino sufficienti a se stessi» (Apostolicam Actuositatem, n. 8).
A questo proposito, si può anche ricordare l’insegnamento di Giovanni Paolo II. Per un verso, egli ha messo in guardia contro l’impoverimento – e addirittura il capovolgimento – della giustizia quando essa non si apre a quella “forza più profonda” che è l’amore. Basterà ricordare un noto passaggio dell’enciclica Dives in misericordia (1980), dove al n. 12 («Basta la giustizia?») si ricordano le “deformazioni” di alcuni progetti che, pur prendendo avvio dall’idea di giustizia, si sono rovesciati nel loro esatto contrario. Per un altro verso, Giovanni Paolo II ha riconosciuto la natura strutturale di alcune grandi questioni sociali, denunciando il male personale che arriva ad incancrenirsi in vere e proprie «strutture di peccato» (Sollicitudo rei socialis, n. 36).
La lezione conciliare costituirà in ogni caso un punto di riferimento fondamentale per riconoscere la centralità della giustizia nella vita cristiana, ribadendo un nesso intrinseco con il tema del bene comune, peraltro già esplicito nell’enciclica Divini Redemptoris (1937) di Pio XI, secondo la quale è «proprio della giustizia sociale l’esigere dai singoli tutto ciò che è necessario al bene comune» (n. 51). Su questa linea, il Sinodo dei vescovi del 1971 aveva riconosciuto la lotta per la giustizia come «dimensione costitutiva della predicazione del vangelo» (Il sacerdozio ministeriale e la giustizia nel mondo, n. 6), mentre la connessione fra giustizia sociale, bene comune e potere politico sarà esplicitamente ripresa nel Catechismo della Chiesa Cattolica (1992) in questi termini: «La società assicura la giustizia sociale allorché realizza le condizioni che consentono alle associazioni e agli individui di conseguire ciò a cui hanno diritto secondo la loro natura e la loro vocazione. La giustizia sociale è connessa con il bene comune e con l’esercizio dell’autorità» (n. 1928).
Un punto di sintesi in questo cammino è offerto dal Compendio della dottrina sociale della Chiesa (2004), dove la giustizia è presentata come uno dei tre valori fondamentali della vita sociale, oltre alla verità e alla libertà. In quanto si accompagna all’esercizio della corrispondente virtù cardinale, essa si traduce a livello soggettivo nel riconoscimento dell’altro come persona e s’impone a livello oggettivo come «il criterio determinante della moralità nell’ambito inter-soggettivo e sociale». Accanto alle forme classiche della giustizia (commutativa, distributiva, legale), si riconosce quindi la centralità della giustizia sociale, strettamente connessa alla questione sociale, che oggi acquista una rilevanza planetaria e domanda un’attenzione particolare alla «dimensione strutturale dei problemi e delle correlative soluzioni» (n. 201). Nella sua architettura complessiva, quest’opera si apre quindi richiamando il “disegno d’amore di Dio per l’umanità” e si conclude con l’invito ad edificare “una civiltà dell’amore”. Dentro questa circolarità, amore e giustizia non si differenziano in ragione di una loro diversa proiezione, privata o pubblica, ma per la loro capacità di intercettare e articolare in modo sinergico e differenziato il comandamento evangelico.
Questo tema è al centro della prima enciclica di Benedetto XVI, dove si ricorda, anzitutto, che è compito della politica farsi carico di un «giusto ordine della società e dello Stato»; infatti «la giustizia è lo scopo e quindi anche la misura intrinseca di ogni politica», anche se la sua concreta determinazione chiama in causa la ragione pratica, che può trovare nella fede un’alleata preziosa capace di purificarla e rigenerarla. Di conseguenza, la Chiesa «non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile. Non può e non deve mettersi al posto dello Stato. Ma non può e non deve neanche restare ai margini nella lotta per la giustizia. Deve inserirsi in essa per la via dell'argomentazione razionale e deve risvegliare le forze spirituali, senza le quali la giustizia, che sempre richiede anche rinunce, non può affermarsi e prosperare». In ogni caso, l’amore «sarà sempre necessario, anche nella società più giusta»; «sbarazzarsi dell'amore» infatti equivale a «sbarazzarsi dell'uomo in quanto uomo» (n. 27). L’impegno ad operare per un giusto ordine sociale è tuttavia compito immediato dei fedeli laici, chiamati come cittadini a partecipare in prima persona alla vita pubblica.
Siamo dinanzi ad un’articolazione diametralmente opposta alla visione tipica dell’attuale koiné contrattualista, che non colloca la giustizia dentro l’amore (amore-giustizia-amore), ma al contrario sembra fare dell’amore una opzione privata e supererogatoria dentro una prassi sociale che s’inaugura e si conclude nel segno della giustizia stessa (giustizia-amore-giustizia). Ad esempio, l’idea di uno “Stato compassionevole”, disposto a recuperare nella sfera della coscienza privata l’esercizio della compassione, dopo averlo derubricato come dovere giuridico, rilanciata dall’ex presidente degli Stati Uniti George Bush, rientra in questo paradigma, in cui si fa un uso estremamente riduttivo del principio di sussidiarietà[10].

4. Oltre il bipolarismo politico

A questo complesso intreccio di questioni corrisponde nella prassi della comunità cristiana una ricchezza multiforme di intuizioni profetiche e di testimonianze pratiche, ad opera di singoli fedeli, comunità religiose e aggregazioni laicali. In ogni epoca storica l’esuberanza del cristianesimo sociale ha sempre bilanciato generosamente un volume immancabile di controtestimonianze. Una valutazione circostanziata, capace di ricavare una sorta di “somma algebrica” fra un cristianesimo sociale accreditato da eroismo e parresia, e screditato da tradimenti e mediocrità è oggi impresa molto complessa, che ha bisogno di distanza storica e di una ricognizione interdisclipinare rigorosa e di ampio respiro.
Il giudizio non può abbandonarsi a valutazioni affrettate, né lasciarsi condizionare da singoli episodi di superficie, rinunciando ad intercettare quanto scorre nelle vene profonde della comunità cristiana. Una medesima attenzione, peraltro, si richiede alla dottrina sociale della Chiesa, che prende forma negli interventi del magistero anche attraverso un attento discernimento della prassi dei fedeli laici. L’equilibrio di questo discernimento è sottoposto a sollecitazioni di segno diverso, soprattutto in ordine alla ricaduta religiosa di posizioni politiche diverse. Non di rado, la comunità cristiana ha dimostrato di temere più l’ateismo che domina nelle culture politiche di sinistra, solitamente impegnate a rivendicare il primato dell’uguaglianza nell’orizzonte dei “rapporti lunghi” (e quindi più sensibili ai valori della giustizia sociale e della pace) che il paganesimo dilagante nelle culture politiche di destra, di solito più sensibili ai valori individuali della libertà e della vita.
Anche per questo motivo, probabilmente, la comunità cristiana, soprattutto nel Novecento, sembra aver storicamente sottovalutato la carica socialmente destabilizzante dei regimi di destra, accontentandosi dei suoi proclami in favore di alcuni valori nominalmente e (solo in apparenza) più “direttamente” cristiani. Com’è rappresentato efficacemente nel libro di Roberto Saviano, Gomorra, accanto alla testimonianza eroica di don Peppino Diana, non poche comunità cristiane hanno “benedetto” a occhi chiusi le reiterate professioni di fedeltà di tante famiglie camorristiche, che fanno un uso chiaramente pagano di valori cristiani, usati come vessillo per mascherare una prassi spregiudicata di grave illegalità. Ad un livello diverso, già don Milani aveva messo in guardia contro un pericolo analogo: «Un dittatore sanguinario o un governatore incapace fa più male alla Chiesa quando la protegge che quando la combatte»[11].
L’intera comunità cristiana, quindi, deve assumere uno sguardo ampio sui processi sociali, evitando di sottomettere l’appello alla giustizia alla logica selettiva del bipolarismo politico e alla retorica delle mere dichiarazioni di principio. Come ha osservato Charles Taylor, «i conservatori di destra (nel senso americano) parlano come difensori delle comunità tradizionali quando attaccano la libertà di aborto e la pornografia; ma in politica economica invocano una forma “selvaggia” d'iniziativa capitalistica che più di ogni altra cosa ha contribuito alla dissoluzione delle comunità storiche, che ha incoraggiato l'atomismo, che non conosce né frontiere né vincoli di fedeltà […]. Nell’altro campo, – egli aggiunge – troviamo fautori di uno scrupoloso rispetto della natura, gente che si farebbe ammazzare per difendere l’habitat forestale, manifestare in favore della libertà di aborto, per la ragione che la donna è l’unica padrona del proprio corpo. Sulla via dell'individualismo possessivo, alcuni avversari del capitalismo selvaggio si spingono più avanti dei suoi più disinvolti difensori». In questo scontro, «le fonti morali sono occultate e rese invisibili», poiché «le parti contrapposte […] sono legate da un’inconsapevole congiura il cui effetto è di mantenere celato alla vista qualcosa di essenziale»[12].
Finché la comunità cristiana non riconoscerà in questa “inconsapevole congiura” il vero partito trasversale che in un colpo solo oltraggia la giustizia e disonora la fede, resterà la sgradevole impressione di due pesi e due misure nell’opporre i valori della vita e della libertà a quelli della giustizia e della pace. D’altro canto, se è vero che – giustamente! – la Chiesa invita ad anteporre la norma morale alla sua codificazione giuridica ed alla conseguente sanzione legale, questo primato dev’essere fatto valere non solo in rapporto ai valori della vita, ma anche a quelli della giustizia sociale. L’etica – e a maggior ragione il vangelo – non prevede esenzioni per nessuno e non conosce il lessico indecente dell’immunità o delle leggi “ad personam”. È bene, ogni tanto, ricordarselo, meditando le parole della Scrittura: «Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia» (At 10,34).

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[1] In Jo. Ev. 72,3.
[2] S. Th. IIa-IIae q. 31 a. 3 ad 2.
[3] K. BARTH, L’Epistola ai Romani, Feltrinelli, Milano 1962, p. 412.
[4] Cfr. E. CHIAVACCI, Teologia morale, vol. 3/1: Teologia morale e vita economica, Cittadella, Assisi 1985, cap. 1.
[5] J. GOENAGA, Philosophia socialis, CISIC, Roma 1964, pp. 43-44.
[6] J. MARITAIN, La persona umana e l’impegno nella storia, La Locusta, Vicenza 1979, p. 29.
[7] E. MOUNIER, Il personalismo, Ave, Roma 2004, p. 66.
[8] G. LA PIRA, La nostra vocazione sociale, Ave, Roma 2004, p. 45.
[9] In Jo. ep., 8,5.
[10] Cfr. in particolare M. OLASKY, Conservatorismo compassionevole, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005 (con prefazione di G. Bush).
[11] Lettere di Don Lorenzo Milani Priore di Barbiana, San Paolo, Cinisello Balsamo 2007, pp. 150-151.
[12] CH. TAYLOR, Il disagio della modernità, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 111-113.
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