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Ecologia della Musica

Dialogo con Giovanni Sollima

«La Sicilia è sempre stata una sorta di grande zattera: ogni tanto si mette in viaggio. Ho proprio la sensazione che si metta in cammino, che ogni tanto si stacchi dalla terra ferma e che contro la terra ferma si vada poi a schiantare. In realtà basta mettere metaforicamente una mano nel sottosuolo per tirare fuori 'macerie'; sublimi - se vogliamo - ma soprattutto macerie, con una memoria globale. Io sono nato in questo ponte fra Oriente e Occidente». Anche Giovanni Sollima (Palermo, 1962) si è staccato dalla rada del trafficato 'porto' siciliano - crocevia policromo di suoni, storie, culture - per intraprendere i suoi "viaggi". Cresciuto in una famiglia di musicisti, ha studiato Composizione col padre Eliodoro (celebrato artista e didatta) e Violoncello con Giovanni Perriera, diplomandosi nel conservatorio della sua stessa città natale. In seguito ha potuto confrontare il beneficio della tradizione scolastica italiana con l'esperienza di un perfezionamento oltre i confini nazionali (a Strasburgo - con Antonio Janigro - e a Stoccarda - con Milko Kelemen). Parallelamente alla carriera di strumentista (fatta di collaborazioni eccellenti, di altrettanto sorprendenti contaminazioni) sviluppa progressivamente il proprio linguaggio compositivo, figurando - nel 1993 - fra gli autori del Requiem per le vittime della mafia (con Lorenzo Ferrero, Marco Tutino, Marco Betta, Carlo Galante, Paolo Arcà e Matteo D'Amico). Sollima 'inventa', ricerca, ricrea - evocando la fisicità e la "fonomorfologia" inconfondibili del suo strumento - una musica tutta peculiare, difficilmente, forse inutilmente catalogabile. Senza comunque trascurare altri teatri dell'espressione musicale, come l'Opera lirica o il Cinema. Legata - secondo una morfologia solo esteriore - a un certo comportamentismo minimalista (Differenza e Ripetizione), la sua prassi compositiva sembra piuttosto recuperare espedienti ed espressioni del barocco italiano, come il metodo di una traccia armonica sottintesa (il basso "cifrato" o continuo) di fondamento per la sperimentazione sonora del solista/dei solisti (fatta anche di "bravure", oltre che di lirica melopea). Il 'soggetto cavato' del compositore palermitano è insomma il Suono, nutrito di quelle stratificazioni - o suggestioni mediterranee - che soprattutto la sua terra ha saputo regalargli. Abbiamo chiesto al «Jimi Hendrix of the Cello» (come è stato definito sul "Newsday" da Justin Davidson, premio "Pulitzer" nel 2002) di offrirci il suo punto di vista 'mobile' sulla musica italiana di oggi.

(Guido Alici)

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«È un ponte, uno strano ponte: ambiguo, anche privo di memoria a volte, ma pur sempre interessante. Un meccanismo di Melting Pot che ha radici arcaiche. Per me è stato naturale raccogliere queste suggestioni. Fra 'contaminazione' e 'ibridazione' preferisco usare il paradigma di 'stratificazione'. Così come fra 'tonalità' e 'atonalità' gioco a servirmi di una specie di conio, "stratonalità"». (Anche l'eloquio del musicista - farcito com'è di anastrofi e allitterazioni - testimonia la fragranza del sincretismo, oltre una passione irrefrenabile per la comunicazione). «Quanto alla musica "contemporanea", o "compentoranea"» - con una simpatica tmesi di ironica 'compensazione' - «userei meglio la formula "musica presente": una sorta di entità che segue la creatività di un compositore allineato al tempo; il tempo di se stesso/il tempo per se stesso. Un tempo che raccoglie informazioni. Nel mio caso le informazioni arrivano dall'esterno, non necessariamente dalla musica pura. L'idea di musica "presente" - sul piano dell'esperienza o della ricerca - è quella che mi attrae di più. Un po' come se fosse un'ombra, come se fossi io, l'ombra. Non mi pongo il problema degli smottamenti, degli scarti temporali fra le esperienze del suono. Mi capita - nel grande contenitore del Tempo (o del 'senza-tempo') - di andare alla ricerca di elementi, di risorse o di pratiche in disuso, servendomi come guida soprattutto del violoncello: una presenza costante nella mia vita, un mezzo di indagine sulla musica del passato; una sorta di scanner, di computer di legno, su cui però occorre 'sporcarsi le mani', artigianalmente. Quando scrivo utilizzo il mio strumento come barriera, un antidoto a certa sterilità progettuale. Se non ho brandelli di emotività strumentale non scrivo. L'accezione di 'avanguardia' - o di 'contemporaneità', in questo senso - non saprei interpretarla diversamente, se non con una reazione di insofferenza verso certi puntuali riferimenti storici (Vienna, Darmstadt ecc.). Non mi lego quindi a una linea piuttosto che a un'altra: credo di più al mutamento, evoluzione o involuzione che sia. Un collante, molto flessibile e vario; l'apertura di una porta, una direzione improvvisamente diversa». L'ipotesi di una musica "presente" - pertinente, fra l'altro, e molto suggestiva - riflette una visione personale delle linee di tendenza nella composizione attuale. Ma se le definizioni non hanno più senso può essere comunque necessario coltivare Differenze invece di nutrire un'indifferenza troppo spesso culturalmente inconsapevole? «Ho una forte idiosincrasia nei confronti delle etichette: si scontrano con quest'idea di cambiamento permanente. 'Post-minimalista', 'neo-minimalista'. Io uso la tonalità e l'atonalità (quest'ultima intesa come una 'contrazione muscolare' della prima), ma uso pure il "rumore". E questo fin dai miei primi anni» (anni in cui il dibattito fra le pieghe del linguaggio era molto più acceso di oggi). «Ho respirato da vicino la diatriba, ma ho avuto sempre un campo visivo - un campo di ascolto - molto ampio e liberale, da Bach fino al noise. Oggi si tende ancora una volte a delimitare, a chiudersi nelle categorie, un po' come fanno le major discografiche».
Ragionando con Oreste Bossini sulla scrittura musicale, Sollima invoca la tradizione barocca per legittimare una 'pagina' che possa essere ancora - e soprattutto - mezzo per l'interpretazione, piuttosto che fine solamente speculativo. Pensando anche al "graficismo" dell'Avanguardia (a un certo 'feticismo' della pagina), si può dire di quella particolare esperienza quali valori siano da consegnare al futuro? «Penserei subito a Cage, una figura importantissima sotto ogni punto di vista, dal campo tecnico-musicale a quello più propriamente speculativo; fino ad arrivare al fatto "ludico" in sé. Di lui è stato considerato soprattutto un segmento (come l'esperienza darmstadtiana) in un personaggio assai più articolato e complesso, visto nella sua totalità. Ha attraversato l'Alea e lo Strutturalismo da grande viaggiatore - dal micro al macroscopico sonoro - attraverso esperienze 'estreme', con una curiosità e una saggezza straordinarie. E l'entusiasmo di un 'cinquenne'. Mi piaceva anche il 'primo' Penderecki: una 'scrittura' che urlava, esprimendosi con precisione ma sempre lasciando spazio all'interpretazione» (si pensi alla Passio secondo Luca o ai Threni per le vittime di Hiroshima). «Poi ho fatto le mie esperienze, lavorando su parametri diversi. Certo: incontrare Steve Reich lungo la via è stato quasi d'obbligo, per me. Un'esperienza cruciale. Per quanto riguarda la scrittura» - le scritture - «la pagina resta per me soprattutto mezzo. Posso fare un esempio: ultimamente ho scritto piccoli brani per violoncello non-in-notazione, come se fossero tatuaggi sullo strumento o sulle dita. Il mio corpo e il violoncello stesso in qualche modo ne hanno memoria. Una 'non-notazione' che si può imparare o tramandare». Un recupero, in certo senso, di una preistoria (ossia di una fase pre-scritturale) nella storia della musica; oppure - ancora una volta - della prassi barocca, dove un'eminente percentuale della performance finale (abbellimenti, cadenze ecc.) veniva affidata all'esecutore. «Una sorta di scrittura liofilizzata, quasi invisibile. L'esecuzione è in pratica un'altra forma di scrittura».
Il violoncellista palermitano è «interprete e compositore» delle sue stesse musiche (una figura professionale - sempre secondo Bossini - «un tempo centrale nella musica occidentale, diventata via via sempre più rara fino a scomparire quasi del tutto a favore di una netta divisione dei ruoli»); il concertismo attuale e il suo pubblico sono ugualmente in fase di mutazione: la tecnologia, i contesti, le modalità di diffusione sono cambiati da tempo. Si verifica anche in questo caso una certa "liberalizzazione" sociale dell'ascolto, della fruizione (pensiamo alla questione dell'applauso libero, già citata all'interno di questa sezione). Secondo Stefano Bollani quello che è da recuperare all'interpretazione musicale è proprio il piacere del momento esecutivo e un certo 'relativo' grado di improvvisazione. «Mi è successo, delle volte, di suonare una suite di Bach e avere l'applauso durante il preludio o dopo una fermata. Credo sia fantastico. Il pubblico, in questo senso, è abbastanza 'avanti'. I media (Internet, YouTube.) la dicono lunga su quello che è il desiderio e la partecipazione; quello che il pubblico si aspetta o vuole andare a trovare. Una mappatura 'sociologica' è impossibile da fare» - in ogni senso, anche il più "liquido" - «volendo necessariamente individuare fasce d'età o apprezzamento. Ai miei concerti partecipa una porzione sociale piuttosto ampia e variegata: dai teenager agli adulti, anche digiuni di musica (architetti, professionisti di ogni settore); fino a raggiungere ascoltatori più anziani, con o senza passione per la "Classica". Durante le mie 'scorribande' musicali mi è capitato di essere presente a concerti di Rock o di altro genere; senza contare che io stesso, a volte, mi sorprendo ad essere spettatore del mio concerto. Sono parte del pubblico anch'io. Il violoncello, poi, è strumento 'diagonale', proiettato sul pubblico: la cassa armonica la sento come una sorta di background tra il suo fondo e la mia stessa cassa toracica. Libero così una sorta di spazio acustico interno, simile a un monitor, capace di tradurre - tramite le sue stesse vibrazioni - importanti informazioni dall'esterno. Per quanto riguarda la tecnologia - la componente elettronica, l'amplificazione e l'interazione con campionamenti - posso dire di aver sperimentato molto, soprattutto a partire dagli ani '90 ('interfacciando' uno strumento del '600 con i software più aggiornati, loop-station, distorsori). A volte è una necessità ambientale a richiedere ulteriori equipaggiamenti, la ri-creazione di un'acustica virtuale. La mia sperimentazione, comunque, non è da "càmice bianco": ho sempre svolto le mie ricerche con semplicità, senza mai sacrificare l'espressione. Oggi, ad esempio, preferisco ritornare al suono puro. E il violoncello - non dimentichiamolo - è uno strumento dalla polifonia virtuale, che richiede in continuazione di industriarsi» - anche piuttosto artificiosamente, a volte - «per ottenere spazi acustici di intervento, secondo un programma preciso, sviluppando un percorso verificabile in tempo reale da parte dell'ascoltatore».
Con la fisicità del suo 'strumentismo' - con la passione per la natura del suono e dei suoi teatri naturali (basti pensare alle titolazioni dei suoi brani o a certe particolari location per le sue esibizioni) - Sollima sembra sostenere una specie di 'ecologia della musica'. Di qui diventa inevitabile non riflettere sulla geografia musicale: un sincretismo per certi versi spirituale, una continua 'migrazione' delle influenze sonore. (Nel 2002, fra l'altro, ha composto l'opera lirica Ellis Island, incentrata sull'epopea migratoria italiana). La musica "contemporanea" - la «musica presente» - è ancora 'rito'? Ha valore culturale di nuovo conoscitivo o fraternizzante? L'Occidente e la sua Tradizione musicale come si pongono dinanzi ad altri emisferi musicali, a metà fra globalizzazione e glocalismo? «Credo che queste capacità la musica di oggi le possieda ancora, forse più che in passato. Non dimentichiamolo: nel dopo-guerra (fino agli anni '70), quando si parlava di "contemporanea" si intendeva solamente un'asse che legava Vienna-Darmstadt-Milano. Per me, bambino, questa linea rigorosa richiamava sempre qualcosa di 'punitivo'. Ma cosa succedeva nei meridiani paralleli? Come reazione sono andato a cercare dove meno si sapeva: India, sì, ma anche America, Nord-Africa. L'idea del Viaggio è oggi una componente essenziale, irrinunciabile. Reich (nel Centro-Africa), Michael Nyman (col Gamelan balinese), lo stesso Philippe Glass o Terry Riley - solo per citare l'ambito 'minimalista' - si sono ampiamente occupati di contaminazione». (Ma da sempre la musica "classica" ha domandato terreno fertile alle riserve sonore della musica popolare ed etnica, secondo un concetto di "esotismo" ogni volta cangiante, dalle "turcherie" tardo-barocche al naturalismo ottocentesco - da Mozart a Debussy - con importanti eccezioni cronologiche, prima o dopo di loro). «Una strada tracciata, ancora da percorrere. Per quanto riguarda la tradizione occidentale, penso si difenda bene da sé: è presente, è in tutto quello che studiamo, da Monteverdi in poi. Ma ci sono anche altre realtà da coniugare. Io mi sono lasciato affascinare da loro: mi hanno trovato, non sono stato io a cercarle. Erano lì, semplicemente».
Abbiamo accennato, in apertura, alla preziosa occasione del Requiem per le vittime della mafia. Da quell'esperienza in poi il compositore siciliano ha ottenuto diverse commissioni da teatri, orchestre ed enti lirici. Cosa si può dire oggi del sostegno istituzionale alla musica, della "creatività su commissione"? «Da questo punto di vista - mi spiace dirlo - nel nostro Paese siamo ancora indietro. Ciò che spesso è ordinaria amministrazione per altri paesi (penso ad esempio al teatro d'Opera negli Stati Uniti) da noi non lo è affatto. In Italia si deve fare 'vetrina', ci si deve sempre porre sotto le virgolette del "progetto speciale". Sulle "commissioni" manca ancora una vera e propria strategia, un meccanismo che possa renderle costanti. Un meccanismo che per la creatività può risultare pure 'castrante', se si vuole. Ma dipende dai casi e dal temperamento del compositore: una questione che si affronta già nel periodo degli studi. Il meccanismo "perverso" dei concorsi funziona fino a un certo punto: le istituzioni sono 'lontane' perché programmano in modo obsoleto. Così lo stimolo a creare della nuova musica - della musica "presente" - arriva poco o non arriva affatto. Quello che manca è soprattutto il coraggio».
Con il pregio di un'educazione accademica nazionale ed estera Sollima può certamente offrire un'opinione autorevole sulla didattica musicale del nostro Paese. «Il conservatorio è un'istituzione in difficoltà; solo l'insegnante che ha un minimo di buonsenso sa rendergli giustizia. Per questo ci sono ancora delle 'scuole', dei punti di riferimento validissimi, in Italia. E una grande Tradizione. I Trienni e i Bienni di oggi sono delle formule ancora tutte da completare, piene di buchi neri sul piano della didattica e dell'organizzazione. È il paradosso dell'Italia: i buchi neri servono ad essere colmati. Per quanto mi riguarda posso dire di avere insegnato Composizione per un anno. Affiancavo al metodo tradizionale un metodo assolutamente libero: abbiamo parlato di forma, di energia; creatività libera e selvaggia. Per poi trovare - in piena autonomia - degli schemi fissi, un'auto-regolamentazione. Il nucleo emotivo, prima di tutto: molecolare, 'indiziario', esplosivo; va individuato dentro se stessi. Solo in un secondo momento subentra l'architettura e la razionalità. La scuola tradizionale (il contrappunto, la fuga.) resta sempre una palestra straordinaria. Anche per questo non mi sento di generalizzare sui Conservatori. La situazione attuale è un limbo: occorre responsabilità e passione per risolvere tutte le contraddizioni, ma i problemi di cui soffre l'educazione musicale italiana non sono affatto insormontabili».

Intervista effettuata nel giugno 2009

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