I valori che vengono sovente invocati per legittimare le azioni degli uomini e dei governi sono spesso concepiti come potenzialmente antagonisti: un eccesso di libertà genera, anziché ordine sociale, anarchia (in Platone); un eccesso di eguaglianza genera, anziché libertà, tirannia (della maggioranza: in Alexis de Tocqueville e in altri filosofi liberali). Il valore che sta ora occupando un grande spazio pubblico di considerazione è quello della
sicurezza: e si parla dunque di uno scambio tra libertà e sicurezza
[1], quando si chiedono leggi speciali per far fronte alla minaccia del terrorismo internazionale
[2], o quando si mettono in tensione diritti individuali (compreso quello alla
privacy) e sicurezza nazionale
[3]; ci si interroga sulla relazione tra sicurezza ed efficienza; o ancora si ricorre allo stesso concetto quando si tratta di regolare l’uso dei nuovi media e delle nuove tecnologie (o di comprendere le ambivalenze delle «tecnoscienze»
[4]), nonché di ripensare gli spazi urbani
[5], di dare corpo ai diritti dei migranti e all’integrazione.
In realtà, naturalmente, il tema della sicurezza è antico: esso corrisponde ad aspetti fondamentali della condizione umana, alla nostra condivisa
vulnerabilità ed esposizione al
rischio, nozioni queste ultime che stanno catalizzando progressivamente l’attenzione di chi si occupa dei processi e delle trasformazioni sociali
[6], nonché delle specifiche questioni concettuali e lessicali che li accompagnano.
Già nella sfera soggettiva studiata dalla psicologia, l’uomo «insicuro» può essere affetto da una patologia specifica, la timidezza, per cui sicurezza è una nozione afferente alla sfera primaria della salute psichica.
Il sapere e la tradizione religiosa hanno sempre offerto una risposta alla umana «mancanza di sicurezza» (e alle paure da questa generata
[7]), proponendo certezze, naturalmente, e in certi casi offrendo riparo da un mondo considerato disordinato e ostile:
certamen certavi, cursum consumavi, citavano le novizie che trovavano un sicuro riparo dalle insidie del secolo nel chiostro di un convento.
La grande tradizione della filosofia politica e giuridica moderna nasce con il tema della mancanza di sicurezza dello stato di natura, che richiede la costruzione di un ordine artificiale, l’ordinamento giuridico-politico, capace di assicurare la prevedibilità dei comportamenti, la certezza delle aspettative, la fissità rassicurante delle regole
[8] – in sintesi, l’universo concettuale della sicurezz
a è strettamente connesso con lo Stato moderno e le sue configurazioni[9].
Sicurezza è diventata nozione forte nei tempi più recenti per via dei due fenomeni congiunti della globalizzazione, da una parte, e delle nuove tecnologie, dall’altra. Avviene allora che temi che una volta sarebbero stati declinati in termini di «ordine pubblico» vengono ora concettualizzati come problemi di sicurezza sia con riguardo alla microcriminalità urbana sia con riguardo al terrorismo; questioni fondamentali tradizionalmente afferenti alla «giustizia sociale» vengono percepite come problemi di sicurezza (a partire dal posto di lavoro, in fabbrica ma non solo, e dalle più generali politiche di
welfare[10]) così come alla sicurezza e alla sua grammatica rinviano le recenti crisi economiche
[11]; riflessioni sui diritti soggettivi alla
privacy, nonché sull’affidabilità in questo senso delle più recenti tecnologie informatiche, vengono discusse nell’arena pubblica come inerenti alla sicurezza e a questo riguardo vengono approvate normative, convenzioni, nuovi provvedimenti e regole che mutano gli scenari anche costituzionali.
La sicurezza sta in pratica diventando il punto di vista, il catalizzatore semantico, dal quale si concettualizzano molti degli altri valori ai quali si fa riferimento per legittimare una
policy o una direzione decisionale
[12]: sia che si tratti di questioni ecologiche, di energia più o meno “sicura”, che di affrontare la sfida dei fenomeni migratori
[13] che stanno rapidamente cambiando il volto demografico del Paese; sia che si tratti di pensare alle città, ai nuovi conflitti e agli attori sociali
[14], che – ancora – alle politiche sociali, nonché di controllo
[15], che riguardano le persone che
le abitano.
Per questo motivo, il termine/concetto sicurezza è uno dei nodi cruciali che la cultura contemporanea affronta con i suoi saperi complessificati
[16]; esso è un fuoco privilegiato nel vocabolario della discussione pubblica ma anche, più in specifico, mediatica
[17]. Il riferimento ai concetti di sicurezza e insicurezza è sempre più insistente in questo spazio di discorso ove è divenuto un
frame egemone, se non addirittura
dominante, fino a sovvertire – come avviene nel nostro paese – l’ordine di priorità tra dato statistico dei crimini commessi e percezione sociale della sicurezza oppure fino ad assorbire, entro la sua potente sfera semantica, problemi originati da altri processi (come, ad esempio, i fenomeni della precarietà). L’Italia è di gran lunga il paese dove si muore di più sul lavoro, quasi il doppio della Francia, il 30% in più rispetto a Spagna e Germania: nel 2007 hanno perso la vita 1.170 operai e si sono verificate più morti bianche che omicidi, così come – prestando attenzione ad un altro versante – i decessi in incidenti stradali sono stati otto volte più numerosi degli omicidi. Ma il sistema mediatico e le autorità sono concentrate sulla criminalità, specie quella micro, lasciando ai margini le cause profonde dell’insicurezza: emerge così la questione centrale del rapporto tra sicurezza effettiva e percezione della sicurezza.
Eclatante, a questo riguardo, è il caso di Roma: un’indagine del Censis – da cui ha preso le mosse il
World Social Summit del 24 settembre 2008 – rileva come l’urbe sarebbe «la città più spaventata del mondo». In realtà i maggiori timori riguardano però soprattutto la precarietà lavorativa ed esistenziale, come mostrano alcuni dati di una ricerca Ires CGIL del 2008: il 75% dei lavoratori del commercio è precario, come l’87% degli insegnanti e il 57% degli impiegati. Anche nelle fabbriche, stante la stessa ricerca, ormai il 50% degli operai lavora a tempo, e nelle professioni e nella ricerca la quasi totalità degli under 35 non ha alcuna stabilità
[18].
Alla sicurezza, al rischio, alla vulnerabilità, si accompagna una parola chiave, anch’essa centrale del lessico politico a cominciare da Hobbes: la
paura. Nel dilagante senso di insicurezza, come è stato osservato
[19], «si nutrono a vicenda due paure. Una paura reale, concreta, connessa alla socialità e alla sopravvivenza, e una paura strisciante che tocca il significato dell’essere e della sua individualità. La contaminazione tra le due paure è costante, particelle si incontrano, si influenzano, si mescolano fino a produrre una paura ancora maggiore, che esplode nell’immaginario».
La paura di perdere il lavoro, o di non trovarlo affatto (che sta all’origine dell’insicurezza delle nuove generazioni), la paura di non avere un’identità sociale, la paura di ciò che è sconosciuto e diverso – da cui si origina, sulla base di stereotipi e pregiudizi, l’odio per lo straniero
[20], per il migrante
[21], nonché il «ritorno della razza» nel discorso pubblico
[22] e il riesplodere del razzismo –, la paura di non essere omologati, ovvero riconosciuti, e quindi di vivere la solitudine e di essere alla «mercé dei rischi»
[23], sono tutte facce dell’enorme incertezza che pervade l’uomo nell’«età della globalizzazione»
[24]. Incerto e insicuro, pauroso e timoroso, ansioso e angosciato.
Non si tratta solo di una questione teorica. L’insicurezza colpisce in concreto,
in corpore vili, si tramuta in violenza, odio, frustrazione, avvilimento, depressione. Si difende così senza scrupoli il territorio in modo egoistico, si respingono gli sconosciuti, ci si arma: la «fabbrica della paura»
[25] e «la fabbrica dell’insicurezza»
[26] fabbricano violenza, dal contesto urbano a quello globale.
Insicurezza, paura, incertezza si saldano chiamando così in causa, per converso, la necessità, da un lato, di mettere in atto strumenti di analisi multi e interdisciplinari, dall’altro di pensare a strategie che colgano le cause dell’insicurezza e sappiano suggerire politiche di sicurezza, senza esserne divorati e senza cadere nella logica della mera percezione che detta e orienta l’azione.
Sicurezza è dunque termine complesso che rimanda alla difesa da pericoli o aggressioni esterne, ma anche all’esigenza di stabilità interna, sia sul versante della prevenzione dei reati sia – aspetto oscurato negli ultimi decenni, dopo essere stato quello saliente – su quello della sicurezza sociale
[27]. È sia
security, ovvero «sicurezza esistenziale», sicurezza sostenibile e cura razionale dei progetti di vita dei cittadini, sia
safety, ovvero «incolumità», vera e propria difesa degli stessi cittadini e delle istituzioni che li rappresentano
[28]. Ma per perseguirne i fini, e non incorrere in assai pericolose deformazioni della realtà, occorre mettere in atto un approccio “olistico”, o “integrato”, che colga appieno le diverse forme di sicurezza (e insicurezza), le loro correlazioni con altri fattori, le loro tensioni con altri elementi (
in primis i diritti fondamentali delle persone). Solo adottando un tale approccio, ci pare, si può cercare di far uscire la sicurezza da quel ventre oscuro che è il suo
habitat naturale ed evitare che derive securitarie non facciano altro che alimentare nuova insicurezza, che la paura sia
la soluzione, o addirittura un «investimento politico»
[29], che la sicurezza stessa diventi un’ossessione.
[*] Il presente contributo, così come parte della progettazione della sezione, nasce nell’ambito delle attività svolte all’interno del C.R.I.S. – Centro di Ricerca Interdipartimentale sulla Sicurezza dell’Università di Modena e Reggio Emilia. Devo ad una conversazione con Gianfrancesco Zanetti la messa a punto dell’intelaiatura concettuale dell’articolo. Alcune idee qui sviluppate sono state presentate, in forma ancora embrionale, in due lezioni seminariali su
Sicurezza, paura e vulnerabilità nella società del rischio, nell’ambito del corsodi Sociologia del diritto (Prof. Francesco Belvisi) il 28 e 29 novembre 2007 presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Modena e Reggio Emilia, e in un intervento su
Vulnerabilità e sicurezza sociale: percorsi di ricerca nella tavola rotonda dedicata al tema della sicurezza entro un approccio “olistico” promossa dal C.R.I.S. presso la Facoltà di Ingegneria dell’Università di Modena e Reggio Emilia il 22 luglio 2008. Ringrazio il Prof. Michele Colajanni per avermi stimolato ad approfondire alcuni nodi decisivi legati alla sicurezza e a mettere a punto un metodo di indagine congruo ad una nozione così complessa e sottoposta, in tempi recenti, ad una articolata risemantizzazione.
[29] B. SPINELLI,
Il villaggio della paura, in “La Stampa”, 27 aprile 2008. L’articolo prende spunto dal volume di L. MUCCHIELLI (sous la direction de),
La frénésie sécuritaire. Retour à l'ordre et nouveau contrôle social, La Découverte, Paris 2008. Della stessa Spinelli si veda
Il valzer della paura, in “La Stampa”, 6 luglio 2008.