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La stella che non c’è:
la Cina tra tradizione e futuro

Gianni Amelio
Intervista di Andrea Fioravanti

Gianni Amelio è uno dei maestri del nostro cinema, un autore che certamente è impegnato a raccontare storie fatte di persone e non di personaggi. Legato al rigore di un’estetica che si fa etica piuttosto che ad una semplicistica spettacolarizzazione delle trame che mette in immagini. Un narratore che non fa sconti e che predilige i sentimenti, anche i più aspri, al sentimentalismo.
Calabrese, laureatosi in Filosofia nel 1971, Gianni Amelio, prima di passare al cinema, svolge un lungo tirocinio televisivo; realizza, infatti, per la televisione alcuni lavori importanti tra i quali un film in 16 mm su Tommaso Campanella, La città del sole. Nel 1983 esordisce nel cinema con Colpire al cuore, film coraggioso che affronta il tema del terrorismo con una lucidità scevra da retoriche e da luoghi comuni. Il film riscuote ampi consensi sul fronte della critica, che si ripetono in occasione dell'ottimo I ragazzi di via Panisperna (1989), ove vengono raccontate le vicende del famoso gruppo di fisici capitanato, negli anni '30, da Fermi e Amaldi; nel 1989 il film Porte aperte, tratto dal romanzo omonimo di Leonardo Sciascia e superbamente interpretato da Gian Maria Volonté (attore con il quale il regista svilupperà un rapporto di odio e amore per diversi anni a venire), lo lancia come autore di dimensioni internazionali e gli procura una nomination all'Oscar nel 1991. Nei tre film che seguono Porte aperte sviluppa tematiche legate alla realtà sociale con dolorosa partecipazione e sensibilità artistica. Con Il ladro di bambini del 1992, il suo maggior successo commerciale, inizia quella trilogia sul viaggio come scoperta del sé e dell’alterità, che prosegue con Lamerica, nel 1994, e con Così ridevano (1998 - Leone d'oro alla Mostra di Venezia), film che lo consacrano autore di valore assoluto e respiro internazionale. In Le chiavi di casa (2004) ritorna ad addentrarsi nei meandri delle relazioni familiari con Kim Rossi Stuart, padre di un bambino disabile, attraverso un cinema perfetto nella sua ricercatissima semplicità, mettendo la macchina da presa al servizio delle emozioni e del vissuto dei suoi protagonisti.
Con La stella che non c'è (in concorso a Venezia 2006) riprende il tema del viaggio portando al cinema il romanzo di Ermanno Rea, La dismissione, ambientato in Cina.
Incontriamo Amelio proprio all’interno del progetto culturale “Il Viaggio” voluto dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Perugia in collaborazione con Regione Umbria, nel più ampio contesto del BiancoFilmFestival 2007.

Nel tuo cinema il viaggio come spostamento fisico e materiale ci conduce alla scoperta di realtà sconosciute o ignorate, un vero e proprio viaggio nell’alterità, alla ricerca della conoscenza del diverso e di ciò che spesso ci spaventa, ma questo, di frequente, diventa un viaggio alla ricerca di se stessi. È così per esempio in La stella che non c’è: Vincenzo Buonavolontà, interpretato magistralmente da Sergio Castellitto, intraprenderà un viaggio di lavoro in Cina che presto si rivelerà un viaggio non soltanto geografico, ma un’intensa esperienza di conoscenza di una nazione lontana dall’essere il paese ormai emancipato dipinto dai media e che si rivelerà al protagonista in tutte le sue contraddizioni sociali e politiche. Come mai hai scelto questo percorso esistenziale per il protagonista?

È chiaro che i percorsi esistenziali possono anche essere fatti dalla camera da letto al bagno, e viceversa, di casa propria. Se Vincenzo Buonavolontà va in Cina bisogna specificare innanzitutto chi è e cosa rappresenta in quel momento la Cina per lui. Vincenzo Buonavolontà è un operaio di un’acciaieria in disarmo. Questa acciaieria viene chiusa e poi venduta pezzo per pezzo a una società cinese come accade quasi in ogni angolo d’Europa da una quindicina d’anni a questa parte. In Italia abbiamo l’esempio clamoroso di Bagnoli che è stata interamente comprata dai cinesi.
In questi casi, indipendentemente dal mio film, i cinesi mandano una delegazione nel paese in cui acquistano le fabbriche perché questa studi esattamente le condizioni della macchina che hanno intenzione di prendere e la smontino, con l’aiuto degli operai italiani o francesi o tedeschi, la imballino e poi la rimettano in piedi una volta arrivati in Cina. A volte i pezzi di queste macchine grandi come astronavi restano imballati per anni per poi essere rimontati, per capire se ancora funzionano o il grado di usura a cui sono arrivati. Ma questa è cronaca, non c’entra con il mio film per il quale invece è determinante il rapporto che l’uomo della strada può avere con quello che possiamo chiamare mito della Cina, esercitato soprattutto sui mezzi d’informazione. Non c’è giorno in cui un importante giornale o persino una rivista femminile di moda o di gadget non parli della Cina. La Cina è diventata un punto di riferimento, anche se quasi sempre con un atteggiamento ambiguo. È qualcosa che incuriosisce e nello stesso tempo verso la quale si hanno profondi dubbi, intesi come sospetti di varia natura su tutto ciò che in Cina viene vissuto o prodotto e ripresentato a noi sotto una qualche forma. Quindi è quasi una specie di obbligo narrativo quello di far sì che Vincenzo Buonavolontà, protagonista del libro di Rea, vada fuori dal confine italiano. Nel libro di Rea i cinesi stanno per qualche mese a Bagnoli però poi partono. Lui resta in contatto con alcuni dei funzionari che hanno diretto i lavori, non si saprà più nulla di lui, se non le sue storie private che vanno in un certo modo.
Invece, volendo utilizzare questo, che poi è stato anche un fatto di cronaca, non in senso neorealistico ma in senso allegorico, mi sono detto che raccontare i cinesi che scorrazzano per le strade di Bagnoli o di Napoli, nei quartieri spagnoli o guardando il Maschio Angioino, anche se sembra un’immagine bizzarra dal punto di vista figurativo, si riferisce a qualcosa che non racconta niente di nuovo, non proietta il discorso su nessun altro tipo di riflessione. La riflessione proposta è questa specie di scommessa abbastanza strana e controcorrente ma plausibilissima. In questo senso può ricordare quella specie di rovesciamento di ruoli che c’è in un film come Colpire al cuore dove, in un’epoca in cui i padri temevano che i figli prendessero strade perverse, cioè diventassero brigatisti, io raccontavo di un figlio che sospetta di terrorismo suo padre in maniera così feroce da mandarlo in galera. Narrativamente la scommessa era un po’ questa: far fare al mio protagonista un qualcosa che gli altri, le persone cosiddette normali, l’italiano medio non avrebbe mai fatto. Per cui sono convinto che il picchettaggio, per esempio, degli operai con cui si apre il mio film non è un’immagine che apre ma che chiude. Tant’è vero che nella pellicola sono inquadrati senza far vedere le facce, piove e loro sono sotto degli ombrelli in silenzio, come se fosse la fine di un rito che è un rito di addirittura trenta, quaranta anni fa e che oggi sembra davvero un rito senza più religione. Cosa dovrebbe succedere oggi, in un momento in cui è fortemente drammatico il fatto di perdere il lavoro e purtroppo sempre più all’ordine del giorno? Credo che negli anni cinquanta o nei primi anni sessanta avremmo fatto una storia fortemente impegnata politicamente, saremmo entrati nella fabbrica insieme agli operai che l’avrebbero occupata, avremmo tirato fuori gli slogan contro il padrone, avremmo fatto del cinema nobilmente politico, non proprio d’intervento, ma comunque politico, come è stato fatto poi in Italia in modo abbastanza specifico. Ecco io, invece, soprattutto perché sono un uomo di oggi e penso al domani, ai comportamenti che ora possono sembrare impossibili o improbabili e che domani forse saranno di tutti i giorni, ho pensato che l’unico modo perché quest’uomo reagisse ad un problema gravissimo come quello di non lavorare più a 53 anni, oppure di non sapere che cosa fare, fosse di cambiare un po’ pelle, fosse di non comportarsi come normalmente ci si aspetta che l’operaio medio si comporti. Di rilanciare in un certo senso il proprio destino, dire: se tutto è perduto allora non ho niente da perdere. E allora, non avendo niente da perdere, ecco che gli ultimi miei risparmi li spendo per un viaggio in Cina dove sicuramente troverò la persona che ho conosciuto, del quale sono diventato amico, che è il capo della delegazione e gli darò questa cosa che servirà e sarà fondamentale per l’impianto della macchina in Cina. Quello che credo di non aver mai messo in evidenza nella prima parte del film è il senso di una missione che Vincenzo compirebbe facendo questo. Credo che probabilmente un altro regista, oppure un altro sceneggiatore, avrebbe sottolineato di più la nobiltà del gesto o il contenuto politico del gesto. Io porto questa piccola centralina d’acciaio aggiustata con le mie mani per salvare delle vite umane, e quindi riequilibro determinati rapporti perché la macchina potrebbe essere causa di morte per chi la manovra se non è messa a punto. Questa cosa nel mio film è appena accennata, è solo un pretesto. Il vero Vincenzo è quello che anche con questo pretesto pensa senza dirselo: a me non resta che cambiare vita, non resta che ricominciare in un altro punto del mondo che forse è in antitesi al modo di vita che lascio qui.

E perché per ricominciare hai scelto la Cina e non il Canada o il Sudafrica?

Perché la Cina oggi è il simbolo di tutti quelli che lavorano, qualsiasi sia il lavoro che fanno. Perché il lavoro al quale ci si trova di fronte, anche solo camminando in una qualunque strada di una metropoli cinese, è un lavoro che quasi può prescindere dal contenuto. Ciò che colpisce è la quantità e la filosofia che c’è dentro e dietro questo lavoro. Intanto lavorano tutti e quando si va a vedere che cosa fanno non si capisce molto bene cosa facciano. Per esempio, c’è una sequenza del film in cui il protagonista sbircia nelle case salendo le scale di un grattacielo. Lui vede una signora che gli porge un pezzo di carne di maiale ed è evidente dalla grandezza del pentolone nel quale lei ha cucinato quel pezzo di maiale che non è una signora gentile, ma è qualcuno che gli sta vendendo un pezzo di carne che viene dall’interno di un appartamento.
Quella signora, che mi sono inventato lì per lì, l’ho ritrovata qualche sera dopo vicino al posto dove giravo che vendeva proprio quei pezzi di carne che gli avevo visto fare in casa… è strano, ma a volte è la realtà che ti copia. All’inizio non pensavo che stesse lavorando ma che cucinasse per una famiglia sterminata. Poi mi sono accorto invece che il suo compito era quello di cucinare pezzi di maiale per poi venderli in strada. Un cinese che ozia o è un vecchio che sta aspettando sulla riva del fiume il cadavere del suo nemico oppure qualcuno che chiede l’elemosina, “un accattone”. Usando questo termine in senso alto, pasoliniano, diciamo che coloro che non hanno un lavoro, che si devono arrangiare, ma senza rubacchiare, sono tanti. Una cosa che non si vede in Cina sono i ladri, è la delinquenza comune, lo scippo non si vede nelle grandi città. Questa cosa mi ha colpito molto e mi sono chiesto se è nell’indole dei cinesi, nella loro educazione, nel tipo di cultura politica nella quale sono cresciuti, il non essere ladri, come lo sono per esempio in tutte le città del Brasile i ragazzi molto giovani. O, per non andare troppo lontani, a Napoli o a Trastevere. In Brasile davanti agli alberghi, a Bahia, a Rio, a San Paolo è compreso nel prezzo che arrivi il motorino e ti slacci la borsa o l’orologio. Invece nelle città cinesi non si vede il nullafacente, il ladruncolo, l’approfittatore. L’unica cosa nella quale sono realmente impegnati è quella di venderti qualche cosa che loro hanno fatto. A quel punto dobbiamo capire se veramente i venditori sono coloro che hanno costruito l’oggetto oppure se sono coloro che hanno ricevuto in dotazione quella mattina cento oggetti uguali e la sera devono tornare con tutti e cento i pezzi già venduti altrimenti gli succede qualcosa di grave. La foga, la maestria, l’intensità, l’impegno con cui loro vendono, fa pensare che sia solo quello il loro lavoro, cioè la vendita, e che non sono loro coloro i quali beneficeranno del numero di pezzi venduti. Hanno una specie di obbligo, come quello che può avere un piccolo rom che viene mandato a chiedere l’elemosina e guai se la sera non torna con un determinata cifra. È una cosa estremamente allarmante perché il lavoro che si vede esprimersi ad un livello che in Occidente sarebbe quasi intollerabile (anche perché dura ore e ore, giorno e notte, c’è sempre qualcuno che vende qualcosa a qualcun altro), fa pensare che ci sia del marcio all’interno di alcuni processi di costruzione e di smercio e di consumo. Diciamo che all’ottanta per cento il compratore è un occidentale, però ci sono moltissimi cinesi che comprano dai cinesi. Per esempio, tutte le grandi città hanno magazzini dove c’è tutto, dei piccoli grattacieli di venti piani in cui si può comprare qualunque cosa, dove si esaurisce tutto il possibile contenuto del consumo. In più tutto quello che si compra somiglia a qualcosa che si ha già visto, perché ormai questo è alla base non solo dell’industria ma anche della gadgettistica, di tutto ciò che costituisce oggetto di ornamento. Tutto ricorda sempre un’altra cosa, un’altra cultura, soprattutto nel campo delle calzature e dei vestiti. Se si va alla ricerca del capo firmato lo si troverà firmato. Su questa camicia che ho comprato in un mercatino per l’equivalente di trenta centesimi c’è scritto Giorgio Armani.

Passiamo ora a parlare della realizzazione del film. Come è girare in Cina? Quali difficoltà hai incontrato e quali di quelle che ti aspettavi non si sono presentate?

Partendo dalla considerazione che ormai, in qualunque parte del mondo, nessuno può andare con una macchina da presa e una troupe e girare, oggi bisogna andare alla film commission a chiedere i permessi, mentre una volta ci si rivolgeva al comune. Quindi la prima cosa da cancellare è l’idea che solo in Cina si trovi difficoltà a girare un film. Credo che in questo momento sia molto più facile per uno straniero girare in Cina che non negli Stati Uniti. Dopo l’11 settembre c’è un controllo capillare persino all’interno di uno chassis con pellicola vergine. Si tratta, quindi di un problema di sicurezza, mentre il problema della Cina è semplicemente un problema burocratico - secondo me inestirpabile- ereditato dal partito. C’era, e in qualche misura c’è ancora, un Partito Comunista con tutta una serie di dogmi e tutta una serie di regole e canoni da rispettare e tra tutte le formalità da rispettare c’è un’eterna attesa di qualcuno o di qualcosa che deve dare il via libera. Ci sono molte differenze tra la Cina di oggi e quella che ho conosciuto solo attraverso i libri. Sotto il potere di Mao fare un film, come fece Antonioni con il suo documentario, era più difficile e quel via libera non era una certezza. Allora si presentava il progetto attraverso autorità politiche quasi equivalenti di parte italiana e il progetto doveva essere coperto dai due governi altrimenti non partiva, oggi possiamo fare a meno di andare al Ministero degli esteri perché ci bastano i visti al consolato cinese. Inoltre una volta andato in Cina ed entrato nell’ufficio film studio di Shangai, oggi si è assolutamente consapevoli che l’autorizzazione a girare si avrà, non ci sono dubbi. Però mentre si parla con i funzionari, questi hanno delle facce di pietra, non tradiscono emozioni nemmeno per sbaglio e fanno capire che la possibilità di girare il film nel loro paese la si deve comunque conquistare. Comunque la prima impressione che si ha è che non ci sarà un rifiuto. Questa è la differenza tra la Cina di oggi e quella che noi abbiamo immaginato, studiato, la Cina che ci faceva sognare che ci fosse il socialismo realizzato nel più grande paese del mondo. Oggi si comprende che è solo una questione di prezzo, che tutti hanno un prezzo, che persino il partito ha un prezzo e che un giorno arriverà il conto, in quale forma e quando non si sa, però arriverà e se si è disposti a pagarlo, si farà il film. Questo conto è di doppia natura. È un conto, sì, di natura economica ma anche creativa. Per esempio la presidentessa della commissione artistica mi disse: «Naturalmente qualcosa noi dobbiamo suggerirgliela, ed è normale, perché lei è italiano e non conosce profondamente la nostra cultura, la nostra vita. Le dico subito che una cosa che manca nel suo film è la bellezza della Cina, sono i bei paesaggi, sono i bei monumenti, che poi sono le cose che lo straniero vuole vedere del nostro paese. È compito di un regista che attraverso il suo film si conoscano le cose belle di un Paese». Così mi diede la prima stoccata. Un’oretta si passa chiedendo se vuoi un the, se ne vuoi un altro, poi si comincia a dire quant’è bella Roma, un cerimoniale con delle cose particolari che devi capire. Ad esempio ci sono sempre due interpreti. Uno scelto da loro e uno scelto da te. Loro però hanno un interprete che parla sia l’italiano che il cinese, quindi non si può dire al proprio interprete come presentare le cose, perché anche l’altro capisce cosa si sta dicendo. E riferisce le intenzioni. Ho imparato che sia il cinese che si incontra per la strada che quello che ha un minimo di potere nel suo campo non lo si deve ingannare, non si deve dirgli una cosa per un’altra; me l’hanno insegnato loro.

A proposito dei traduttori. Nel tuo film c’è anche un’altra storia: quella della traduttrice, una ragazza giovane con enormi difficoltà esistenziali. Qual è oggi la situazione dei giovani e delle donne in Cina?

La Cina è grande, i giovani sono tanti: bisogna distinguere tra le tante Cine. Quando pensiamo alla Cina noi la mettiamo in relazione all’Italia, al nostro paese, alla nostra lingua, alla nostra cultura. In realtà dovremmo rapportarla all’Europa. Per cui anche dal punto di vista fisico un cinese del Sud non somiglia affatto a un mongolo. C’è una grande differenza tra la statura, la faccia, il naso, le orecchie di uno che vive a Pechino e uno che vive a Quelin, luogo in cui ci sono le spiagge, dove c’è l’estate che impazza, dove c’è tutto il kitsch possibile e immaginabile, dove tutto è una specie di parodia dell’Occidente, con le sue luminarie e i suoi locali notturni. Inoltre c’è il mito che tutti i cinesi sono piccolini, ma non è vero. Ci sono dei cinesi del nord che sono dei giganti. Così come per la cucina. Il nostro ristorante cinese è una barzelletta. Perché basta partire da Shangai e viaggiare per un giorno, prendendo un traghetto, per arrivare in un posto dove la cucina è tutta un’altra cosa. Tant’è vero che c’è gente di Shangai che non riesce ad abituarsi alla cucina di Chonchin o viceversa. Le persone che hanno lavorato con noi nel piccolo villaggio che si vede nel film quando ci hanno seguito nella Immermongolia non riuscivano a mangiare e la sera se ne andavano per cercare dei posti dove potessero trovare cose che fossero vicine al cibo di Chonchin. Per noi era sì un’altra cosa, ma sempre Cina era.

Quindi per i giovani ci sono tante Cine, a livello geografico, antropologico e sociale. Ma ci sono molte Cine anche a livello economico. Come rispondono i giovani a queste nuove domande?

Sì. Ci sono tante Cine anche a livello economico. L’idea, che era quella di Mao e del nostro immaginario, che tutti in Cina hanno le stesse porte aperte, oggi non è più vera. In Cina oggi servono i soldi a chiunque. E quando si va in una università ci si accorge, vedendo gli studenti, che vi è un’élite che la frequenta. Il figlio del contadino non va all’università perché l’università costa, si deve viaggiare attraverso distanze molto grandi ed entrare nella città universitaria senza borsa di studio è difficilissimo. La Cina è un paese capitalistico come tutti gli altri, con in più le pastoie e i lacciuoli che di eredità ha lasciato il comunismo. Ad esempio, per andare all’università non servono solo i soldi per pagare le tasse e la stanza, bisogna fare i conti con i numeri chiusi e per non uscire dalle rigide graduatorie devi avere protezioni politiche perché il numero dei cinesi è sterminato.
La vita nei campus dal punto di vista ufficiale è molto rigida perché ci sono infinite regole da seguire, ma dal punto di vista non ufficiale è la porta dell’inferno più spalancata dell’universo-mondo, come tutto quanto in Cina. Ad esempio una delle industrie più redditizie della Cina è la prostituzione, anche se è proibitissima dalla legge; la stessa legge non impedisce però a dei bambini di consegnare al turista dei piccoli biglietti da visita con dei numeri di telefono ai quali può rintracciare delle ragazze. Questa è una cosa continua in tutti gli angoli delle strade. Nell’arco del tempo che ho impiegato a preparare e girare il film, in tutto un anno e qualche mese, ho assistito anche alla trasformazione di questi biglietti da visita che da molto casti, con una figura femminile di una hostess vestita, sono arrivati al nudo integrale. Poi ovviamente è assolutamente proibita anche l’omosessualità, ma nella pratica la vedi dovunque.

Qual è in Cina la situazione dei diritti umani? Cos’è cambiato dopo piazza Tienammen?

È cambiato qualcosa, ma in un modo che ti fa venire allo stesso tempo rabbia, brividi, paura: è subentrata la rassegnazione. Se tu oggi parli ad uno studente di piazza Tienammen, questo si volta dall’altra parte perché sta pensando a un’altra cosa. Nessuno che fa parte delle generazioni post Tienammen ha non dico il mito, ma almeno il riferimento politico e umano che Tienammen avrebbe dovuto lasciargli. Lo studente universitario di oggi è quello che ha capito che è inutile ribellarsi sia in quella forma che in un’altra; e poi, molto “italiotamente”, ama altre cose. Gli studenti vanno in discoteca tutte le sere, amano i bar dove si balla, le città cinesi, che poi sono delle metropoli immense, che pullulano di luoghi di divertimento. Ad esempio si ha l’impressione che Chonchin sia una specie di Las Vegas, magari finta, però dove la gente ha soldi da spendere. Certo si può incontrare uno studente o un professore che parla con amarezza della situazione, ma comunque pensa che non ci sia niente da fare. Questa è la parte amara della Cina. Quando si guarda la Cina borghese, quella dei ragazzi che vanno all’università, che possono leggere, ascoltare dischi, si capisce che i giovani hanno degli interessi che sono simili a quelli di un tipo di gioventù che possiamo definire “disimpegnata”. Poi c’è anche una grande omertà su loro stessi. Difficilmente hanno voglia di parlare di queste cose. Alle tue domande sui loro ricordi di Tienanmen e su cosa si dovrebbe fare per non dimenticare, quasi sempre cambiano discorso. C’è ancora in Cina il sospetto che qualcuno possa ascoltare e punire.
In conclusione i diritti umani sono al grado zero: non esistono se non in una misura che per noi occidentali è aberrante. Per loro no, perché sono quieti e si sono abituati e adeguati.


(a cura di Ilaria Fioravanti)
Intervista realizzata il 16 Giugno 2007

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