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Fra “sinità” e “global philosophy”:
voci di un dibattito, dalla Cina e sulla Cina

Amina Crisma

1. La “febbre culturale” della Cina d’oggi

Uno degli aspetti più interessanti del clima della Cina post-maoista è l’instancabile effervescenza intellettuale che la pervade, e che viene designata con il termine di wenhua re, ossia “febbre culturale” o “frenesia culturale”. Se ne possono osservare molteplici e quanto mai varie manifestazioni; essa produce fra l’altro un gran fervore di dibattiti, e una straordinaria abbondanza di iniziative editoriali. Per dare un’idea di questo vasto fenomeno sulla base di qualche dato quantitativo, prima del 1979, anno in cui si è aperta la stagione delle riforme di Deng Xiaoping, v’erano in Cina solamente quattro riviste di filosofia, mentre oggi ve ne sono più di sessanta, e dal 1979 in poi si sono tradotti in cinese un migliaio di volumi e oltre un migliaio di articoli di filosofia occidentale. Certamente, sulle pubblicazioni continua a sussistere il controllo del governo, e in particolare la censura continua a esercitarsi sulla discussione dei problemi politici e sociali, e su tutto ciò che rappresenti materia di scottante attualità; cionondimeno si assiste a una dinamica vivace di allargamento degli spazi di espressione, sia negli ambienti intellettuali sia in quelli della gente comune, e tale significativo ampliamento è alimentato fra l’altro in cospicua misura dall’inclusione della Cina nel global network delle telecomunicazioni. La diffusione di Internet ha contribuito in modo rilevante all’apertura della società cinese nel suo insieme, ha formato un nuovo e vasto pubblico di lettori, e ha conferito un impulso poderoso alla trasformazione delle caratteristiche e delle prospettive della ricerca accademica[1].
Per comprendere e valutare il significato e l’entità di tali mutamenti che si sono prodotti in Cina a partire dagli anni Ottanta, è opportuno ricordare quali ben diverse caratteristiche abbia avuto la fase storica che li precede. Nell’epoca della Rivoluzione Culturale, fra il 1966 e il 1976, la Cina si era chiusa pressoché totalmente a ogni rapporto culturale con l’Occidente (gli unici contatti che avevano luogo erano esclusivamente connotati in chiave di autopromozione propagandistica da parte del regime), inviava a “rieducarsi” nei laogai molti intellettuali ed esibiva un atteggiamento radicalmente iconoclasta nei confronti di tutte le proprie tradizioni di pensiero. Il marxismo del Grande Timoniere era il solo ed unico riferimento teorico che fosse consentito, e Confucio e Laozi erano additati come “nemici del popolo” ed esponenti di ideologie retrive, da combattere e da cancellare alla stessa stregua delle teorie occidentali, tutte egualmente classificate (con la sola ovvia eccezione del marxismo) come “ideologie imperialistiche”.
Durante la Rivoluzione Culturale, insomma, ha avuto luogo, fra molte altre devastazioni, una distruzione immane di risorse intellettuali, dai vasti effetti e dalle incalcolabili ripercussioni. E tuttavia, in quegli anni bui, e in quelle condizioni decisamente sfavorevoli, v’erano coloro che riuscivano, nonostante tutto, a perseguire tenacemente i propri autonomi percorsi di lettura e di riflessione: essi diverranno protagonisti della scena culturale cinese a partire dagli anni Ottanta. Per citare uno degli esempi più illustri e famosi, con l’avvento dell’epoca di Deng fa ritorno alla vita pubblica, dopo un più che ventennale confino che era iniziato già ai tempi della Campagna contro la Destra degli anni Cinquanta, uno dei maggiori scrittori della Cina d’oggi, Wang Meng, che è divenuto ministro della Cultura della RPC e lo è rimasto fino al 1989[2]. E ancora, dal 1979 si affaccia al proscenio un pensatore fra i più originali e rappresentativi della Cina d’oggi, Li Zehou, che proprio nelle difficili condizioni di un campo di lavoro ebbe ad iniziare una lettura delle opere di Kant destinata a rimanere un riferimento fondamentale per tutta la sua fertile elaborazione teoretica successiva[3].
Indubbiamente, se si confronta il periodo attuale con quel cupo decennio fra il ’66 e il ’76 in cui dominava lo slogan “la filosofia dev’essere al servizio della politica”, è possibile misurare il cammino che la Cina ha percorso negli ultimi trent’anni, e che le ha consentito un nuovo rapporto con il mondo così come un rinnovato confronto con le proprie tradizioni. Da tali premesse è stata resa possibile una nuova e fertile stagione creativa per la filosofia cinese contemporanea[4]. E peraltro non si è certo trattato di un cammino lineare: il drammatico epilogo della “primavera di Pechino” nel 1989 a Tian Anmen ha indubbiamente segnato uno spartiacque di rilievo nel trentennio post-maoista, e la sconfitta dell’istanza della “quinta modernizzazione” -ossia la democratizzazione- che vi si è consumata non è rimasta senza effetti nella configurazione del clima culturale successivo.
Per molti versi, la fine degli anni Ottanta marca una cesura; se nel primo decennio dell’epoca di Deng la tendenza predominante appariva un avido assorbimento di idee occidentali -e fra gli svariati autori divenuti allora assai popolari negli ambienti universitari cinesi si annoveravano, ad esempio, Thomas Jefferson, Nietzsche, Heidegger, Sartre- dagli anni Novanta un orientamento assai diffuso sembra essere piuttosto quello che è rivolto alla tematizzazione dell’essenza della “sinità” (zhonghuaxing) e degli asian values. Si tratta di un atteggiamento che, in sostanza, mette a frutto i molteplici stimoli provenienti dalle teorie post-moderne e post-coloniali in chiave di critica dell’orientalismo e della sinologia per definire una posizione nativista (bentuzhuyi)[5]. In tale prospettiva, si configura una concezione di “modernità cinese” che si presenta come alternativa al modello occidentale: ispirata a valori solidali e comunitari, tale “armoniosa” Weltanschauung è effigiata come antitesi dell’individualismo. Un testo che risulta in questo senso assai eloquente è l’importante articolo di Zhang Fa, Wang Yichuan e Zhang Yiwu, Cong xiangdaixing dao zhonghuaxing (Dalla modernità alla sinità), apparso nel 1994 sulla rivista “Wenyi zhengming” (“Dibattiti letterari e artistici”): vi si può ravvisare una sorta di manifesto dal valore paradigmatico nel delineare una tendenza che prosegue e si rafforza negli anni più recenti[6]. Proclamando la fine dell’egemonia eurocentrica che sin qui avrebbe dominato gli studi sinologici, svariati intellettuali cinesi si fanno oggi energici assertori dell’esigenza di “scoprire l’Oriente” in termini di autonoma comprensione della propria cultura da parte degli orientali. È questa un’istanza di cui si fa, ad esempio, vigoroso interprete Wang Yuechuan con un saggio pubblicato a Pechino nel 2003 e che ha acquisito larga notorietà; Faxian dongfang (Scoprire l’Oriente) ne è il titolo, che il sottotitolo esplicita con programmatica nettezza: Verso la fine dell’eurocentrismo e la ricostruzione culturale dell’immagine della Cina[7].
Non mancano peraltro, accanto alle espressioni di consenso nei confronti di tale indirizzo, anche le manifestazioni di perplessità rispetto a tali posizioni, come più avanti si vedrà. Ma al di là dei rilievi critici a cui esse possono dare adito, è comunque sotto vari profili interessante osservarle ed esaminarle, in quanto costituiscono indizi di una tendenza alquanto significativa della vita intellettuale della Cina contemporanea: vi si può ravvisare, fra l’altro, il sintomo di una fierezza nazionale di cui è dato oggi riscontrare altre numerose, varie e molteplici espressioni. E tuttavia, se per certi versi tali atteggiamenti si possono ricondurre a una specifica e assai caratteristica temperie attuale, per altri versi essi si inscrivono in una ben più antica vicenda di vivaci dispute culturali che ha attraversato fin dall’inizio il secolo scorso, e la cui origine si può rintracciare già nella prima metà dell’Ottocento. Per determinati aspetti, si assiste nell’odierno dibattito filosofico cinese alla riproposizione di uno scenario che ha già una lunga storia alle spalle; le questioni salienti che vi si pongono si possono schematicamente rappresentare come segue:
1. Quale relazione si può ipotizzare fra tradizione e modernità? Si tratta di aspetti che si escludono reciprocamente, o di prospettive di cui è possibile delineare un’integrazione?
2. Quali relazioni si possono configurare fra cultura cinese e cultura occidentale? In quali termini si possono individuare e descrivere delle differenze fra l’uno e l’altro ambito? È possibile da parte cinese un’acquisizione di esiti significativi delle teorie occidentali senza che ciò si trasformi in una sorta di sudditanza culturale della Cina nei confronti dell’Occidente?
Si tratta di interrogativi con i quali da tempo gli intellettuali cinesi si sono misurati. Per tentare di comprendere la pregnanza che essi assumono nella Cina d’oggi, è necessario dunque, seppur sommariamente, ripercorrerne il più globale sfondo storico, e rievocare alcune fra le principali risposte che ad essi furono in passato offerte[8].


2. Alle origini dei dibattiti attuali: una vicenda complessa e plurale

È almeno a far tempo dalla prima metà dell’Ottocento che la Cina affronta una problematica riflessione sulla propria identità culturale, nello scenario di un confronto con la cultura dell’Occidente in larga parte ascrivibile alle esigenze poste dai progetti di modernizzazione del Paese di Mezzo. Per cogliere le prime insorgenze di tale tematica, si deve far riferimento al trauma che produssero le Guerre dell’Oppio (1839-42, 1856-58) nel Celeste Impero: la Cina si scoprì allora debole e vulnerabile nei confronti dei “barbari” occidentali la cui potenza tecnologica le andava infliggendo ripetute umiliazioni. Tale drammatica esperienza aprì la strada a una acuta crisi, che fu insieme istituzionale e culturale. Iniziò allora a venir meno l’orgogliosa fiducia nella superiorità della propria civiltà che aveva fino a quel momento animato i letterati dell’impero, e la Cina dovette prendere atto della necessità di riformulare radicalmente la propria immagine di sé e del mondo, scoprendo di essere non la civiltà per antonomasia, ma soltanto una nazione fra molte, e in particolare una nazione assai fragile ed esposta ai voraci appetiti delle grandi potenze europee[9].
Un atteggiamento allora largamente diffuso fu quello che si può riassumere nello slogan zhongxue wei ti, xixue wei yong, ossia “le dottrine cinesi come fondamento, le dottrine occidentali come mezzo”: esso corrispondeva, in sostanza, al tentativo di delimitare e circoscrivere l’ambito delle possibili contaminazioni occidentali alle sole acquisizioni dei saperi scientifici e tecnologici, cercando al contempo di preservare immutato l’assetto gerarchico e autoritario delle strutture sociali e politiche e di evitare qualsiasi influsso di idee liberali e democratiche sulla cultura e sulla società cinese.
Ma assai presto questa posizione apparve inadeguata rispetto alle ben più radicali esigenze di trasformazione che andavano maturando nel paese, e delle quali si fecero eloquenti interpreti, in particolare, i leaders dello sfortunato movimento riformatore dei cosiddetti “Cento Giorni” quali Kang Youwei (1858-1927) e Liang Qichao (1873-1929). Essi furono al potere per un effimero momento, fra il 12 giugno e il 20 settembre 1898, ma dovettero poi soccombere alla violenta controffensiva delle forze conservatrici guidate dall’imperatrice vedova Cixi. L’obiettivo globale dei riformatori, che si proponevano in particolare una trasformazione in chiave costituzionale dell’impero e una modernizzazione del sistema d’istruzione, era in sostanza quello di conciliare le tradizioni cinesi, e segnatamente quelle confuciane, con le istanze e i valori del liberalismo. Il problema delle relazioni fra cultura cinese e cultura occidentale veniva così a ricevere per la prima volta un’originale formulazione in termini di dialogica apertura e di reciproca interazione[10].
Peraltro, tale impostazione mediatrice e conciliatrice non apparve affatto attraente alla maggioranza degli intellettuali che furono protagonisti dei movimenti di innovazione dei decenni successivi, e non senza ragione: ai loro occhi il tragico epilogo dell’esperienza dei “Cento giorni” aveva in sostanza sancito inequivocabilmente l’impraticabilità di una via siffatta. Il fallimento politico del tentativo riformatore aprì dunque la strada all’affermazione di un atteggiamento radicalmente iconoclasta nei confronti delle tradizioni, alle quali si addebitò in larga misura la generale arretratezza della società cinese. Fu in particolare il confucianesimo ad essere additato dai giovani progressisti del Movimento del 4 maggio 1919 (Wu si yundong) come irredimibile ideologia reazionaria e come principale nemico da combattere da parte di tutti coloro che erano impegnati nell’edificazione spirituale e materiale della nuova Cina. Quest’orientamento nettamente antitradizionalista e decisamente anticonfuciano era condiviso da uno schieramento assai ampio e assai vario quanto ad opzioni politiche: vi si riconoscevano infatti tanto i marxisti quanto gli anarchici e i liberali, fra i quali ultimi si annoverava, ad esempio, uno dei protagonisti più brillanti della scena culturale degli anni Venti, Hu Shi (1891-1962), profondamente influenzato dalla filosofia del pragmatismo statunitense e deciso fautore di un atteggiamento di razionalismo illuministico in tutti i campi, dall’ambito etico e sociale a quello della rivisitazione critica e problematica della storia del pensiero cinese. Se si osservano i dibattiti attuali in rapporto a tale sfondo storico, si può constatare come nell’epoca post-maoista riemergano delle tematiche cruciali che si erano in una certa misura delineate già parecchi decenni fa. Ad esempio, per qualche verso si può esser tentati di scorgere nella posizione “nativista” attuale una riedizione aggiornata dello slogan ottocentesco zhongxue wei ti, xixue wei yong (“le dottrine cinesi come fondamento, le dottrine occidentali come mezzo”) di cui sopra si è accennato, quantomeno per ciò che concerne la sua ispirazione fondamentale, volta in sostanza ad affermare una superiorità spirituale dei valori asiatici rispetto a quelli occidentali. Ma le riflessioni probabilmente più interessanti da ricavare da un riesame di tali complesse vicende sono quelle che si dislocano sul versante di una decisa problematizzazione della schematica dicotomia invalsa che contrappone “Cina” e “Occidente” rappresentandoli come se si trattasse di due entità univoche, eterne e monolitiche. Il concreto confronto con la dimensione storica ci mostra inequivocabilmente l’articolata pluralità delle posizioni e delle opzioni possibili a cui il rapporto fra gli intellettuali cinesi e le idee occidentali diede luogo in passato, così come si verifica nel presente. La sostanziale caduta di gran parte delle barriere che fra il 1949 e il 1979 impedivano la circolazione delle idee e lo scambio intellettuale fra RPC, Taiwan e ambienti della diaspora rende oggi più che mai chiaramente percepibile quanto siano vari e molteplici i mondi che fanno oggi parte, dentro e fuori la Cina continentale, della cultura cinese[11].
Fin dall’inizio, è stato un interplay plurale e complicato, spesso anche sorprendente e imprevedibile[12], quello che si è giocato e si gioca nelle relazioni culturali fra Cina e Occidente, nelle cui dinamiche effettive non ha avuto certo luogo l’incontro di quelle ipostasi metafisiche e astratte, di cui tanto si ama favoleggiare, che sarebbero le Civiltà, quanto invece si sono prodotti incontri singolari -determinati e circostanziati- di temi, di testi, di individui concreti[13].
Tali incontri specifici hanno prodotto e producono, fra l’altro, svariate modalità diverse di creativa reinvenzione della tradizione. Come che sia, la Cina da più di un secolo è consapevole che non può più fare a meno del riferimento all’Occidente: variamente declinato, esso è inscritto in tutte le vicissitudini della sua modernizzazione, in tutte le maniere in cui essa ha modernamente ripensato la propria storia e ha modernamente riformulato le rappresentazioni della propria identità. Esso è inevitabilmente implicato nelle stesse teorie “nativistiche”, così come è ineludibilmente presente nel neologismo ricalcato sul giapponese tetsugaku con cui, a far tempo dall’Ottocento, si è tradotto in cinese il termine filosofia: zhexue[14].


3. Confucio, Dewey e la “global philosophy”

Si può legittimamente presumere che nessuno, in Cina e fuori della Cina, avrebbe osato scommettere un solo renminbi sulla sopravvivenza del confucianesimo nella RPC all’epoca della Rivoluzione Culturale, allorché l’imperativo dominante era, senza mezzi termini, “demolire la bottega di Confucio”. E invece, uno degli aspetti più sorprendenti, interessanti e notevoli nel clima culturale della Cina d’oggi è precisamente il grande rilancio conosciuto sia nella RPC che fuori di essa dal movimento neoconfuciano contemporaneo (xiandai xin rujia o dangdai xin rujia), che costituisce forse l’espressione attualmente più significativa delle creative reinvenzioni della tradizione a cui sopra si accennava[15].
Come si è detto dianzi, oltre che rappresentare il bersaglio polemico prediletto dalle Guardie Rosse fra il 1966 e il 1976, il confucianesimo (rujia) non avevo goduto affatto di buona reputazione nella prima metà del Novecento: la maggior parte degli intellettuali progressisti protagonisti dei movimenti di innovazione politica e culturale di quegli anni era in larga misura concorde nel ritenerlo un’espressione deprecabile dei vizi peggiori di una società ipocrita e opprimente, ottusa e retriva, un’ideologia responsabile della grave arretratezza della Cina. Vi erano però alcune rare eccezioni, fra le quali si annovera Feng Youlan (Fung Yulan, secondo il sistema di trascrizione Wade-Giles, 1895-1990), celebre soprattutto per la sua grande opera Zhongguo zhexueshi (Storia della filosofia cinese) apparsa in cinese negli anni Trenta e in inglese negli anni Cinquanta, che di fatto inaugura, accanto a saggi quali The Development of Logical Method in Ancient China (1922) del già ricordato Hu Shi, la moderna storiografia filosofica in Cina[16]. Diversamente dalla maggior parte degli intellettuali progressisti coevi, che ritengono che il confucianesimo sia il retaggio oscurantista di un passato greve da gettare risolutamente alle ortiche, Feng punta all’elaborazione di una mediazione fra tradizione e modernità, fra Cina e Occidente, proponendo, in sostanza, un metodo di adozione selettiva del confucianesimo tale da consentire da un lato un ribadito legame con un nucleo forte di valori tradizionali, dall’altro un suo dinamico riadattamento al processo di modernizzazione del paese; e a questo tipo di atteggiamento fondamentale, variamente declinato e articolato, si possono in sostanza sinteticamente ricondurre i vari pensatori del neoconfucianesimo contemporaneo, presenti, oltre che nella RPC, a Taiwan e nella diaspora.
Nella prima generazione dei neoconfuciani contemporanei, attiva a partire dagli anni Venti, si annoverano inoltre Liang Shuming (1893-1988), Ma Yifu (1883-1967), Xiong Shili (1885-1968), Zhang Junmai (1886-1969), He Lin (1902-1992), Qian Mu (1895-1990); nella seconda, attiva a partire dagli anni Cinquanta, vi sono ad esempio Fang Dongmei (1899-1977), Tang Junyi (1909-1978), Xu Fuguang (1903-1982), Mou Zongsan (1909-1995); nella terza, presente sulla scena a partire dagli anni Ottanta, si possono ricordare Cheng Zhongying, Liu Shuxian, Du Weiming, Yu Yingshi, che sono tutti pensatori nati fra gli anni Trenta e Quaranta. Impossibile dar qui conto, per ovvi motivi di spazio, delle rispettive posizioni: ciò che importa è sottolineare come sia convinzione ampiamente condivisa dagli esponenti della terza generazione del movimento neoconfuciano che il magistero di Confucio possa costituire una fonte di ispirazione rilevante e vitale nel dibattito filosofico e interculturale contemporaneo[17].
Molti di loro ritengono, in sostanza, che la tradizione confuciana sia destinata a diventare a topic of a global philosophy, e tale persuasione è sottoscritta, e non da ora soltanto, anche da un robusto filone di sinologi e filosofi statunitensi, convinti che sussista una sorta di affinità elettiva fra il magistero confuciano e il pensiero di John Dewey. A quest’orientamento è riconducibile, ad esempio, un sodalizio intellettuale che ha avuto un ruolo di fondamentale importanza nell’innovazione dei dibattiti sinologici degli ultimi vent’anni, quello fra il filosofo David Hall (nato nel 1937 e prematuramente scomparso nel 2001) e il sinologo Roger Ames, cui si devono opere di grande rilievo, suscitatrici di dibattiti quanto mai vivaci, quali Thinking Through Confucius (1987) e Democracy of the Dead. Dewey, Confucius, and The Hope for Democracy in China (1999). All’insegna del pragmatismo, si configura come promettente futuro della filosofia mondiale uno spazio transpacifico di dialogo e mutua intesa sino-statunitense di cui si ricordano alcune significative premesse, come il celebre viaggio di John Dewey in Cina all’inizio degli anni Venti in cui il filosofo, che fu fra l’altro docente di Hu Shi e di Feng Youlan alla Columbia University, fu in effetti acclamato come un “nuovo Confucio”[19]. Ma in tutti questi grandiosi scenari, quale potrebbe essere il ruolo della vecchia Europa? Forse quello di insistere -modestamente, ostinatamente- sulla pluralità come dimensione ineludibile nel progetto di un universalismo della differenza[20]; forse quello di riconoscere -nel cuore di ogni tradizione, e dunque anche nel cuore della tradizione confuciana- la fertile quanto problematica presenza di un irriducibile campo di tensioni[21]. Forse quello di ricordare sottovoce, sulle strade fra la Cina e l’Europa oggi un po’ meno distanti di un tempo, il bel motto di Hannah Arendt, che così efficacemente compendia quanto accomuna e quanto differenzia coloro che abitano lo spazio del Tianxia, ossia “sotto il cielo”: «Non l’Uomo, ma gli uomini abitano questo pianeta. La pluralità è la legge della Terra»[22].

[1] Cfr. R.R. WANG (ed.), Chinese Philosophy in an Era of Globalization, State University of New York Press, Albany 2004.
[2] Di Wang Meng, nato nel 1934, che è soprattutto autore di raffinati racconti dalla vena ironica e beffarda, sono accessibili al lettore italiano diverse antologie curate da F. LAFIRENZA, Dura la pappa di riso, signor Wang Meng! Cafoscarina, Venezia 1998; Volete mettere la zuppa agropiccante, Marsilio, Venezia 1999; Nuovi chengyu, Cafoscarina, Venezia 2004, e inoltre la raccolta di poesie Pensieri vaganti nel Tibet, Scheiwiller, Milano 1987, e il romanzo Figure intercambiabili, Garzanti, Milano 1989, volumi tradotti entrambi da V. Costantini.
[3] Sulla biografia e sulla formazione di questo importante filosofo cinese contemporaneo, nato nel 1930, si rinvia il lettore italiano a M. SCARPARI, Prefazione a LI ZEHOU, La via della bellezza. Per una storia della cultura estetica cinese, Einaudi, Torino 2004, pp. vii-xv.
[4] Cfr. CHUNG-YING CHENG, N. BUNNIN (eds.), Contemporary Chinese Philosophy, Blackwell, Malden (Mass.) and Oxford 2002.
[5] Cfr. ZHANG Yinde, La sinité: l’identité chinoise en question, in A. CHENG (a cura di), La pensée en Chine aujourd’hui, Gallimard, Paris 2007, pp. 300-322.
[6] ZHANG FA, WANG YICHUAN e ZHANG YIWU, Cong xiandaixing dao zhonghuaxing (Dalla modernità alla sinità), in "Wenyi shengming", n. 2, 1994, pp. 10-20.
[7] WANG YUECHUAN, Faxian dongfang, Beijing tushuguan chubanshe, Beijing 2003.
[8] Per una fondamentale ricostruzione d’insieme del travagliato iter economico, sociale, politico e culturale del Novecento cinese, cfr. G. SAMARANI, La Cina del Novecento. Dalla fine dell’Impero a oggi, Einaudi, Torino 2004.
[9] Per un quadro globale e articolato di queste vicende, cfr. A. CHENG, Storia del pensiero cinese, Einaudi, Torino 2000, cap. XXII; A. CRISMA, Interazioni intellettuali tra Cina e Occidente dal 1860 a oggi, in G. SAMARANI, M. SCARPARI (a cura di), La civiltà cinese dalle origini ai giorni nostri, Vol. III, di imminente pubblicazione presso Einaudi, Torino.
[10] A. CRISMA, Esprit de réforme et confucianisme, in P.C. BORI, M. HADDAD, A. MELLONI (eds.), Réformes. Comprendre et comparer les religions, LIT Verlag, Berlin 2007, pp. 125-142.
[11] Cfr. D. MORIER-GENOUD, Où en est la pensée taiwanaise? Une histoire en constante réécriture, in A. CHENG, La pensée en Chine aujourd’hui, cit., pp. 323-352.
[12] Fra i tanti esempi significativi che si potrebbero in proposito evocare, mi limito a citare uno dei più famosi: il sintomatico caso del leader della grande rivolta ottocentesca dei Taiping, Hong Xiuquan (1813-64), erede spirituale di moti egualitari ascrivibili ad antiche e peculiari tradizioni cinesi e al contempo influenzato da aspetti di predicazione cristiana, che designava se stesso con l’appellativo di “fratello minore di Gesù Cristo” (cfr. J.D. SPENCE, Il figlio cinese di Dio, Mondadori, Milano 1999).
[13] Solum individuum est effabile è il bel motto di Leo Spitzer (cfr. V. FOA, C. GINZBURG, Un dialogo, Feltrinelli, Milano 2003, p. 138) che andrebbe opportunamente riproposto, sotto il profilo metodologico, contro tutte le (alquanto dubbie) enfatiche teorizzazioni intorno a presunte essenze immutabili di “Civiltà” e di “Culture”. Per un agile quanto efficace intervento polemico su questo tema, sul quale sussiste una sterminata bibliografia, rinvio a M. AIME, Eccessi di culture, Einaudi, Torino 2004.
[14] Cfr. A. CHENG, Les tribulations de la “philosophie chinoise” en Chine, in ID. (a cura di), La pensée en Chine aujourd’hui, cit., pp. 159-184. Più in generale, sul gioco di specchi fra “Oriente” e “Occidente”, è pressoché d’obbligo rinviare, fra molti altri titoli possibili, all’ormai classico E. SAID, Orientalismo, Bollati Boringhieri, Torino 1991, e inoltre a I. BURUMA, A. MARGALIT, Occidentalismo, Einaudi, Torino 2004, e a R. IRWIN, Lumi dall’Oriente. L’orientalismo e i suoi nemici, Donzelli, Roma 2008.
[15] U. BRESCIANI, Reinventing Confucianism. The New Confucian Movement, Taipei Ricci Institute for Chinese Studies, Taipei 2002.
[16] FENG YOULAN (FUNG YULAN), Zhongguo zhexueshi, Commercial Press, Shanghai 1931-34; ID., History of Chinese Philosopy, tr. Derk Bodde, Princeton University Press 1952-53; HU SHI, The Development of Logical Method in Ancient China, Oriental Book, Shanghai 1922.
[17] Su questi aspetti cfr. A. CRISMA, Pensare la Cina in un orizzonte interculturale: prossimità e distanza di un altrove, in G. PASQUALOTTO (a cura di), Filosofia dell’intercultura, di imminente pubblicazione presso Mimesis, Milano.
[18] D. L. HALL, R. T AMES, Thinking Through Confucius, State University of New York Press, Albany 1987; ID., Democracy of the Dead. Dewey, Confucius, and The Hope for Democracy in China, Open Court, Chicago and Lasalle (Ill.) 1999.
[19] J. GRANGE, Confucius, Dewey and the Global Philosophy, State University of New York Press, Albany 2004. Per un’ulteriore prospettiva critica, cfr. inoltre J. THORAVAL, La tentation pragmatiste dans la Chine contemporaine, in A. CHENG, La pensée en Chine aujourd’hui, cit., pp. 103-134.
[20] Per questa prospettiva, cfr. G. MARRAMAO, La passione del presente, Bollati Boringhieri, Torino 2008; ID., Pensare Babele. L’universale, il multiplo, la differenza, in “Iride”, anno XX n. 52 settembre-dicembre 2007, pp. 449-460.
[21] Cfr. H. ROETZ, Confucian Ethics of the Axial Age, State University of New York Press, Albany 1993; P.C. BORI, Per un consenso etico fra culture, Marietti, Genova-Milano 1995; T. LIPPIELLO, La Regola d’oro nei “Dialoghi” di Confucio, in C. VIGNA, S. ZANARDO (a cura di), La Regola d’oro come etica universale, Vita e Pensiero, Milano 2005, pp. 53-81; A. CRISMA, Il problema dei diritti umani in Cina in un orizzonte di universalismo contestuale, in S. MATTARELLI (a cura di), Il senso della Repubblica. Doveri, FrancoAngeli, Milano 2007, pp. 179-190.
[22] H. ARENDT, La vita della mente, Il Mulino, Bologna 1987, p. 99. Per un esame degli attuali dibattiti europei in tema di pensiero cinese, cfr. A. CRISMA, Per una “reconnaissance de l’autre”. Prospettive ermeneutiche sul pensiero della Cina antica nel dibattito filosofico contemporaneo, in L. DE GIORGI, G. SAMARANI (a cura di), Percorsi della civiltà cinese fra passato e presente, Cafoscarina, Venezia 2007, pp. 181-200.

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