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La razionalità dell’utopia e l’agire scientifico-tecnologico

Laura Tundo Ferente

Nel corso di questo scritto si discuterà di utopia nei termini che una ricerca ormai quasi trentennale[1] ha cercato di ricomprendere. Consideriamo l’utopia il progetto e processo di costruzione della società giusta che l’umanità persegue nel suo cammino storico (fra resistenze, contrasti, accelerazioni e decelerazioni, passi indietro) e che si alimenta delle aspirazioni umane alla giustizia-eguaglianza, al benessere, a una crescita della moralità, alla pace, nelle forme che di epoca in epoca emergono alla coscienza collettiva. Questo progetto e processo, mosso da soggetti collettivi via via diversi, comprende anzitutto l’attività socio-politica dei grandi movimenti popolari, ma anche la letteratura – le narrazioni arcadiche, i viaggi immaginari, i racconti di isole felici, l’insieme cioè del fatto letterario utopico – e i progetti filosofici e politici; forme diverse che contrappuntano il progetto collettivo, scelte per comunicare alcune idee, condividere alcune intuizioni e concezioni, interpretare paure e incubi, o riflettere sul senso del progettare utopie.


1. Utopia e razionalità

Liberato il discorso utopico da retaggi semplificanti che lo rinchiudono entro le coordinate dell’immaginario, del fantastico/velleitario, di ciò che non ha e non avrà realtà, si può rintracciarne la razionalità complessa, le sue molteplici configurazioni, di critica, di progetto, di autoriflessività, spesso compresenti e reciprocamente funzionali:
a) Il logos utopico dispiega una razionalità critica orientata a offrire tutti gli elementi utili a legittimare un giudizio negativo circa la situazione di una data società; negativo perché antitetico rispetto alla tensione a rappresentare le aspirazioni umane, la quale, prima ancora di trovare precisa formulazione, sta inespressa e indistinta come possibilità, come qualcosa che solo l’impegno umano può far divenire reale. Il discorso utopico-critico si è dimostrato capace di analisi acute, lucide, documentate, non di rado aspre e radicali; di restituire, con descrizioni efficaci di fenomeni, eventi, problemi, le condizioni materiali e spirituali di esistenza di singoli e di comunità; di svelare le ingiustizie, i soprusi, le perversioni del potere; di mostrare le sfaccettature e gli intrecci meno evidenti, le costruzioni ideologiche. È sempre la razionalità critica a prendere per prima la parola; a dare voce alle sofferenze, alle oppressioni, al dolore degli individui, a dipingere con pennellate precise la città-società dell’ingiustizia e del privilegio; a mettere sul tappeto la fenomenologia del male. Non si tratta del male metafisico, ontologico, piuttosto di un male sociale e morale, raramente antropologico. Qualcosa che sta non nella “natura” né nella “natura umana”, ma nelle regole, nelle relazioni, nelle istituzioni di un modello politico e sociale prodotto dall’uomo stesso, messo in atto sotto il segno del potere e del dominio, della falsità e dell’ambiguità, della separazione dei liberi dagli schiavi, dei proprietari dai poveri, degli uomini dalle donne.
La ragione critica dell’utopia rende pubblica ogni distorsione, ogni sotterranea strategia, ogni scopo invisibile, indicibile; formula un atto d’accusa; punta l’indice sui responsabili. Come logos critico fa sempre un lavoro di grande interesse, sia quando prende la forma del racconto, dell’epistolario, del romanzo, della narrazione fantascientifica, sia quando è parte di un pamphlet, un documento, un trattato, una teoria, un progetto filosofico o politico, sia quando si esprime nella prassi di un movimento sociale e politico, di denunzia o di emancipazione. Ci porge una vasta messe di notizie e valutazioni, illumina le oscurità in cui trova avvolti tempi, luoghi, istituzioni; penetra trama e ordito di culture, tradizioni, modelli di vita; denuda le presunzioni di verità. Ci mette a disposizione con questo preziosi elementi di giudizio e di comparazione.
b) Il logos utopico esprime in sommo grado una razionalità progettante, creativa, la stessa che distingue l’uomo dagli altri animali e che ha permesso l’evoluzione della specie. Essa si nutre di immaginazione, di mito, di simboli, di religione, di ragione teoretica ed etica; si esprime nella poiesis e nella praxis e infine anche nel calcolo. La componente immaginativa e simbolica dell’utopia non è diversa da quella che connota le grandi svolte epistemologiche e la creatività del pensiero scientifico, la formulazione di ipotesi e la scoperta, l’innovazione, l’invenzione. Il logos progettante vi attinge una dotazione sempre rinnovatesi di materiali; un’apertura a possibilità ignote, un serbatoio di senso in mancanza del quale, come spiega Aristotele nel De Anima, i dati di realtà rimarrebbero per noi sempre uguali, immutabili. Insieme alla fonte primaria della poesia e del linguaggio metaforico, polisemico, nell’immaginazione troviamo, dice Descartes, anche la matrice delle nuove rappresentazioni. E anche per Kant, l’immaginazione ha un suo ruolo entro la sintesi a priori delle nostre conoscenze («deduzione trascendentale»). Un’ampia letteratura conferma che aspetti ludici, fantastici, estetici sono presenti sia nella «scoperta» scientifica sia nell’innovazione tecnica[2]. La ragione utopica progettante si è mostrata in grado di declinare congiuntamente immaginazione e fantasia con principi e bisogni, senza cedere a una visione mutila della razionalità che allontana o espunge le prime dai secondi, nonché di raccogliere il testimone della critica rendendola funzionale al proprio scopo.
c) Accade anche che il logos utopico si manifesti come autoriflessività; che si sviluppi come controcanto, denunzia o irrisione delle contraddizioni interne ai progetti o paradigmi utopici. Pensiamo al fluire e rifluire di ideali diversi entro gli stessi movimenti, o a come la esprimono Rabelais, Marivaux o J. Swift. Nel suo Gulliver’s Travel (1726) Swift lancia implacabili caricature contro i topoi dell’utopia, contro l’ottimismo, il mito della perfezione, la fede nel progresso; egli produce, si può dire, una delle prime forme compiute di razionalità autoriflessiva. La stessa che nei secoli successivi farà attenti Morelly e Rousseau alle trasformazioni di un progresso troppo rapido e ai rischi che esso nasconde. Seppure talvolta in modo confuso, l’autoriflessività della razionalità utopica intuisce problemi e questioni ancora non dispiegate, prefigura inganni, paventa possibili involuzioni, esiti autoritari e antidemocratici dell’utopia stessa. La forma che questa razionalità autoriflessiva ha preso più spesso è il rovesciamento del segno: dall’interpretare la prospettiva di avanzamento, miglioramento, speranza, passa a farsi segno di angoscia, paura, scetticismo, che possiamo leggere come la presa di coscienza di una minaccia avvertita come possibile o imminente, come l’improvviso svelamento del pericolo che l’utopia può covare al suo interno.


2. Utopia scienza tecnica

Francis Bacon elabora la visione utopica che meglio rappresenta le origini moderne del rapporto fra i tre fattori di cui vogliamo occuparci: sulla nuova concezione della scienza – di cui l’Instauratio magna doveva presentare l’impostazione enciclopedica e la ripartizione del sapere e il Novum Organum il manifesto metodologico antiscolastico – egli stabilisce un nuovo paradigma utopico che veicola l’utopia attraverso scienza e tecnica. La vera scienza è per Bacone conoscenza delle cause e ha il fondamentale scopo pratico di stabilire la signoria dell’uomo sul mondo naturale: fare dell’uomo il ministro e l’interprete della natura, conoscere i fenomeni per governarli, sperimentare e produrre cose utili all’esistenza, strumenti per «domare e mitigare almeno in parte le necessità e le miserie degli uomini» (Novum Organum, Distributio operis). Bacone riprende la centralità dell’uomo e gli ideali rinascimentali della virtus activa e della fabbrilità, consapevolmente omologati da una ricca tradizione – da Pico a Manetti a Ficino e oltre – all’attività creatrice divina e, coniugandoli con il primato della scienza e l’utilità della tecnica, li spinge verso un fine coerente e sistematico, pari soltanto a quello cartesiano de «l’homme maître et possesseur de la nature».
Nella Nuova Atlantide[3] l’attenzione è catturata dalle attività che fervono entro la Casa di Salomone, una moderna accademia delle scienze impegnata for the benefit of mankind; un campo aperto alla conoscenza dei fenomeni fin nelle loro cause, nei loro segreti movimenti, e alla sperimentazione, allo scopo di «allargare i confini del potere umano verso la realizzazione di ogni possibile obiettivo». Molti sono i progressi ottenuti, anche facendo tesoro delle ricerche di altri popoli, nello studio della natura – la silva sylvarum, il laboratorio brumoso e solare insieme – nelle arti, nelle industrie, nelle invenzioni. Un’élite, una casta di scienziati, privilegia non ricerche logico-speculative, teoriche, bensì ricerche sperimentali, orientate a risultati pratici[4]: realizzare innesti e incroci riuscendo a «forzare qualsiasi legge di natura», osservare al microscopio, riprodurre meccanicamente il volo degli uccelli, costruire macchine idrauliche, perfino una sorta di sottomarino. Se è certamente vero che Bacone mantiene una concezione aristocratica ed esoterica dello scienziato, pure la Nuova Atlantide presenta la prima grande valorizzazione di una società per mezzo della scienza in rapporto molto stretto con la tecnica; prefigura l’acquisizione di un potere inedito da parte dell’uomo (sul cui peso ideologico dovremo ritornare) in linea con il più alto ideale antropocentrico umanistico, come sapere per fare, nella medesima logica sintetizzata nel motto di Campanella: «Tantum possumus quantum scimus».
Si delinea una prima assunzione di ruolo da parte della razionalità utopica moderna. Come razionalità progettante, che vuole farsi segno della tensione umana di sempre alla conoscenza (attestata già nel Genesi) sposa la scienza, nella consapevolezza che l’aumento del sapere non è fine a se stesso, ma produce l’affrancamento dell’intelletto umano dal giogo dell’autorità, alimenta la forza vitale dell’uomo, lo sottrae al casuale e imprevedibile incombere degli eventi, ne trasforma l’esistenza distribuendo i suoi benefici, gli consente di prendere nelle sue mani la vicenda storica concreta. Ma sposa anche la tecnica, intesa in senso ampio, come produzione di utensili, di manufatti, di strumenti, dai più semplici ai più complessi, che aumentano e potenziano le capacità dell’uomo – da quelle motorie a quelle produttive, da quelle genericamente operative a quelle cognitive – di dispositivi esoneranti, come dirà l’antropologia filosofica del Novecento. La tecnica incrocia carenze, manchevolezze, l’incompletezza, i limiti umani; quelli scritti nella natura biologica, nella fisiologia, nella psicologia, ma anche quelli dettati dall’economia e dalla politica, e si adopera per attenuarli, superarli, sconfiggerli; essa è perciò un primario fattore di miglioramento delle condizioni di vita, di rafforzamento delle facoltà umane.
In realtà, parlare di un rapporto stretto fra utopia scienza e tecnica non sembra sufficiente; più precisamente si deve parlare di un rapporto organico, sistematizzato in una visione del mondo, che contiene e declina positivamente le possibilità per l’uomo di dare – proprio attraverso la scienza e la tecnica – realtà, consistenza concreta, ai segni alle aspirazioni che l’utopia porta in superficie.
Globalmente presa, la razionalità utopica moderna appare come il macrofenomeno intellettuale che, in circa tre secoli di ampia fioritura, contribuisce potentemente a costruire la visione della storia indefinitamente progressuale, in cui l’uomo può avanzare nel sapere, può potenziare con la tecnica ogni facoltà, può dominare la natura, può sconfiggere la povertà, può vivere nella salute e nell’abbondanza, ma anche regolare la convivenza, liberarsi dall’oppressione, aspirare alla pace. Prove più che sufficienti al riguardo, possiamo trovarle a partire dalle teorizzazioni del progresso scientifico (matematico, geometrico, fisico) di Bacone, Pascal, Descartes, Leibniz, Fontenelle, che anticipavano l’idea della perfectibilité. Ma poi nel passaggio dall’idea razionalistica e aristocratica del progresso intellettuale a quella del generale progresso umano, cui contribuirono molti, dall’abbé de Saint-Pierre, a Turgot, a Kant, a Mercier, Condorcet, Saint Simon, Owen, Fourier, Cabet, Marx[5]. Ciascuno di questi autori è, insieme ad altri, a buon titolo espressione di quel macrofenomeno intellettuale che chiamiamo razionalità utopica ed entro il proprio contesto di riflessione, con la propria sensibilità, ha aggiunto un segmento, un tassello, nella costruzione della filosofia della storia come avanzamento, come percorso di miglioramento e progresso più o meno lineare e indefinito.
Ritengo che il ruolo determinante svolto dalla razionalità utopica nella produzione e nell’affermazione della Weltanschauung progressuale sia uno snodo, anzi lo snodo, per comprendere il rapporto utopia-scienza-tecnica/tecnologia. Per un verso, infatti, sta in quel ruolo molto del credito di cui l’utopia moderna ha goduto per lungo tempo: la considerazione della sua fecondità, della corrispondenza al bacino inespresso delle aspirazioni umane, la capacità di organizzare i bisogni sociali e la convivenza attraverso progetti normativi, di innescare accelerazioni storiche. Tutto questo in dialogo costante con la scienza, soprattutto dopo la rivoluzione scientifica, fatto di precorrimenti ed emulazione, di sfide fra immaginazione e calcolo, di relazioni fiduciose, salvo rare eccezioni, con la tecnica. L’ideazione di dispositivi tecnici e di macchine è presente nella produzione utopica dell’intero evo moderno, fino a divenire fenomeno strutturale dopo la rivoluzione industriale e la massiccia introduzione della macchina.
Per altro verso, in quel medesimo ruolo di produttore di filosofia progressuale della storia sta anche uno dei più forti motivi della sua crisi. Quando la razionalità utopico-progettante non si autorappresenta più fuori dal mondo reale, in un’isola sperduta, in un altrove geografico, bensì come attiva nel tempo, nella storia, al cui interno il cammino del progresso prosegue indefinitamente (accade anzitutto con L’an 2440 di L.-S. Mercier e l’Esquisse di Condorcet, ma poi con Saint-Simon, Owen, Fourier, Cabet, Leroux e infine con Marx) le aspettative di realizzazione si moltiplicano e crescono d’intensità; si diffonde un ottimismo che pervade la razionalità utopica, con rare eccezioni, fino a Ottocento inoltrato. Eccezioni che ne contrappuntano il percorso e diventano il primo nucleo di quel logos autoriflessivo di cui dicevamo, che attinge al duplice versante, teorico e fattuale, i suoi materiali; contesta i progetti di razionalizzazione dell’ordine sociale; dissacra le pretese normative di garantire società ordinate e felici; irride la qualità degli esiti del progresso; satireggia sul mancato conseguimento degli obiettivi promessi. Avevamo fatto cenno al Swift dei Viaggi di Gulliver, alla denuncia, alla derisione e al sarcasmo cui sottopone le utopie del suo tempo, la Città del sole, la Nuova Atlantide; descrivendo Laputa attacca l’idea di bontà originaria dell’uomo e la perfectibilité. Ci sono poi le posizioni antiprogressuali di Morelly, di Rousseau, che come altri riprendono le stesse questioni: sostituiscono pessimismo e scetticismo all’ottimismo, mantengono uno sguardo di realistica distanza, colgono ed enfatizzano le contraddizioni interne della razionalità utopica.
A cavallo fra XVIII e XIX secolo, mentre Saint-Simon, con i suoi discepoli, elabora ambiziose interpretazioni della portata dell’avanzamento scientifico ed esprime entusiasmo nei confronti del processo di industrializzazione, che considera un propulsore di trasformazione oltre che produttiva anche sociale e politica, Owen avvia tentativi di sperimentazione produttiva industriale, intrecciando utopia e filantropia, Cabet mostra il potere liberante dell’introduzione delle tecniche, Fourier, invece, assai meno entusiasta e non del tutto convinto del “macchinismo”, opta per una forte impronta agricola nell’organizzazione del lavoro nella falange. La sua analisi – un classico della socio-economia protocapitalistica prima di Marx – delle prime esperienze legate alla produzione industriale documenta e spiega lucidamente la condizione di sfruttamento, espropriazione, urbanizzazione forzata, disoccupazione ciclica, degrado materiale e morale dei lavoratori – uomini donne e bambini – nella fase nascente dell’industrializzazione capitalistica[6].
Non possiamo intrattenerci in questa sede sull’incontro fra l’utopia e la rivoluzione, ma certo, dopo lo straordinario slancio utopico che sostiene la Rivoluzione francese, l’utopia di inizio XIX secolo si fa portavoce dell’insoddisfazione per il debole, lento, insufficiente trasfondersi nei rapporti reali delle conquiste sociali e delle libertà proclamate dalla Rivoluzione, dunque per il mancato prodursi – alla sua conclusione – di un vero progresso umano pari alle attese. L’ideale pervasivo della perfectibilité, cui sono coessenziali il materialismo, la tecnica, la meccanizzazione dell’agire, declinati in vario modo dalla razionalità utopica, comincia a perdere il consenso pressoché universale, minato dal sorgere di una diversa sensibilità e da atteggiamenti di rifiuto del modello illuministico di ragione. Vincolata com’è alla visione scientistica e meccanicistica del reale, la perfectibilité comincia ad apparire inadeguata, incapace di cogliere tutto quello che non rientra in quella visione. Prende forma l’estetica romantica, il naturalismo, la valorizzazione del sentimento; nell’arte si fa strada il concetto di «creazione»; dalla cultura tedesca a quella inglese (con due generazioni di poeti fra cui W. Wordsworth, S.T. Coleridge, T. Carlyle, P.B. Shelley, G. Byron) a quella francese (già con M.me de Stäl e Chateaubriand e molti altri fino al cenacolo di Ch. Nodier), si forma un milieu – le cui caratteristiche non possiamo approfondire – nel quale si producono molte novità; anche significative varianti della riflessione utopica, legate quasi sempre a un articolato atteggiamento antiilluministico, al crollo delle aspettative di un futuro di benessere e di più elevata qualità dell’esistenza, alla percezione dei rischi sottesi alle eccessive pretese della scienza, con la sua irrefrenabile tendenza ad autonomizzarsi da ogni controllo e oltrepassare i limiti della natura, ma legati anche all’ambiziosa corsa della tecnica contro la limitatezza umana. La letteratura romantica europea e la grande musica riprendono gli eroi dei miti classici, ne fanno i protagonisti di un nuovo clima culturale. Prometeo e l’illimitata ambizione al sapere assoluto, o Faust, che immola corpo e anima sull’altare del sapere, problematizzano la frustrazione e l’impotenza di fronte all’aspirazione umana e alla speranza di superare la morte, di trascendere il limite estremo. Mentre sullo sfondo si combatte la titanica lotta fra il bene il male, cui danno corpo i personaggi del dramma con i loro conflitti, le lacerazioni, le cupe atmosfere psicologiche, si produce la rottura con la fase illuministica, di individualismo deterministico; si reagisce all’estenuarsi del tentativo di giungere a un modello unitario di sapere, capace di saldare scienza meccanicistica e visione organicistica.
Proprio problematizzando le questioni della scienza e l’ambiguo rapporto con la tecnica, nasce con il Frankenstein[7] di Mary (Wollstonecraft-Godwin) Shelley, il racconto di tipo fantascientifico, che avrà grande seguito con Verne e Wells. Al centro del romanzo c’è la complessa e controversa figura di Victor Frankenstein, scienziato naturale e chimico, appassionato di astrologia e alchimia. La sua formazione classica e letteraria di stampo miltoniano lascia convivere, in un eterogeneo mixage, le più aggiornate conoscenze teoriche e le più avanzate abilità tecniche con l’esoterismo alchemico; un’ambizione priva di remore affianca un’etica debole e fragili basi psicologiche, compromesse entrambe dalle componenti pseudoscientifiche di cui si è nutrito. C’è, infine, il desiderio di essere d’aiuto all’umanità, di offrirle altre possibilità, anche a costo di spingere il progresso del sapere al di là di ogni limite naturale e sociale: positiva tensione filantropica, fiducia in scienza e tecnica commiste con la spinta visionaria apparentano questo romanzo all’utopia. Il panorama entro cui si produce e resta rinchiusa l’intera vicenda, che pure rispecchia gli intrecci culturali che appassionavano i circoli intellettuali inglesi cui Mary Shelley, il poeta Percy Bysshe suo marito, G. Byron e altri partecipavano, evidenzia un profondo scollamento fra il piano etico e spirituale e quello della scienza, che estenua progressivamente il dato scientifico e lascia tutto lo spazio alla fase tecnica della creazione del Mostro, al dilagare delle passioni, all’ingresso di elementi demoniaci. L’idea di confrontarsi con l’origine della vita[8], questione centrale nella discussione scientifica del tempo, di riattualizzare le ambizioni della tradizione alchemica, sperimentare modalità originali di far sorgere la vita dalla materia inanimata incrociando influssi faustiani, sta alla base della creazione di un essere mostruoso e infelice, tutt’altro che un vero uomo. Proprio la possibilità di dare la vita, di spingere la scienza e la tecnica a superare l’estremo ostacolo, diventerà in seguito uno dei topoi intorno ai quali si eserciterà l’immaginazione fantascientifica, declinando in molti modi una sorta di scommessa della scienza-tecnologia con il limite.
Quasi contestualmente al sorgere in Inghilterra della variante utopica ch’è la fantascienza, in ambito francese, alcuni, come Ch. Nodier, negli anni trenta dell’Ottocento si rivolgono con sarcasmo contro i filosofi, principali teorizzatori e sostenitori della concezione progressuale della storia; gli farà seguito E. Souvestre, dopo appena un decennio, con Le monde tel qu’il sera. Egli racconta di un mondo che ha sviluppato tecniche sofisticate di trasporto aereo, marino e sottomarino, ha risolto il problema della fame producendo alimenti di sintesi, ha innovato i metodi di istruzione e formazione con la mnemotecnica e la frenologia; con una sorta di eugenica industriale produce, per incrocio, individui precisamente adatti ad ogni lavoro. La singolare capacità immaginativo/inventiva di Souvestre prevede molte delle scoperte scientifiche e delle innovazioni tecniche del Novecento; ma più ancora la sua sensibilità percepisce acutamente e prefigura l’invasività di scienza e tecnica sulla natura umana. Non sono più l’educazione, la formazione morale, le leggi, le istituzioni a modificare la natura egoistica e antagonistica dell’uomo, piuttosto sono procedure messe a punto da scienza e tecnica a farlo in modo più rapido, duraturo, quando non definitivo. Un’intuizione e una presa di coscienza precoce, destinata a dilatarsi. L’utopia si avvia a farsi carico della paura dell’intervento snaturante della tecnica come di uno degli esiti più indesiderati del progresso di molte scienze e delle loro applicazioni sempre più tecnologiche; di una tecnologia che non solo incorpora i risultati delle scoperte scientifiche ma intrattiene con la scienza un rapporto inscindibile. A interpretare il terrore e la minaccia di stravolgimento dell’uomo -che l’intervento tecnico sottrae all’azione educativa costante, paziente, reiterata, alla convalida razionale del giudizio morale-, del possibile soccombere di tutto questo sotto gli interventi del sapere biologico e chimico, dell’uso di droghe, dei condizionamenti psicologici programmati dal potere.
Dalla fine dell’Ottocento ai primi decenni del Novecento la razionalità utopica sembra aver esaurito molto del suo potenziale progettuale, globalmente ordinato all’affermazione di valori di giustizia e di avanzamento umano, e mostra i segni di una crisi, che potremmo chiamare di identità. La sua precedente identità assiologica con le sue certezze sembra andare in frantumi di fronte all’imporsi di concezioni nichiliste, tragiche; di fronte alla critica che investe sempre più direttamente l’idea di progresso e il connesso modello di ragione; infine, di fronte agli eventi cruciali del XX secolo. Difficile continuare a progettare secondo i precedenti paradigmi e valori di riferimento mentre incalza lo scenario devastante del Novecento, funestato dal sorgere dei totalitarismi contemporanei, da due guerre mondiali di inedita distruttività, dal genocidio del popolo ebraico e dall’orrore di Auschwitz, dalla produzione di armamenti di micidiale potenza, sopra tutti l’arma nucleare, dalla radicale inversione di segno, fino al fallimento, del grandioso tentativo di sperimentare, con la Rivoluzione russa, l’utopia di una società di eguaglianza e benessere. È inevitabile che il logos utopico taccia, si inabissi, o appunto, rifletta amaramente su se stesso.
L’eclissi dell’utopia nel XX secolo e il sorgere di descrizioni sociali negative e catastrofiche – le distopie[9] – sono l’esito della crisi della razionalità moderna e dell’implodere dell’idea di un progresso incessante e illimitato, all’inizio anzitutto sul piano sociale-economico e politico, ma poi sospinta sempre di più sul piano scientifico-tecnologico dalla constatazione della perduta innocenza, della non neutralità e delle molte compromissioni, da quelle finanziarie a quelle militari e commerciali, dell’impresa scientifica. Puntualmente, infatti, l’autoriflessività utopica del XX secolo ripropone le accuse alla scienza e alla tecnica; si fa segno della possibilità che esse generino società antiumane: prefigura degrado, manipolazioni tecnologiche di uomini e donne resi docili al potere, sottrazioni chirurgiche delle capacità e facoltà più squisitamente umane, ottundimenti di massa. Da G.H.Wells nelle cui opere, Time Machine per tutte, una pessimistica visione storica si mescola all’estremizzazione dei processi deterministici ed evolutivi, che portano a una inevitabile –inscritta biologicamente – estinzione dell’umanità e del mondo naturale; a K. Capek (R.U.R., 1921), che imputa a una società ipertecnologica un’idea disumanizzata di uomo, reso mero strumento di lavoro (evidentemente contro la distorsione di una delle idee forti dell’utopia moderna: il produttivismo), da cui perciò è utile rimuovere tutta una serie di bisogni in nome della maggiore economicità. La creazione del Robot però non libera l’uomo e non ne alimenta il perfezionamento intellettuale; ad A. Döblin (Berge, Meere und Giganten, 1924), che capovolge la potenzialità liberante del progresso in una disumanizzante privazione di carattere, di qualità e dignità. E ancora con Zamjatin (My, 1920) la strumentalizzazione dell’uomo, il condizionamento, il controllo e la sorveglianza di ogni atto sono resi possibili dalla tecnica che meccanizza e automatizza tutto ciò che era umano; e con A. Huxley (Brave New World, 1932) che legge nel modello fordista il destino di un’industrializzazione pervasiva: non solo fatto produttivo, ma perfino modello comportamentale. Tutto è tecnicamente condizionato e uniformato, compreso il divertimento e il piacere, la morale e l’educazione. Si arriva così a metà del XX secolo con 1984 di G. Orwell, dove la tecnologia è il braccio destro del potere totalitario (nel quale si è pervertita la tensione egualitaria dell’utopia dei soviet) e della sua strategica e ossessiva necessità di controllo sociale, pubblico e privato. E sono sempre i rischi di una tecnologia applicata all’umano, declinati in varie trame narrative, che circolano dentro le opere degli anni ’50, da Un saint au néon di J.L. Curtis, a L’île aux oiseaux de fer di A. Dhôtel, a Die gläserme Bienen di E. Junger; ma si consuma anche la frattura con una delle idee cardine dell’utopia: la bontà originaria dell’uomo che ne Il signore delle mosche di W. Golding viene smentita. Il gruppo dei ragazzi naufraghi in un’isola deserta riesce a riprodurre solo il lato peggiore della propria natura, sfoghi e istinti ferini, imbarbarimento, violenza; l’antitesi esatta della società buona, cooperante, pacifica, felice. Più avanti, l’utopia registra e trasferisce in narrazione l’incubo della catastrofe nucleare e della prospettiva di morte delineata dalla tragica esperienza della bomba H, degli esiti funesti della contaminazione radioattiva, dell’imbarbarimento di ritorno, con This Perfect Day (’70) di I. Levin, Les jeux de l’esprit (’71) di P. Boulle, 1985 (’78) di A. Burgess. Interviene la prefigurazione del più completo abbrutimento prodotto dagli effetti congiunti del massivo dispiegamento dell’occulto potere di persuasione e di condizionamento della pubblicità, dei mass-media, dell’invasione di prodotti chimici e di psicofarmaci.
Questo rapporto amaro, drammatico e talvolta tragico dell’utopia con la scienza/tecnologia, di cui si fa interprete la letteratura, rispecchia le ossessioni del momento storico, le paure collettive, lo scetticismo filtrato dalla sensibilità personale; ma anche denunzia uno squilibrio. Il rapporto fra logos utopico e scienza/tecnologia non si coltiva infatti in luoghi asettici, non vive al riparo, estraniato, si forma e commercia con la storia e la vita reale, si alimenta dei molti fattori che in essa sorgono e si agitano, che possono trovarsi nel sentire comune o in sensibilità elitarie; interpreta e talvolta esaspera i motivi di preoccupazione. Esprime autoriflessività nei confronti di paradigmi chiaramente dispiegati, perciò irrealistici rispetto alla complessità e all’ambivalenza del reale, e una preziosa capacità di guardare oltre, vedere più di altri, prefigurare sviluppi, rischi, criticità; di mettere in guardia, sollecitare approfondimenti, indicare direzioni, seppure attraverso costrutti negativi.


3. Più dell’utopia poté la tecnologia

Il rapporto fra progettualità utopica e scienza/tecnologia va cambiando; si va squilibrando a causa dell’ampiezza inedita che la seconda sviluppa lungo il XX secolo connotandone su opposti versanti l’agire. L’avanzata della scienza-tecnologia, infatti, per un verso attualizza le anticipazioni e proiezioni utopiche, fino a far coincidere intelligenza della rappresentazione e realtà, per altro verso non pare aver più bisogno di progettazione utopica; trova infatti al suo interno, nell’incessante lavoro di ricerca-applicazione, il proprio alimento, e confida in una sorta di ineluttabile convergenza fra il suo progredire e il bene dell’uomo. Una convergenza che però non è da intendersi in assoluto, anzi talvolta è smentita. Si innesta qui il dibattito teorico, l’interrogazione circa la sua autentica portata, su cui vogliamo concentrare ora l’attenzione.
Dovremo perciò trascurare la importante valenza socio-politica del risveglio dell’utopia nella seconda metà del ’900, sia come pensiero emancipativo, antiautoritario, pacifista, sia come prassi rivendicativa dei movimenti per i diritti civili – dei neri, delle donne, dei ceti marginali –, che dagli Stati Uniti giunge in Europa, a partire dagli anni ’60. Come dovremo trascurare la reazione che ne è seguita che coglie molti limiti di quell’impegno, la volontà di trasformazione del mondo anche a costo di violenza estrema e terrorismo, la difficoltà di costruire alternative senza scendere a livelli più bassi e dequalificati. E dovremo trascurare il successivo imporsi di nuovi scenari: il fallimento economico-politico-ideale, fino al tracollo, della esperienza sovietica; una stagione teorica e pratica di tipo liberista; una crescente globalizzazione che dai mercati e dalle comunicazioni si estende in tutti i contesti operativi; una innovativa riflessione di etica pubblica utopicamente orientata (Apel, Habermas, Rorty, Sen, Nussbaum) e nuove teorie di giustizia sociale che si autodefiniscono utopie possibili o concrete (J. Rawls)[10].
I tratti fortemente utopici della scienza/tecnologia nel ’900 stanno nella moltiplicazione e nella accelerazione della sua capacità di liberare l’uomo dalle molte forme di asservimento cui è stato costretto per secoli. Dall’introduzione della macchina, che con la sola immissione di energia, genera un processo produttivo autonomo applicabile a qualsiasi attività, si giunge fino alla fabbrica automatizzata, informatizzata, robotizzata. È un balzo in avanti in termini di produttività, di disponibilità di prodotti, di abbattimento della fatica fisica necessaria al processo, rispetto al quadro protocapitalistico – travagliato, intimamente commisto a sfruttamento, degrado, espropriazione – che ha contribuito (insieme alle conquiste politiche e sindacali e alla flessibilità del capitalismo) a un profondo miglioramento in termini di qualità della vita, di acquisizione di diritti e tutele del lavoratore, di dignità e promozione della sua persona, di complessivo arricchimento culturale. Ancora, l’avanzamento scientifico/tecnologico ha reso possibile soddisfare i bisogni di molti, non di tutti, aumentando la produzione di alimenti e la popolazione mondiale, ma offrendo i modi per contenerne il tasso di aumento (contro le previsioni maltusiane). E quando si incontra con innovative e adeguate scelte politiche orientate alla giustizia, come nel fortunato mondo occidentale, assicura servizi sempre più ampi, accesso a un alto livello di benessere, aumento delle aspettative di vita. Risultati di cui nessuna “filosofia della crisi” può sottostimare la portata pratica e l’impatto sociale, ai quali continuano a guardare -restando magari abbagliati dalle troppe luci che li accompagnano- i popoli che aspirano alla stessa emancipazione e allo stesso sviluppo.
Lungo i decenni finali del XX secolo, l’avanzata di scienza/tecnologia accelera e si diversifica, diventa una tempesta che investe e modifica ogni attività umana, i comportamenti personali, le valutazioni assiologiche, evidenziando via via una costitutiva ambivalenza; l’altra faccia di quel salto di qualità, di quel miglioramento diffuso che sembrava indiscutibile; svelando risvolti di segno opposto, incerti, rischiosi, pericolosi, scenari inquietanti di cui siamo divenuti improvvisamente consapevoli e che i sociologi sintetizzano nell’espressione «società del rischio». Una società che ha perso le precedenti sicurezze e ha compreso che anche la scienza produce rischi che non riesce a dominare; che non riesce sempre a finalizzare i risultati scientifici al vero bene delle persone, al bene comune; che scienza/conoscenza e tecnologia intrattengono un rapporto non separabile, di inter-dipendenza, di reciproco sostegno, che esse hanno consegnato nelle mani dell’uomo un potere di fare, di agire, che ha penetrato non solo i processi produttivi, il rapporto con la natura, con l’ambiente, con le risorse informando l’intero modello di sviluppo, ma anche i processi biologici, le attività vitali più altamente umane, da quelle riproduttive a quelle cognitive.
A partire dagli anni ’60, analisi sempre più documentate (A. Leopold, B. Commmoner, J. Passmore, il Rapporto del Club di Roma, H. Jonas) hanno mostrato le ferite che l’assunzione convergente della visione strumentale della natura, del potere di fare tecnico/scientifico, delle finalità efficientistiche e profittuali, ha provocato all’ambiente, all’intera biosfera. L’indiscriminato sfruttamento e depauperamento di risorse, i gravi squilibri conseguenti ad attività diverse[11], l’innalzamento della temperatura globale o effetto serra, il buco nell’ozono, sono forme di dissesto riconducibili direttamente all’ideologia produttivistica/consumistica, al delirio del fare tecnologico stimolato dal profitto, la cui gravità non è ancora tutta compresa.
Infine, la medicina, l’arte della cura, su cui la razionalità utopica ha indugiato da sempre, interpretando l’antico bisogno di salute, l’aspirazione a vincere il dolore e la sofferenza, a combattere efficacemente la malattia e l’accidentalità, è divenuta un potere scientifico-tecnologico in grado di dare e togliere la vita, il cui precetto è fare tutto ciò che è (tecnologicamente) possibile fare, trascurandone la corrispondenza al bene della persona. Dalla seconda metà del ’900, con la scoperta degli antibiotici, del DNA, degli psicofarmaci, con la nascita della rianimazione e dell’emodialisi, con la diffusione del concetto di prevenzione diagnostica, con i trapianti d’organo, la fecondazione medicalmente assistita, le terapie surrogatorie di primarie funzioni vitali e la prospettiva di terapie geniche, si è prodotta una «rivoluzione terapeutica»[12] che si prospetta in evoluzione permanente ma che non esclude ulteriori problemi. Questo potere tecnologico della medicina, che già negli anni ’70 generava allarme per la possibile ricaduta negativa dell’abnorme sviluppo della tecnologia e dei servizi[13], ancor prima di aver raggiunto la maggioranza dell’umanità, che giace tuttora nella malattia e nel dolore, per un verso rischia di alimentare aspettative incontrollate e un percorso di lecitazione di qualsiasi desiderio umano, di coltivare sogni di onnipotenza e di perdurante giovinezza; per altro verso, pone problemi etici del tutto nuovi, relativi al nascere, al curarsi, al morire, per i quali urgono un’adeguata riflessione morale e nuovi orientamenti normativi.
Questi scenari, accomunati dalla pervasività della tecnologia e dai conflitti che essa genera, sollecitano sia un’interrogazione ad ampio raggio sui limiti e sui vincoli all’agire tecnologico, sia un ripensamento della tensione utopica a varcare il limite. Da una parte si impone alla riflessione e all’azione la responsabilità[14] nella sua valenza morale – oltre il principio etico-giuridico e oltre la reciprocità. Quando la questione radicale diventa – come afferma Jonas – il permanere della vita sulla Terra, l’alternativa fra l’essere e il nulla, urge un’inversione teorica e pratica, urge riconoscere una universale obbligazione morale verso l’intero mondo naturale e verso le generazioni future, una declinazione dell’imperativo categorico kantiano che metta al centro un nuovo dovere: «Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla Terra»[15]. Un’etica della responsabilità che orienti le scelte collettive, prefiguri le loro conseguenze reali e potenziali, le valuti in rapporto a un principio di giustificazione, ne evidenzi le soglie critiche, i confini entro i quali mantenere libertà e potere di agire, ci appare imprescindibile. Difficile, però, convenire con Jonas quando attribuisce alla «dinamica utopica del progresso tecnico» come «carattere immanente al nostro agire», «intrinseco, automatico»[16], la colpa dell’annullamento della distanza salutare fra le cose della vita quotidiana e le cose ultime. Piccola appare la responsabilità ch’egli attribuisce al risvolto anche ideologico, alla distorsione di quella “dinamica” in progetto di avere e di potere, in individualismo appropriativo e mercantile, profittuale, in pretesa politico-egemonica. Una distorsione che non sembra corrispondere al carattere di quella dinamica, bensì a un preciso modello di sviluppo irresponsabilmente orientato al profitto e al dominio.
Resta il problema di preservare l’attitudine coessenziale all’uomo di proiettarsi oltre il limite del noto, del già dato nel momento storico; di decifrare l’ancora ignoto; di produrre nuova creatività, di intraprendere nuove strade di giustizia e di relazionalità umana; di affrancarsi da certe condizioni naturali e consentire al «giusto» di «colonizzare il naturale» come dice M. Nussbaum. Un problema la cui portata è enorme e oscilla fra due temini che richiedono entrambi riflessioni coraggiose e una declinazione etica della progettualità utopica: da una parte, riuscire a mantenere saldamente la scienza/tecnologia sotto la direzione dell’uomo per scongiurare la prospettiva di distruzione delle condizioni della stessa esistenza umana sulla terra; dall’altra, riuscire a orientarla verso fini umani condivisi, verso interessi umani globali.


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[1]Mi riferisco all’attività del “Centro di Ricerca sull’Utopia” (Università di Lecce, da poco Università del Salento), ai molti Convegni di approfondimento sui temi dell’utopia, alla collana di Testi e Studi ricca di 25 volumi presso Dedalo, Bari, alla “Rivista di Studi Utopici” espressione del “Centro Interuniversitario di Studi sull’Utopia” nato nel 2004.
[2] Cfr. J. WECHSLER (ed.), On Aesthetics in Science, Boston 1978, tr. it. Roma 1982; R.BOYD, T.S. KUHN, Methaphor and theory Change- Methaphor in Science, in A. ORTONY(ed.), Methaphor and thought, Cambridge 1979, tr. it. Milano 1983; G. HOLTON, L’immaginazione scientifica. I temi del pensiero scientifico, tr. it. Torino 1983; P.K. FEYERABEND, Scienza come arte, tr. it. Roma-Bari 1984; “Materiali filosofici”, 1984, X, n.10, dedicato alle Epistemologie dell’invenzione.
[3] Cfr. F. BACONE, La Nuova Atlantide, in Scritti Filosofici, a cura di P. Rossi, Torino 1975.
[4] Come spiega Paolo Rossi, se Bacone puntò sull’esperienza diretta senza comprendere il valore e l’efficacia per la ricerca del metodo deduttivo fu in reazione al conservatorismo culturale rappresentato dal modello della deduzione e del sillogismo come strategia di indottrinamento e conservazione. Preferì la logica dell’invenzione come autentica strategia innovativa: «La modernità di Bacon […] sta nella sua coraggiosa valorizzazione di un atteggiamento che rifiuta i limiti prestabiliti all’indagine umana» (cfr. Francesco Bacone. Dalla magia alla scienza, Torino 1974, pp. 343-350).
[5] Per i contributi specifici di questi filosofi/pensatori sociali alla concezione progressuale della storia rinvio all’Introduzione della mia traduzione italiana di L.S. MERCIER, L’anno 2440, Bari 1993, pp. 7-81.
[6] Cfr. C. FOURIER, Il nuovo mondo industriale e societario, tr. it. integrale, Milano 2006.
[7] Frankenstein. Or The Modern Prometheus (1816-18), London 1818; tr. it. Milano 1975.
[8] Aveva suscitato clamore la notizia che Erasmus Darwin, poeta medico e filosofo, nonno di Charles, era riuscito a ridare vita ad alcuni vermi a partire da segmenti del loro corpo isolati in contenitori di vetro.
[9] Espressione semplificante, che rinvia genericamente al contesto narrativo di un cattivo luogo, che si limita a premettere un segno negativo a una rappresentazione e mal si adatta a descrivere la degenerazione, lo smarrimento morale di un movimento sociale e storico. Non sembra cogliere il fenomeno molto complesso di trasvalutazione che racchiude nel ribaltamento di senso e di valore proprio la capacità autocritica e di autoriflessione del logos utopico verso metodi e paradigmi sempre convalidati dall’utopia e verso l’imposizione di modelli teorici di “perfezione”.
[10] Ne ho discusso in Moralità e storia. La formazione della coscienza etica moderna, Milano 2005.
[11] Di deforestazione, di immissione di CO2 nell’atmosfera (attività produttive, riscaldamento e refrigerazione, traffico motorizzato), di sperimentazione di dispositivi nucleari a fini bellici, di costruzione di centrali nucleari per la produzione di energia a scopi civili (la strutturale produzione di scorie dalla lunghissima emivita – fino ai 24 mila anni per il plutonio 239 –, gli incidenti: Bophal e Cernobil quelli più gravi che conosciamo), lo sfruttamento intensivo dei terreni agricoli, le strategie di incremento produttivo e riproduttivo degli animali (cfr. G. Pontara, Etica e generazioni future, Roma-Bari 1995).
[12] Cfr. J. LE FANU, Ascesa e declino della medicina moderna, tr. it. Milano 2005.
[13] Cfr. I. ILLIC, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, tr. it. Milano 2005.
[14] Cfr. H. JONAS, Das Prinzip Verantwortung, (1979), tr. it. a cura di P. P. Portinaro, Torino 1990.
[15] Ivi, p. 24.
[16] Ivi, p. 29.

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