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Quale religione per una sfera pubblica democratica?
Note in margine all’ultimo Habermas

Roberto Gatti

È nota la risposta che ha offerto Jürgen Habermas al problema «se lo stato liberale, secolarizzato» viva o meno, oggi, di «presupposti normativi che esso stesso non è in grado di garantire» [1]. Si può sintetizzarla affermando che, mentre da un lato è possibile mostrare come, assumendo il modello dell’«agire comunicativo», lo Stato liberale è capace di «sostenere il proprio bisogno di legittimazione in modo autosufficiente» (quindi attingendo a «risorse argomentative […] indipendenti da tradizioni religiose e metafisiche» [2]), dall’altro però va tenuto conto del fatto che una «modernizzazione destabilizzante» ha reso storicamente sempre più fragile, nelle attuali società democratiche, il legame sociale [3]. «Modernizzazione destabilizzante» è quella forma di processo storico-culturale in conseguenza del quale lo Stato liberal-democratico arriva a corrodere le sue stesse basi normative per effetto del subentrare dello «scollamento della solidarietà», indebolita da dinamiche in cui lo sviluppo economico e, più in generale, le tendenze verso la globalizzazione si svolgono «senza controllo a livello politico» [4] e in cui le risorse dei «mondi vitali» si disseccano. In tale contesto subentra il «privatismo civico» e l’incremento della «spoliticizzazione dei cittadini» [5], i quali, anziché essere coinvolti in modo crescente nelle procedure di formazione democratica della volontà generale, si trasformano ogni giorno di più in «monadi isolate […] che si oppongono a vicenda i loro propri diritti soggettivi, come fossero armi» [6].
Alla luce di questi sviluppi Habermas invita a ripensare le potenzialità contenute nelle tradizioni religiose, particolarmente in quella cristiana. Come egli stesso sostiene, «nella vita comune delle comunità religiose, una volta che esse rinuncino al dogmatismo e alla coercizione delle coscienze, può rimanere qualcosa di intatto», che nessun sapere professionale e specialistico può riattivare. «Mi riferisco – egli precisa – alle possibilità di percepire e di esprimere […] la vita deviata, le patologie sociali, i fallimenti dei progetti di vita individuali e la deformazione di contesti sociali degradati»[7]. Peraltro, la storia culturale dell’Occidente offre cospicui e significativi esempi di traduzione in termini filosofici di «contenuti genuinamente cristiani»: «Questo lavoro ha certo trasformato il senso religioso originario, ma non l’ha deflazionato e devitalizzato, rendendolo vuoto. Tradurre l’idea di un uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio nell’idea di un’eguale dignità di tutti gli uomini, da rispettarsi incondizionatamente, costituisce un esempio di una tale traduzione salvante. Essa impiega e dischiude il contenuto dei concetti biblici al di là dei confini di una comunità religiosa, fino al pubblico generale di coloro che hanno altre fedi o che non credono»[8].
Anche e, anzi, si potrebbe dire soprattutto oggi questo sforzo di liberazione di «potenziali di significato incapsulati religiosamente» può sprigionare le sue componenti emancipative e potrebbe suffragare la tesi che è nell’interesse stesso dello Stato liberale – e non in contrasto con il suo carattere laico – stabilire «rapporti di riguardo con tutte quelle risorse culturali di cui si nutrono la coscienza normativa e la solidarietà dei cittadini». È il senso fecondo che allora diventa legittimo conferire al discorso sulla «società post-secolare» [9].
Il punto cruciale consiste nel riuscire a comprendere la secolarizzazione come «processo di apprendimento complementare» da parte di credenti e non credenti; ciò comporta naturalmente che entrambi siano disposti a prendere sul serio le virtualità «motivazionali» e «cognitive» connesse a un dialogo che va sottratto alle ipoteche, opposte ma convergenti negli effetti, del dogmatismo religioso, da un lato, e di un laicismo chiuso a riccio su se stesso, dall’altro. Solo se tale chiusura non avviene si può percorrere la via che porta a rimeditare il rapporto tra fede e sapere, nel senso determinato per cui, pur mantenendo la distinzione dei piani tra la prima e il secondo, anche alle convinzioni religiose va riconosciuto «uno status epistemico che non è irrazionale in modo assoluto» [10].
Nella misura in cui alla dimensione religiosa viene attribuito un potenziale che agisce non solo sul piano motivazionale ma anche cognitivo, il riferimento ad essa nell’ambito di una riflessione sui fondamenti normativi della democrazia viene sgravato da quell’implicazione strumentale e funzionalistica che spesso lo caratterizza nei dibattiti in corso su religione e sfera pubblica. Infatti nell’impostazione che propone Habermas si sollecitano, come si è appena visto, i «cittadini privi di sensibilità religiosa» ad accettare l’idea che la religione abbia uno statuto epistemico proprio, non necessariamente irrazionale. Certo, si tratta di uno statuto di cui Habermas non definisce i contorni con sistematicità. Ma ciò non deve indurre a sottovalutare il valore della sua presa di posizione, soprattutto se la si mette a confronto con l’atteggiamento di larga parte della cultura liberale, ferma alla tesi del carattere irrazionale della religione e quindi refrattaria ad ammettere che esista una possibile traducibilità dei linguaggi e/o dei simboli religiosi in termini tali da consentire un consenso dialogico razionale tra credenti e non credenti nel campo dei problemi che riguardano la convivenza comune. Habermas è netto quando sostiene che il «perdurante non-accordo tra fede e sapere» è «ragionevole» solo a condizione che venga rimosso il dogma del carattere non razionale, per definizione, delle dottrine comprensive a sfondo religioso. È un punto di distinzione cruciale rispetto a Rawls. Così come lo è la sottolineatura del carattere sottilmente discriminante che si scopre se si fa opportuna attenzione al «rovescio della medaglia della libertà religiosa»: «Per ora infatti – come Habermas scrive – soltanto dai suoi cittadini credenti lo stato liberale pretende una suddivisione della loro identità in una componente per così dire pubblica e in una componente privata. Sono solo i credenti che devono tradurre le proprie convinzioni religiose in un linguaggio secolare, se vogliono che i loro argomenti incontrino l’approvazione delle maggioranze». La conclusione è che «la ricerca di ragioni miranti alla generale plausibilità potrà […] evitare di condurre a una scorretta esclusione della religione dalla sfera pubblica (esito che priverebbe la società secolare di importanti risorse nella fondazione del senso) solo se anche la componente secolare riuscirà a mantenersi sensibile alla forza di articolazione dei linguaggi religiosi» [11].
Poiché il confine tra «ragioni religiose e ragioni secolari» è comunque fluido, stabilirlo di volta in volta dovrebbe essere «un compito cooperativo, in cui entrambe le parti siano chiamate ad accogliere anche la prospettiva della parte avversa» [12]. Se ci deve essere un «common sense democraticamente illuminato», questo non può essere «univoco»; si deve creare invece una «sfera pubblica polifonica». In altri termini, «le maggioranze secolarizzate» non hanno alcun diritto di «far prevalere le loro decisioni in tali questioni, se prima non hanno prestato attenzione alle obiezioni degli oppositori che si sentono feriti nelle proprie convinzioni religiose»; tali maggioranze sono tenute a valutare siffatte obiezioni «come una sorta di veto che, differendo la loro decisione, permette loro di verificare quali insegnamenti se ne possono eventualmente trarre» [13].
Ma il discorso non si può e non si deve chiudere qui (come pure, invece, sovente è stato fatto). L’invito a ripensare il vincolo sociale che tiene unite le società democratiche non esaurisce infatti la posizione di Habermas. E dire che non la esaurisce non significa – o non significa solo – invitare a una possibilmente più attenta interpretazione del suo pensiero. Questo certo conta. Ma conta, in un certo senso, meno della questione saliente che la succinta riflessione qui proposta sul filosofo tedesco ci permette di evidenziare se procediamo oltre quanto finora detto. Insomma, in tale prospettiva allargata, gli ultimi testi di Habermas contribuiscono a mettere in risalto un tema il cui senso e valore vanno parecchio oltre l’intenzione – che suonerebbe, di per sé, alquanto “libresca” – di confrontarci su “cosa ha veramente detto” l’autore di Fatti e norme. Infatti chiamano in causa aspetti profondamente problematici che investono il modo di riproporsi, oggi, della religione nella sfera pubblica. Lo si può dire in altri termini: se la parte della riflessione habermasiana ricostruita sin qui implica il chiaro invito, rivolto al pensiero liberale, a un’autocritica svolta nei confronti delle sedimentazioni dogmatiche che esso ha accumulato nel tempo, la parte che segue comporta invece un potenziale di critica anche verso certi modi di intendere e vivere l’esperienza religiosa che non dovrebbe essere sottovalutato. Tutto ciò va però evidentemente spiegato ed esplicitato.
In un punto del saggio Fede e sapere (2001) Habermas – anticipando quanto avrebbe affermato nel confronto di Monaco del gennaio 2004, organizzato dalla Katholische Akademie in Bayern, con l’allora Cardinale Ratzinger – osservava che, «in considerazione della nascita religiosa dei propri fondamenti morali, lo stato liberale dovrebbe mettere in conto la possibilità che la ‘cultura del senso comune’ (Hegel) non riesca a conservare, di fronte a sfide totalmente nuove, il livello di articolazione della propria storia di origine». Infatti attualmente «il linguaggio del mercato pervade ogni poro, costringendo tutti i rapporti interpersonali dentro lo schema autoreferenziale delle preferenze individuali» [14]. Il punto è che «il legame sociale che nasce dal riconoscimento reciproco non si esaurisce nelle nozioni di contratto, scelta razionale e massimizzazione del profitto» [15]. È il motivo per cui, osserva Habermas, «Kant si rifiutò di far risucchiare l’imperativo categorico dal vortice dell’egoismo individuale illuminato». Ciò che fece fu invece di ampliare il concetto di «libero arbitrio trasformandolo in autonomia»; così fornì il primo grande esempio, «dopo la metafisica», di una «ricostruzione secolarizzante e, al tempo stesso, salvifica delle tradizionali verità della fede». Certo, il concetto kantiano di “autonomia” elimina il resoconto cristiano della «dipendenza filiale da Dio». Ma, al tempo stesso, pone riparo e argine alle «conseguenze banalizzanti di uno svuotamento deflattivo del contenuto religioso […] attraverso un’appropriazione critica di esso» [16].
Il punto in cui, invece, l’«appropriazione critica» fallisce è quello in corrispondenza del quale Kant cerca di «trasferire il male radicale dal linguaggio della bibbia al linguaggio di una religione-di-ragione» [17]. E fallisce perché, su questo piano e in relazione a questo ordine di problemi, l’appropriazione critica mediata dalla ragione non può riuscire: siamo di fronte, cioè, a qualcosa, come appunto il “male radicale”, che il linguaggio della ragione non può dire o, almeno, non può dire (e quindi tradurre) nello stesso modo in cui ciò avviene per gli altri concetti ricordati: «il diavolo non esiste, ma l’arcangelo caduto imperversa ora come prima». Nell’atto stesso in cui la ragione si impegna a tradurre nei suoi termini quello che, nei suoi termini, non si presta a traduzione, allora diventano inevitabili l’impoverimento dei contenuti dell’indagine filosofica e del senso comune: «Quando si limitano a liquidare le vecchie credenze, i linguaggi secolarizzati lasciano dietro di sé una scia di irritazioni. Con il trasformarsi dei peccati in colpa, e della violazione dei comandamenti divini in trasgressione di leggi umane, qualcosa è andato certamente perduto» [18]. Infatti «al desiderio di essere perdonati si collega ancora il desiderio non sentimentale di cancellare il dolore inflitto a terzi». E ancora di più ci tocca «l’irreversibilità della sofferenza passata: quel torto agli innocenti maltrattati, umiliati e uccisi che eccede ogni misura possibile di risarcimento».
Ciò che emerge a questo punto è che «la speranza perduta nella resurrezione lascia dietro di sé un vuoto evidente» [19]. E non basta, a riempirlo, l’«entusiastica speranza» esibita, per esempio, da Walter Benjamin nella «forza rigeneratrice della memoria umana». Ad essa infatti si oppone con successo il «legittimo scetticismo di Horkheimer»: «i morti ammazzati sono morti per sempre». Anche se questo non smentisce e non annulla comunque «l’impulso impotente a cambiare ancora qualcosa nell’irrevocabile» [20]. Come Habermas ricorda, tutti e due questi motivi, «l’impulso sincero e l’impotenza», sono stati al centro della riflessione di Adorno dopo l’Olocausto, e lo sono stati nella forma di «elaborazione del passato», per usare le parole stesse di Adorno. Ma anche questa elaborazione mostra chiaramente il suo limite: «Le figlie e i figli increduli della modernità sembrano credere, in momenti come questi, di essere l’un l’altro ancor più debitori e di non potersi semplicemente accontentare di quanto giunge loro da una tradizione religiosa secolarizzata – quasi che il potenziale semantico di quella tradizione non sia stato ancora sfruttato appieno» [21].
Sulla base di queste succinte annotazioni Habermas propone di pensare la storia del pensiero filosofico tedesco dopo Kant come «un processo giudiziario in cui si discutono questi confusi rapporti di eredità» [22]. Kant aveva smantellato la «simbiosi tra religione e metafisica» prodotta dall’ellenizzazione del cristianesimo e lo aveva fatto tracciando una linea di confine tra «la forza morale della religione razionale e le fedi delle rivelazioni positive». Hegel, nella sua critica al «dogmatismo puro» illuministico, sostituisce a una «ragione che traccia confini», come appunto quella kantiana, una ragione che «assimila e ingloba»: «Egli presenta la morte in croce del figlio di Dio come il centro di un pensiero che intende fare propria la figura positiva del cristianesimo», in modo tale che «i contenuti religiosi vengono superati e conservati nel concetto della filosofia». Ciò avviene nella forma costituita dalla «circolarità di un processo universale», che è quello dello Spirito. A questo esito fatalistico si oppongono quanti – da Feuerbach e Marx fino a Bloch – non intendono più semplicemente «salvare la religione nel puro pensiero, bensì vogliono realizzare i suoi contenuti profanizzati» [23].
Il percorso così brevemente stilizzato è definibile come un «processo giudiziario» proprio perché consente di evidenziare, insieme, il potenziale emancipativo della modernità – cioè l’uso critico della ragione consapevole dei suoi limiti – e i rischi di implosione del razionalismo moderno, che diventano evidenti quando vengono accollati sulle spalle della ragione «compiti insostenibili» [24]. L’appropriazione critica di contenuti religiosi, sperimentata con successo da Kant in una parte della sua filosofia, diventa supplenza acritica e indebita allorché la filosofia tende a cancellare la «linea di confine» tra ciò che della religione è possibile (e fecondo) tradurre nei suoi termini e ciò che invece non lo è: il tema del male e della redenzione da esso offre qui un esempio di valore emblematico. Il progetto messianico di una salvezza inframondana totale ed esaustiva – cioè l’idea dell’eliminazione, con mezzi tutti umani, del male dal mondo – costituisce l’esito di un itinerario interno alla modernità nel corso del quale si dimostra quanto facile e allo stesso tempo terribile sia il perdere di vista questa linea di confine, tutt’altro che pacifica e, anzi, «terreno minato» [25]: «Una ragione che si autosmentisce corre facilmente il rischio di assumere il gesto autoritario e profetico di una sacralità svuotata dall’interno e diventata anonima». Il compito di una «ragione profana ma non disfattista» – chiamata a mostrare «grande rispetto per il fuoco segreto che continuamente si riaccende sulla questione della teodicea» – è piuttosto quello di non «avvicinarsi troppo alla religione»: «Essa sa bene che la sconsacrazione del sacrale ha preso inizio da quelle religioni universali che hanno disincantato la magia, superato il mito, sublimato il sacrificio cruento e disgelato il segreto. Perciò essa può mantenere la distanza dalla religione senza per questo chiudersi alla sua prospettiva» [26].
Le religioni universali hanno operato il disincanto rispetto al magico: in questo apporto si fonda la possibilità di stabilire un dialogo tra esse e la filosofia basato su quello sforzo di traduzione e di apprendimento reciproco di cui si è detto nella prima parte di questo articolo. Ma le religioni universali conservano anche una sostanziale e intrascendibile eccedenza rispetto a ogni realtà mondana, eccedenza in cui è custodito un insieme di significati che non solo segnalano i limiti della ragione, ma schiudono orizzonti di senso ulteriori rispetto a quest’ultima e che non sono in alcun modo riducibili alle pretese di un razionalismo esasperato. E qui, mi pare, si profila l’aspetto cruciale. Se è vero che la ragione si autosmentisce quando viola la linea di confine che le è propria, altrettanto innegabile risulta infatti che anche la religione cristiana – esempio paradigmatico, per Habermas, di religione universale – può ripetere, dal canto suo, questo gesto allorché dimentica o mantiene troppo tra le righe la riserva escatologica che la contraddistingue; oppure quando cessa di vigilare, come dovrebbe, la componente di scandalo al cospetto di ogni saggezza umana, componente che è consegnata all’immagine del Cristo crocefisso; o anche nel momento in cui mette troppo tra parentesi il mistero costituito dall’insondabile incontro tra libertà umana e grazia divina che sta al cuore del cristianesimo.
Solo a condizione di conservare ben ferma la dialettica del “già e non ancora” la religione cristiana può intrattenere un confronto con i «cittadini privi di sensibilità religiosa», a prezzo altrimenti di prestare il fianco a quanti la intendono riduttivamente come puntello di un’etica pubblica oggi in crisi e quindi ne sfruttano solo l’apporto che Habermas definisce, come s’è visto, motivazionale.
In un tempo inflazionato dal «kitsch religioso», in cui «i supermarket dell’arte spalancano le porte per gli altari di tutto il mondo» a favore di «preti e sciamani che […] vengono con l’aereo da tutti i punti cardinali a festeggiare il vernissage» [27], in un tempo siffatto un intellettuale erede del progetto illuministico, come Habermas, e un teologo avvertito, come Joseph Ratzinger, avevano trovato, nel loro confronto del gennaio 2004, un felice punto di convergenza mettendo in risalto il valore della ragione come medium dell’intesa possibile tra una religione sottratta al ritorno di suggestioni mitiche, intimistiche, folkloristiche e una ragione che, senza rinnegare le sue radici nella modernità secolarizzata, è però anche disponibile a esercitare su se stessa la necessaria autocritica. E quel confronto mantiene intatto il suo potenziale. Eppure non si può sfuggire all’impressione che anche il largo credito aperto da gran parte della cultura liberale alle posizioni dell’allora Cardinale Ratzinger e dell’attuale Pontefice Benedetto XVI si basi sull’oblio e/o sulla sottovalutazione di quegli aspetti della religione che Habermas richiama in Fede e sapere. Qui, come s’è visto, la ragione moderna secolarizzata non si pone di fronte alla religione con il semplice intento di reperire un efficace interlocutore in grado di rinsaldare – di fronte alla crisi del legame sociale nelle democrazie investite dalla retroazione distruttiva dell’individualismo atomistico – la solidarietà civile. Si dispone invece all’ascolto rispettoso di quanto la religione ha da dire riguardo a ciò che travalica e oltrepassa radicalmente le questioni dell’agenda pubblica nella Città secolare. Avverte qui, per se stessa, una risorsa che porta in direzione totalmente altra rispetto a quella precedente. E guarda alla religione come a una riserva di senso preziosa e insostituibile proprio in virtù di tale eccedenza. Mi pare che questo lato della posizione di Habermas non sia stato valorizzato quanto avrebbe potuto e dovuto esserlo nell’ambito della cultura politica “laica”, mentre l’altro lo è stato certamente, ma, in quanto lo si è slegato dal secondo, ha subito una brusca torsione, finendo per essere confinato (e sacrificato) spesso entro i fuorvianti percorsi di un discorso, spesso apertamente strumentale, sulla “religione civile” – cioè quel modo di considerare la religione in rapporto alla democrazia contro cui la posizione habermasiana dovrebbe costituire una decisiva replica (e che certo un cristiano non potrebbe accettare).
Si era già accennato al fatto che il senso di quanto in questo articolo è, pur molto schematicamente, detto vorrebbe valere anche a prescindere dall’illustrazione del pensiero dell’ultimo Habermas. Infatti è qui questione, in generale, delle condizioni di possibilità e dei limiti di un rapporto tra religione e politica nelle democrazie di inizio millennio. A mio avviso, il valore della posizione di Habermas consiste nel fatto che, dal punto di vista di un non credente, intercetta con estrema chiarezza alcuni problemi salienti che investono tale rapporto. Pone infatti le questioni del contributo della religione al ripensamento dei «fondamenti morali prepolitici dello stato liberale» non solo nella prospettiva motivazionale, bensì anche cognitiva; ma soprattutto recupera il valore autonomo e irriducibile della religione, al di là di una chiave di lettura unicamente normativa. Si potrebbe dire che, nelle sue riflessioni più recenti, Habermas si ricollega a quella sua radice francofortese rispetto alla quale aveva marcato sempre più, specie dopo la “svolta linguistica”, le distanze. Significativo, a questo proposito, è il richiamo ad Adorno e a Horkheimer che viene introdotto in Fede e sapere: «Nel momento in cui la ragione dubita di non farcela, Adorno – ancorché in uno spirito puramente metodologico – si accerta dell’aiuto di una prospettiva messianica: ‘La conoscenza non ha altra luce che non sia quella che emana dalla redenzione sul mondo’. A questa frase di Adorno può applicarsi l’osservazione che Horkheimer rivolge alla ‘teoria critica’ nel suo complesso: ‘Essa sa che non c’è nessun Dio, epperò essa crede in lui’» [28].
Torna alla mente l’esordio de La nostalgia del totalmente altro: «Un animo veramente liberale conserva il concetto di infinito come coscienza che gli avvenimenti di questo mondo sono definiti e che l’uomo è irrimediabilmente abbandonato e, così, la società rimane preservata da un ottimismo ottuso, che si pavoneggia del suo sapere, quasi fosse una nuova religione» [29]. Ma, in un senso forse ancora più pregnante, vien fatto di rievocare un passo ulteriore di questo testo-intervista, oggi troppo disinvoltamente dimenticata: «Nel concetto di Dio è stata conservata per lungo tempo la rappresentazione che ci siano altre misure oltre quelle che natura e società esprimono nella loro attività. Il riconoscimento di un essere trascendente attinge la sua forza più grande dall’insoddisfazione del destino terreno. Nella religione sono depositati i desideri, le nostalgie, le accuse di innumerevoli generazioni. Ma quanto più nel cristianesimo si armonizza l’opera di Dio con gli avvenimenti mondani, tanto più si stravolge il senso della religione» [30].
Habermas, lo abbiamo visto, presenta una posizione molto più articolata in merito alla possibile incidenza storica e politica della religione. Ma l’idea della religione come spazio di un incondizionato che serve a misurare ed evidenziare i limiti dei poteri conoscitivi e operativi umani è chiaramente – almeno così mi pare – frutto del recupero dell’ultimo Horkheimer. Non conta qui, evidentemente, una valutazione del significato e anche delle eventuali aporie della “teologia negativa” così com’è recepita ed elaborata dai francofortesi; né può esserci modo per affrontare il problema dei possibili rapporti di essa con la tradizione ebraico-cristiana, anche in relazione agli sviluppi più recenti del dibattito teologico. Semmai ci sarebbe da stigmatizzare il fatto che questa componente del pensiero habermasiano sia stata poco o niente ricordata e utilizzata nel dibattito in corso su religione e politica, nel quale pure molti interlocutori hanno assunto Habermas come riferimento saliente, anche se ovviamente non unico.
Stretto tra la propensione “liberale” a pensare la religione come puntello normativo di democrazie in crisi di “legature forti”, da un lato, e, dall’altro, una chiesa cristiana spesso propensa (e anche talvolta costretta dalle carenze degli altri soggetti in campo) a giocare la sua partita sul piano dei temi dell’agenda pubblica (famiglia, bioetica, povertà globale), il confronto su religione e politica sembra per ora destinato a rimanere segnato dalla difficoltà di ripensare non tanto o non solo il secondo termine (la politica), ma il primo (la religione) in tutta la pregnanza del suo significato. Ciò riguarda certo i «cittadini non sensibili religiosamente», ma concerne innanzitutto un mondo cristiano che, specie a livello delle sue più alte gerarchie o almeno di una parte di esse, sembra voler riguadagnare la propria identità e il proprio ruolo con uno sguardo rivolto con insistenza forse eccessiva al “già” piuttosto che al “non ancora”. Ma un impegno religioso ed ecclesiale troppo schiacciato in tale prospettiva inframondana fa riapparire singolari elementi di secolarizzazione nel cuore stesso di quel mondo cristiano nel quale anche uomini e donne non religiosamente orientati cercano – come anche la riflessione dell’ultimo Habermas documenta sul piano della ricerca filosofica – interlocutori significativi per un dialogo che si svolge avendo dinanzi le derive distruttive di una «secolarizzazione ‘destabilizzante’». Non si crea così il pericolo, certo paradossale ma non per questo meno reale, che la chiesa possa finire per incappare in un deficit certo non secondario di incisività e di efficacia di fronte alle domande di senso che emergono dalla società cosiddetta “postsecolare”?

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[1] J. HABERMAS, I fondamenti morali prepolitici dello Stato liberale, in J. HABERMAS – J. RATZINGER, Etica, religione e Stato liberale, tr. it. a cura di M. Nicoletti, Morcelliana, Brescia 2005, p. 21.
[2] Ivi, p. 26.
[3] Ivi, p. 30.
[4] Ibidem.
[5] Ivi, p. 31.
[6] Ivi, p. 30.
[7] Ivi, p. 35.
[8] Ivi, pp. 35-36.
[9] Ivi, p. 36.
[10] Ivi, p. 39.
[11] J. HABERMAS, Fede e sapere, in Il futuro della natura umana, tr. it. a cura di L. Ceppa, Einaudi, Torino 2002, p. 106.
[12] Ivi, pp. 106-107.
[13] Ivi, p. 107.
[14] Ibidem.
[15] Ibidem.
[16] Ivi, pp. 107-108.
[17] Ivi, p. 108.
[18] Ibidem.
[19] Ibidem.
[20] Ibidem.
[21] Ibidem.
[22] Ivi, p. 109.
[23] Ibidem.
[24] Ivi, p. 110.
[25] Ibidem.
[26] Ibidem.
[27] Ibidem.
[28] Ibidem.
[29] M. HORKHEIMER, La nostalgia del totalmente altro, tr. it. a cura di R. Gibellini, Queriniana, Brescia 1972, p. 67.
[30] Ivi, pp. 80-81.
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