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Discriminazione e color-blind society:
la dissoluzione della questione razziale negli USA [1]

Massimo Gelardi

I fotogrammi ormai stucchevoli dell’ennesimo pestaggio di un automobilista alticcio o di un pusher di mezza tacca da parte di energici poliziotti; gli epiteti irosi che un attore in disarmo, già comprimario di una sitcom di successo, rivolge a due spettatori annoiati dal suo show in un locale non di grido; le raffinate beghe ideali che scuotono sommessamente l’atmosfera rarefatta dei dipartimenti della più prestigiosa università statunitense.
Chi volesse trovar traccia della questione razziale [2] nel discorso pubblico statunitense degli ultimi anni potrebbe utilmente limitare la propria ricerca alle sezioni di cronaca dei mezzi di informazione, laddove vengono confinati fatti ed eventi ritenuti privi di più profondo significato, indegni di più ampia e profonda indagine. Perché altrove – nei restanti settori della produzione mediologica, nel discorso ordinario, nella teoria sociale, nell’agenda politica – il tema della color line, che fino agli anni settanta del secolo scorso più di ogni altro sollecitava, impegnava, inquietava la società statunitense (le sue istituzioni civiche, le sue organizzazioni simboliche, le sue strutture politiche e giuridiche, i suoi apparati repressivi), sembra essersi dissolto.
La realizzazione dello scenario che l’ala più estrema del movimento afroamericano lucidamente prefigurò e combatté dal 1960 al 1975, con qualche strascico marginale, è l’esito congiunto di una riconfigurazione degli assetti produttivi governata nel segno della continuità, dunque dell’esclusione (ristrutturazione tecnologica, semidelocalizzazione dell’attività produttiva, finanziarizzazione dei cicli di investimento e frammentazione sottopagata del lavoro in un contesto di ridottissima mobilità della proprietà); di inedite congiunture nazionali (la crescente rilevanza, e le nuove modalità, del fenomeno dell’immigrazione) e sovranazionali (la cosiddetta “guerra al terrorismo”); di una mancata saldatura tra le diverse soggettività sociali, incapaci di reperire forme comuni di mobilitazione; di un mutato clima culturale (da una parte il trionfo della versione più corriva ed elementare del pensiero postmoderno, matrice di quell’approccio antiessenzialista al concetto di razza che, per affermarne l’artificiosità, ne ha decretato la dissipazione nell’era del suo pieno vigore; dall’altra l’imporsi speculare di una declinazione scettica eppure forte di culturalismo, che ripristina sul piano etnico ovvero religioso la visione determinista del nesso tra appartenenza collettiva e agire individuale); di un irrigidimento delle politiche del controllo (la crescente incarcerazione, e la proliferazione di misure di riduzione della libertà, a danno della fascia di afroamericani giovani e maschi, risultato di un intensificato perseguimento e di una massiccia penalizzazione di comportamenti tipicamente ricorrenti nelle comunità nere); di una disfatta militare (la distruzione – tramite operazioni di intelligence e infiltrazione, omicidi mirati, assalti, assedi, bombardamenti – del Black Panther Party, della comunità MOVE di Philadelphia, di gruppetti radicali a ridotta influenza territoriale, di cellule politicizzate contigue o legate a bande criminali).
È la Post Civil Rights Era [3]. Conquistata pienezza e parità di diritti dopo una lunga stagione di lotte, il popolo afroamericano si è ritrovato improvvisamente privo di una prospettiva – tanto strategica quanto ideale – di fronte a una società che non mutava nella direzione sperata. Da una parte, la irredimibile naiveté politica e teorica della parte del movimento, che si richiamava alla parola d’ordine del Black Power, aveva importato nei disegni tattici di lungo periodo l’idea – avanzo delle più miopi elaborazioni marxiane – che la modificazione delle forme giuridiche avesse carattere ancillare e riflesso a fronte delle trasformazioni strutturali che invece caratterizzano l’evoluzione profonda di una società: di qui la refutazione della potenza costitutiva della dimensione logico-formale di una comunità, che si traduceva nell’incapacità di ricalibrare la propria strategia d’azione all’interno di un ordine resistente ma rinnovato, di fare i conti con il fatto che se l’eguaglianza razziale rimaneva lontana, tuttavia la mobilitazione non poteva che proseguire lungo percorsi differenti, peraltro densi di nuove potenzialità. Dall’altra parte, la convinzione del movimento per i diritti civili che la forma di una società si esaurisca nella sua organizzazione giuridica, che dunque non si dia spazio di emancipazione al di fuori della mediazione o della ratifica da parte di articolazioni istituzionali rapprese in un linguaggio normativo (ossia idoneo ad abilitare operazioni logico-simboliche incassate in sequenze procedurali correlate a sanzioni positive o negative), aveva guadagnato all’impeto rivendicativo un approdo precoce, fallace e letale.
L’archiviazione dell’ormai insostenibile questione della discriminazione legale e il contestuale abbattimento del livello di conflittualità della contestazione nera fecero affiorare infatti una nuova rappresentazione dell’ordine razziale, il quale conservava la sua sostanziale staticità e rigidità interna ma, profittando della scomparsa di efficaci ed influenti controdescrizioni, si faceva color-blind society. Su vari fronti, lungo differenti piani, nei più diversi luoghi materiali e simbolici, il problema della stratificazione razziale smarriva la propria connotazione strutturale per essere declassato al rango di occorrenza episodica, deviazione individuale, atteggiamento patologico, residuo caduco di un’epoca nefasta ma infine sconfitta dalle intransigenti sentinelle del “Credo Americano”, raccolte attorno al puntello decisivo e infine pretestuoso dell’espansione della black middle class a proclamare all’alba degli anni settanta del Novecento che la società statunitense dismetteva la propria fisionomia razziale, che diveniva cieca, indifferente al colore.
Consonante con il divorante dispiegarsi di un liberalismo non più incline a farsi mitigare da interventi correttivi statali (l’era Reagan-Bush sr. -Bush jr., ma anche i suoi prodromi democratici), l’ideologia della color-blindness si affermò seguendo – tanto nel senso comune, quanto nella riflessione pubblica, negli indirizzi giurisprudenziali e nelle policies degli organismi situati sui più diversi livelli istituzionali – gli stilemi di due strategie discorsive complementari, che valsero a generare quello che è stato definito laissez-faire racism [4].
La prima discese da una brusca virata metodologica. Le risultanze degli indicatori economico-sociali – unanimi e univoche nel segnalare una profonda ineguaglianza razziale – vennero reinterpretate attraverso una rettifica del loro segno causale, che reimputò le più significative fratture sociali della nazione statunitense all’assetto di classe anziché a quello razziale [5].
La seconda consisté nell’adozione di una visione naturalizzata – sia pure a sfondo etnico – delle relazioni tra le razze: rimossi gli ostacoli che la discriminazione legale poneva al libero e florido sviluppo della condizione afroamericana, la persistenza del divario razziale andava spiegata facendo ricorso all’influenza negativa di taluni caratteri culturalmente radicati nella comunità afroamericana (la “pigrizia”, l’irresponsabilità, la scarsa adattabilità, l’incapacità di condividere i valori di una società fondata sull’impegno individuale e una rigorosa etica del lavoro), mentre il permanere della discriminazione – vale a dire, in un’accezione non giuridico-formale, delle pratiche attraverso le quali il “gruppo Bianco” continua a respingere il “gruppo Nero”, a sottrarsi a una significativa interazione sociale con esso – sarebbe la conseguenza della legittima tendenza di ogni soggetto (individuale quanto collettivo) ad associarsi agli elementi della comunità che identifica come simili a sé.
Corollario politico di questo modificato approccio alla questione razziale non poteva che essere la spinta al ridimensionamento, se non allo svuotamento, dell’intervento statale: in un mondo che si autogoverna sulla base delle spontanee (naturali o culturali che siano) attitudini degli abitanti, una interferenza esterna non solo è destinata a recar danno, ma è intrinsecamente iniqua. Di qui la crescente e diffusa opposizione a ogni provvedimento o principio teso a correggere la disparità razziale (dal busing al gerrymandering all’affirmative action [6]), di qui la progressiva, programmatica elisione della disparità razziale nei rituali di autonarrazione di una società che non vede differenze indesiderabili dentro di sé perché giustifica tutte quelle esistenti – anche le più dolorose – appellandosi alla razionalità superiore di una metafisica sociale o di un ordine divino.

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Questa sera riceverai la visita di un funzionario, il quale ti informerà che, secondo i dati a sua disposizione, è stato commesso un errore: tu saresti dovuto nascere nero. Tale errore sarà immediatamente rettificato, e dalla mezzanotte di oggi acquisirai le caratteristiche fisiche associate all’origine africana; conserverai invece le tue idee, le tue conoscenze, i tuoi sentimenti, cosicché – sebbene nessuno potrà mai riconoscerti – dentro di te rimarrai la persona che sei sempre stata. L’ufficio, tuttavia, consapevole delle proprie responsabilità, ti offre un risarcimento. Quantificalo, tenendo conto che vivrai ancora cinquant’anni.


Questo ormai famoso esperimento mentale [7] fu sottoposto a un gruppo di studenti bianchi, i quali – in grande maggioranza – risposero di pretendere 50 milioni di dollari, 1 milione di dollari per ogni anno da nero, vale a dire la cifra che essi ritenevano necessaria per affrontare le nuove difficoltà a cui sapevano sarebbero andati incontro. Erano i wages of whiteness [8], i profitti (i vantaggi relativi) assicurati a ogni bianco statunitense dal semplice fatto di esser bianco. Perché negli Stati Uniti la whiteness continua a rappresentare una risorsa, un punto di vista privilegiato, un requisito prezioso perché infungibile.
Una ragguardevole massa di evidenze empiriche prova che la società statunitense continua a ospitare dentro di sé una profonda ineguaglianza razziale, che un gap di prospettive e di opportunità seguita a segnare la traiettoria esistenziale di individui accomunati da posizione economica, estrazione sociale e stile di vita ma distinti per appartenenza razziale.
Una cospicua mole di inchieste (oltre all’esperienza quotidiana della gran parte degli afroamericani) da una parte illustra la sistematica sottostima degli episodi di discriminazione razziale vis-a-vis, vale a dire quella deliberata, cosciente e mirata, che viene data in via di estinzione e invece continua a manifestarsi – quale diritto di precedenza accordato ai bianchi, o trattamento rude e irrispettoso riservato ai neri, o iniqua considerazione dei requisiti e delle referenze – nel servizio e nell’ingresso in ristoranti e negozi, nelle relazioni con gli addetti ai servizi pubblici, nell’accesso al mercato del lavoro o residenziale, nel sistema scolastico, sanitario e assistenziale. Dall’altra sottolinea la faticosa emendabilità di un sistema in grado di riprodursi senza l’attiva e consapevole partecipazione dei soggetti coinvolti, che si limita a conservare e riflettere nel tempo la dinamica corrente insiders-outsiders: non è biased (viziato da pregiudizio) il comportamento del datore di lavoro che restringe le proprie assunzioni a canali informali collaudati dunque radicati in una struttura tradizionalmente bianca (e che di fatto agiscono quale sistema di monopolizzazione dei privilegi attraverso la compressione del numero e del tipo di aspiranti), o del proprietario immobiliare che nega la vendita di una unità abitativa a una famiglia afroamericana unicamente per evitare l’oggettivo decremento del valore delle altre in suo possesso nell’identico quartiere, o della coppia di genitori bianchi che rifugge le pur comode e vicine scuole a maggioranza di alunni neri perché consapevole che esse attrarranno più esigue e meno qualificate risorse economico-educative. È piuttosto il contributo indiretto allo stato di un sistema, alla protezione della sua inerzia: color-blind racism è stata definita la capacità discriminatoria che inerisce alla struttura (agli effetti di cumulazione e di rinforzo che discendono dall’azione di una pluralità di fattori dotati di identico segno: un reddito basso o saltuario, un’abitazione fatiscente in un quartiere privo di opportunità, una istruzione poco qualificata, una salute incerta, relazioni affettive precarie sono elementi che si tengono e si corroborano reciprocamente) anziché ai suoi agenti, che è proprietà dei modi di interazione istituzionalizzati in una comunità anziché degli individui che la compongono [9].
Ed è proprio nella difficoltà di discernere i tratti del sistema dalle intenzioni dei soggetti coinvolti (e, ancor più, di individuare la relativa influenza) – nella difficoltà di comprendere con chiarezza perché a un nero, rispetto a un bianco nella stessa situazione clinica, venga più difficilmente installato un bypass coronarico e più facilmente gli si amputino gli arti inferiori; perché il 93% dei bianchi non sia disposto a sposare un nero quand’anche appartenente alla propria classe socioeconomica; perché lo stesso quantitativo di cocaina conduca a conseguenze penali molto più dure se utilizzato nel crack (abitudine di consumo tipicamente nera) piuttosto che sniffato; perché nella NBA (National Basketball Association) e nella NFL (National Football League) i neri siano sovrarappresentati come atleti e sottorappresentati come dirigenti e coach, etc. – che vanno individuate l’origine, la natura e la modalità istitutiva della color-blind society, della sua pervasività, della sua persistenza e della sua vocazione erosiva, invasiva e progressiva.
La color-blind society è in definitiva un dispositivo sapientemente cesellato, profondamente incassato e attentamente situato: la sua formazione discorsiva occupa infatti magistralmente quel crinale mobile e invisibile che separa l’azione dalla sua neutra descrizione e lungo il quale può perseguirsi una terapia formulata come diagnosi, che deve la sua efficacia alla propria attitudine dissimulatoria; la discriminazione, dentro questa rappresentazione unilineare e ricorsiva, si nutre della sua negazione. E, in una società che delibera regolarmente la propria indisponibilità a riformarsi [10], a chi dissente non rimane che aggrapparsi alla prospettiva, oggi peraltro fumosa, di una riarticolazione egemonica delle strategie di emancipazione, di affermazione e di investimento economico-simbolico, di una visione politica in senso ampio che conservi l’irrinunciabile intuizione dell’esistenza di un nesso costitutivo tra libertà e sistema di opportunità ma la rovesci di segno, e si compia nel mostrare che le condizioni di dispiegamento della prima risiedono nella strutturazione prescrittiva, seppure fallibile, del secondo.

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[1] Questo testo è stato presentato e discusso nel corso del “Seminario di Teoria del Diritto e Filosofia Pratica” (XI ciclo), dedicato a Razza, forme di discriminazione, integrazione: quale pluralismo? e tenuto il 17 aprile 2007 presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia. Le riflessioni che ne sono alla base sono maturate, principalmente, nel periodo dal febbraio al giugno 2005 presso il Department of Linguistics and Philosophy del MIT di Boston, ove ho sviluppato una ricerca, in cui tuttora sono impegnato, su La natura dell'identità: significato, materia, norma nella costituzione degli individui. Il caso degli afroamericani e delle categorie razziali negli Usa.
[2] È ormai da qualche decennio che la società statunitense ha smesso di essere birazziale, e con tutta evidenza la condizione di ogni “razza” è parzialmente, di norma indirettamente, eppure sempre intimamente costituita dalla specifica relazione (o meglio: dallo specifico, sia pure aperto, sistema di relazioni) che essa intrattiene con ognuna delle altre “razze” e con la loro storia (o meglio: con le loro molteplici, e però peculiari, storie). Tuttavia, fin qui, la storia della razza negli Stati Uniti è in primo luogo la storia dei rapporti tra Bianchi e Neri e – di più – la storia degli Stati Uniti è in buona misura quella di una società organizzata attorno alla strutturazione bipolare della congiunzione di questi due gruppi. La rimozione di qualunque riflessione attorno alla condizione degli afroamericani segnala e al tempo stesso implica la rimozione di qualunque riflessione attorno alle condizioni di qualunque minoranza “razziale”.
[3] Il Civil Rights Act del 1964 rese illegale la discriminazione motivata da “razza, colore, religione, sesso e origine nazionale” nel mercato del lavoro, nei pubblici servizi, nel godimento dei diritti politici; il Civil Rights Act del 1968 proibì la discriminazione motivata da “razza, colore, religione, sesso e origine nazionale” nella vendita e nell’affitto di abitazioni, nonché nella concessione di fondi a tal fine destinati; il Voting Rights Act del 1967 vietò l’utilizzazione dei test di alfabetizzazione, nonché di qualunque altro strumento (device) selettivo, quali criteri di ingresso ai registri dei votanti (l’uso parziale e distorto di tali procedure, e il contesto intimidatorio nel quale venivano seguite, fu negli stati del Sud una delle tattiche più efficaci per «tenere i Neri al loro posto» – keeping Blacks in their place, secondo l’espressione dell’epoca). La desegregazione venne favorita inoltre da una serie di sentenze della U.S. Supreme Court, tra le quali la prima, e la più importante, fu quella che statuì l’illegittimità della discriminazione negli istituti scolastici (Brown v. Board of Education, 1954, tr. it. in K. THOMAS – Gf. ZANETTI (a cura di), Legge, razza, diritti. La Critical Race Theory negli Stati Uniti, Diabasis, Reggio Emilia 2005, pp. 1-10). Fin lì era rimasta in vigore la dottrina separate but equal, contenuta nella sentenza Plessy v. Ferguson (1896) della U.S. Supreme Court, che sanciva la legittimità della discriminazione (Homer Plessy era un cittadino di New Orleans che si vide negare il diritto di sedere in un vagone della East Louisiana Railroad riservato a soli bianchi in quanto nero per 1/8, ciò che secondo la one drop rule – la regola della goccia di sangue – bastava a renderlo nero).
[4] Così L.D. BOBO – R.A. SMITH, From Jim Crow Racism to Laissez-Faire Racism: The Transformation of Racial Attitudes, in W. KATKIN et. al. (eds.), Beyond Pluralism: The Conception of Groups and Identity in America, University of Illinois Press, Urbana (IL) 1998, p. 212 [Jim Crow era il personaggio nero e sciocco messo in scena a partire dal 1828 dal teatrante bianco – appositamente tinto di nero – Thomas D. Rice, e assurto a simbolo delle leggi segregazioniste in vigore negli stati sudisti fino agli anni Sessanta del secolo scorso]. Per una discussione essenziale della definizione di color-blind society si confrontino la versione apologetica di D. D’SOUZA, The End of Racism. Principles for a Multiracial Society, Free Press, New York (NY) 1995, e quella critica condivisa da M.K. BROWN et al., Whitewashing Race. The Myth of a Color-Blind Society, University of California Press, Berkeley (CA) & Los Angeles (CA) 2003.
[5] In questa prospettiva si colloca anche l’influente lavoro del sociologo afroamericano W.J. WILSON: cfr. in particolare The Declining Significance of Race. Blacks and Changing American Institutions, Chicago University Press, Chicago (IL) 1978. Inutile dire che è impossibile isolare compiutamente in capo a un soggetto le caratteristiche e le proprietà riconducibili all’appartenenza di classe da quelle correlate all’appartenenza razziale.
[6] Busing è il trasporto dei ragazzi presso scuole appartenenti a distretti diversi da quelli di residenza, allo scopo di contrastare il fenomeno della segregazione scolastica; gerrymandering è la prassi di rimappare le circoscrizioni elettorali ritagliandole lungo i contorni di aree abitate più o meno omogeneamente da minoranze, allo scopo di garantire un riequilibrio, parziale o tendenziale, della rappresentanza dei gruppi sociali (in realtà la pratica – peraltro nata come puro metodo di ingegneria topografico-elettorale utilizzato per disperdere il consenso degli avversari politici – venne a lungo tipicamente utilizzata per lo scopo opposto, vale a dire quello di ottenere la sottorappresentazione delle minoranze); l’affirmative action è il principio per il quale ai membri di taluni gruppi, in ragione degli svantaggi da essi conosciuti, viene accordata una preferenza nell’assegnazione di determinate risorse o nell’accesso a determinati titoli o prerogative (sull’argomento si veda il contributo a questa sezione di R. GORI-MONTANELLI, Questioni razziali e università americane: le vicende dell’affirmative action).
[7] Riportato in A. HACKER, Two Nations. Black and White: Separate, Hostile, Unequal, Charles Scribner’s Sons, New York (NY) 1992, tr.it. Due nazioni. Nera e bianca: separate, ostili, ineguali, Anabasi, Milano 1993. La versione qui proposta è leggermente ridotta.
[8] L’espressione, ormai classica, va fatta risalire a D.D. ROEDIGER, The Wages of Whiteness: Race and the Making of the American Working Class, Verso, London 1991, capostipite degli ormai fiorenti studi sulla whiteness. All’interno di una letteratura ormai vasta, si veda anche C.I. HARRIS, Whiteness as Property, in “Harvard Law Review”, Vol. 106, n. 8, pp. 1710-1791, 1993, tr. it. parz. in K. THOMAS – Gf. ZANETTI (a cura di), Legge, razza, diritti. La Critical Race Theory negli Stati Uniti, cit., pp. 85-109. La rilevanza dei whiteness studies, che peraltro non hanno fatto che riprendere una critica culturale costitutiva della parte più avanzata del movimento afroamericano, non risiede unicamente nell’aver imposto una riflessione sui vantaggi (materiali e psicologici) storicamente trincerati provenienti ai bianchi dalla loro riproduzione contrastiva rispetto alle altre razze (quella afroamericana in primo luogo), ma anche nell’aver concorso a problematizzare la condizione stessa di bianco, che dalla sua dimensione neutra, non-colorata, aveva fin lì tratto quell’alone di normalità, di specchio normativo, di elemento proiettivo e progettuale su cui si era fondata ogni rappresentazione dei rapporti razziali negli Stati Uniti.
[9] Sul systemic (o institutional) racism cfr. M. OMI – H. WINANT, Racial Formation in the United States. From the 1960s to the 1990s (2nd edition), Routledge, New York (NY) & London 1994. Un punto di vista filosofico che può essere associato a questa prospettiva è quello di C.W. MILLS, The Racial Contract, Cornell University Press, Ithaca (NY) & London 1997.
[10] Sulle questioni razziali la giustizia statunitense ha adottato ormai da qualche lustro la “perpetrator perspective”, il punto di vista del colpevole. La recente giurisprudenza costituzionale e ordinaria ha infatti, da una parte, elevato gli standard probatori in materia di discriminazione: perché si dia racial injustice si richiede ora non solo la presenza di un motivo nell’azione discriminatoria (un fattore che ne sia causa diretta) e la ragionevole prevedibilità degli effetti discriminatori, ma anche la prova della precisa intenzione (uno stato della mente) di arrecare danno in ragione di pregiudizi razziali; si noti che in materia di discriminazione per ragioni di età le corti accolgono invece di norma le domande dei ricorrenti senza soppesare le intenzioni degli imputati. Dall’altra parte, la medesima giurisprudenza ha minato in radice le potenzialità dell’affirmative action restringendone la legittimità – secondo un indirizzo tendenzialmente autocontraddittorio e paralizzante – ai casi in cui essa non “intralci indebitamente i diritti dei non-beneficiari” (U.S. Supreme Court, United Steel-workers v. Weber, 1979).

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