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Le risorse della Critical Race Theory:
la sovversione della ‘razza’[1]

Thomas Casadei

1. Eventi e contesti

Da qualche tempo nel dibattito pubblico, e non solo, sempre più frequenti sono divenuti i riferimenti alla razza e alle questioni razziali. Un concetto ambiguo, temuto, straordinariamente inquietante, è tornato ad essere utilizzato in riferimento a fenomeni ed eventi diversi tra loro e in vari contesti, entro un’estensione che non pare esagerato definire tendenzialmente ‘planetaria’. Tracciare una sorta di mappa delle varie modalità con cui si ricorre alla nozione di razza è esercizio complesso di cui, in questa sede, si può dar conto solamente in maniera sommaria. E, tuttavia, molteplici possono essere gli indicatori addotti per attestare questa tendenza. La rivolta parigina delle banlieues nel 2005 (con la sua recente recrudescenza) ha squarciato il velo della cittadinanza francese ponendo la question raciale al centro del dibattito [2]; sempre in Francia il dibattito in corso sulla preventivata introduzione della “statistica etnica” causa violente polemiche che toccano il cuore stesso dello spirito repubblicano [3]. Restando in Europa, nelle periferie di Londra e di altre metropoli, i fenomeni in atto in estesi quartieri ove imperano l’emarginazione, la violenza, l’insicurezza, l’abbassamento di qualsiasi soglia di legalità pongono interrogativi sui nessi che intercorrono tra forme di esclusione sociale e appartenenza etnico-razziale. Passando agli Stati Uniti, il disastroso uragano Katrina pare in qualche modo avere riaperto – anche a livello mediatico – la questione razziale, che – ad avviso di alcuni analisti – pare come “dissolta” nello spazio di discorso egemone, dopo le lotte per i diritti civili e i movimenti di liberazione dei neri degli anni Sessanta e Settanta [4]; con specifico riferimento all’ambito politico e, in particolare, con lo sguardo rivolto alle prossime elezioni presidenziali, ci si torna ad interrogare sulla rilevanza del dato razziale, a partire da quello delle comunità di afro-americani, nella conquista dei consensi [5]; al contempo, il persistere di forme di discriminazione razziale – più o meno esplicite – continua a sollecitare controversie e lotte sulla giustificazione delle azioni positive a sostegno degli appartenenti alle minoranze (e ciò avviene negli Stati Uniti ma anche in un paese che da sempre si è configurato socialmente in relazione alle questioni razziali come il Brasile [6]). Il «ritorno della razza» – come lo definisce e descrive Étienne Balibar – è attestato anche dalle vecchie e nuove forme di razzismo che persistono in vari luoghi del globo (anche nel cuore dei paesi ritenuti più ‘civilizzati’) e, ancora, dalle forme assunte dai conflitti etnici e religiosi disseminati nei paesi dell’Africa e dell’Oriente [7]. Oltre a questi fenomeni, non si possono non menzionare i molteplici processi, sempre più estesi, orientati da politiche “securitarie” che avrebbero lo scopo dichiarato di riportare ordine nel magma della globalizzazione e delle sue paure: e, a questo riguardo, basti pensare alle pratiche del racial profiling [8] e alla raccolta di dati statistici razziali, religiosi ed etnici acquisiti per prevenire i rischi di insicurezza.
Emerge, così, da questi scenari la possibilità di utilizzare, come categoria interpretativa, come «strumento diagnostico» [9], la nozione di razza. Uno spunto decisivo in tale direzione è stato offerto da quegli studi critici sulla razza che, a partire dallo specifico contesto statunitense, hanno avanzato negli ultimi anni una nuova visione della società, e delle differenze che l’attraversano, fissando alcuni elementi di particolare impatto per lo studio delle relazioni tra ‘razza’ e ‘politica’, nonché tra ‘razza’ e ‘istituzioni’. Uno spunto che si può riassumere nella assai efficace «metafora del minatore» elaborata da Gerald Torres e Lani Guiner: essa pone l’accento sul fatto che i problemi delle minoranze razziali sono sintomi che avvertono di rischi comuni [10]. Quella della ‘razza’ si presenta, così, come una nozione che ha certamente mantenuto una specifica e rilevante connotazione nel peculiare contesto statunitense (anche qui, comunque, progressivamente assorbita entro le logiche della neutralità e della color blindness), ma che, di certo, nel contesto europeo, è ancora come ‘oscurata’ da un velo che ne impedisca la risorgenza dopo gli indicibili drammi generati dal razzismo e dalle pratiche mostruose dei regimi nazi-fascisti. Del resto, tale stessa nozione, come entità tassonomica, è stata fortemente messa in discussione da genetisti come Luigi L. Cavalli Sforza [11]. Si delinea così una costitutiva ambivalenza, colta assai bene da uno dei principali studiosi europei della questione della ‘razza’ come Balibar (che da qualche anno, peraltro, svolge le sue ricerche anche a stretto contatto con il mondo americano) e da uno dei massimi esponenti della Critical Race Theory (CRT) come Kendall Thomas.
Balibar studia in maniera analitica il processo di «capovolgimento critico» che può generarsi quando ad appropriarsi del nome ‘razza’ siano le vittime dell’oppressione [12]. Dal canto suo, Thomas, mutuando considerazioni di un altro importante teorico critico della razza come Gary Peller, pone l’accento sul fatto che «il pensiero black nationalist “ha rivendicato […] una visione dell’identità razziale nera che vede la ‘razza’ non come un’essenza biologica o un vincolo di parentela primordiale, ma semplicemente come una fonte di comunanza, di cultura, e solidarietà, non da superare, ma sulla quale costruire”». Vista in questa luce, la race consciousness non è concepita come «un ostacolo nella battaglia per la giustizia razziale», ma come «una ricca e preziosa risorsa colla quale portare avanti le lotte» [13]. Dunque se, da un lato, parlare di ‘razza’ non è scientifico, e pertanto adottare un discorso incentrato sulla razza come dimensione biologica significa cadere irrimediabilmente entro la rete del ‘razzismo’, dall’altro, l’esclusione di tale termine (che può essere inteso, entro un’altra prospettiva, come ‘socialmente costruito’) ha effetti ideologici, che possono mascherare precise modalità di dominio e sopraffazione, secondo il classico modulo della «reificazione». Il discorso della razza è, da un lato, «ormai espunto da ogni decente discorso della ragione, mentre dall’altro si ripresenta ancora di nuovo come rischio e come sfida, e, cambiato di segno, viene riproposto come ineludibile all’interno delle tematiche del multiculturalismo» [14]. È questa ‘ineludibilità’ che sollecita le riflessioni condotte in questa sede. Esse guardano, in primis, alla ricognizione sistemica svolta dai teorici critici della razza [15], per molti versi in stretto dialogo con altri filoni di ricerca – quale quello sviluppato dal già citato Balibar o, ancora, da Carole Pateman [16], ma tentano anche di mutuarne strumenti d’analisi che possano favorire la comprensione di fenomeni come quelli precedentemente menzionati.


2. La Critical Race Theory

Generatasi nel contesto delle discussioni statunitensi sui complessi rapporti tra legge, razza e diritto, nonché sulla legittimità e gli effetti delle politiche di affirmative action volte alla realizzazione di una maggior eguaglianza [17], la CRT si situa entro la variegata costellazione delle «teorie postmoderne del diritto», mostrando le connessioni con i Critical Legal Studies e con le teorie del femminismo giuridico. Essa configura un movimento di intellettuali, quasi sempre black, che si rivelano attenti lettori di Foucault e di Gramsci [18]: da questi vengono mutuati concetti chiave come quello di «conoscenza soggiogata», che rinvia ai nessi tra potere e sapere, o quello di «egemonia», che induce a riflettere su tutto il processo del sociale vissuto e su quali siano le concrete forme attraverso cui un dato ordinamento istituzionale acquista e mantiene legittimità.
Tre sono gli assi attorno ai quali ruotano le argomentazioni dei teorici critici della differenza razziale, i quali concepiscono la razza come un costrutto sociale, e in particolar modo giuridico [19]: a) l’idea della «bianchezza» come proprietà, b) la messa in questione del «costituzionalismo color-blind», c) l’individuazione delle «azioni positive» come strumento imprescindibile per la promozione di una concreta eguaglianza tra individui – economicamente, politicamente, socialmente – diseguali.
Il primo aspetto è ben chiarito da quello che Barbara Flagg chiama il «fenomeno della trasparenza», ovvero «la tendenza da parte dei bianchi, a non pensare affatto alla (loro) bianchezza». Essi, al contrario, «tendono a guardare la razza, per così dire, dall’esterno» [20]. Il fatto che siano prese decisioni normative che risentono di questo fenomeno configura una forma di «razzismo istituzionale» «che sistematicamente crea o perpetua vantaggio, o svantaggio, razziale» [21]. Dunque pratiche di razzismo, da quest’angolo prospettico, non sono solamente gli atti dichiarati ed espliciti ma anche quelle decisioni che i decisori bianchi (ma potremmo anche pensarli come ‘europei’ rispetto agli ‘extracomunitari’) erroneamente identificano come tratti o comportamenti neutrali (rispetto alla razza), quei tratti e comportamenti che in realtà sono strettamente associati alla bianchezza. Si esplicita in tal modo, il legame tra forme di discriminazione e concezione del costituzionalismo. A questo riguardo, fondamentale è un saggio di Neil Gotanda [22]. In esso si svolge un’articolata critica alla concezione dominante secondo cui l’appartenenza razziale è un dato irrilevante per il sistema giuridico e giudiziario (costituzionalismo color-blind).
In netto contrasto con un’intuizione ingenua, «la razza deve essere necessariamente debiologizzata e l’appartenenza razziale diventare non ascrittiva, in modo da evitare che l’attribuzione della razza continui a perpetuare logiche di oppressione e di dominio. Attraverso la dimensione ‘costruttiva’ e ‘debiologizzata’ della razza, Gotanda mostra la variabilità dei criteri adottati dalle corti americane e ne deduce che tale variabilità è il sintomo di un’assenza di basi oggettive sulle quali appoggiare la suddivisione in razze e del prevalere dei criteri contingenti di opportunità politica» [23]. Da ciò segue la possibilità di considerare la razza come una costruzione sociale, l’appartenenza alla quale può essere rivendicata anche in assenza di quelle che potrebbero essere considerate ascendenze di sangue ‘canoniche’. Si rinvengono qui le basi teoriche per giustificare, su un piano normativo, quelle politiche di affirmative actions che prefigurano una diversa modalità di concepire una categoria dal denso significato valoriale come quella dell’eguaglianza, nonché i presupposti della cittadinanza democratica. La riflessione sulle azioni positive, sulle politiche preferenziali che fanno leva sulla differenza per generare emancipazione sociale costituisce il portato più solido, sul piano istituzionale, della CRT, nonché l’esito di una lunga lotta portata avanti dalle forze progressiste americane nelle piazze e nelle aule dei tribunali. Il prisma delle azioni positive, attorno a cui sono ruotate, e tuttora ruotano, le battaglie per far fronte agli effetti di emarginazione ed esclusione derivanti dalla povertà e dalle condizioni dei neri americani, mette in gioco oltre a quella dell’eguaglianza, anche la questione dell’identità, nonché le concrete possibilità di integrazione entro gli spazi della cittadinanza e della sfera pubblica [24].
A partire dalle questioni poste in maniera originale dalla riflessione dei teorici critici della razza, innestate in una realtà in cui la peculiar institution della schiavitù ha segnato in profondità le relazioni di potere, si possono, da un lato, affrontare alcuni nodi tipici della discussione statunitense che nel corso del tempo, a partire dalle lotte per i diritti civili e dalle posizioni della Nuova Sinistra negli anni Sessanta del Novecento, hanno chiamato in causa le diverse prospettive teorico-politiche, ma, da un altro lato, anche aprire – in modo più ampio – una riflessione che faccia i conti con le ‘questioni della razza’ nel contesto europeo e, più in generale, planetario. Ciò che può essere avviato è allora, a partire dalla constatazione del fatto che «la razza conta», come ha efficacemente mostrato Cornel West [25], un intenso e sfaccettato dibattito sui dispositivi che connettono legge, razza, istituzioni, seguendo la prospettiva della teoria critica della razza.


3. A partire dalla razza, in chiave critica

Le riflessioni sulla nozione di whiteness, l’appartenenza ‘razziale’ sempre attiva e sempre rimossa negli ordinamenti e nelle coscienze occidentali, potrebbero riguardare molto da vicino società tradizionalmente abituate a pensarsi (a torto o a ragione) come omogenee e, in realtà, in rapidissima trasformazione, in seguito a ben noti e inarrestabili fenomeni di immigrazione – cosa che si riflette anche nei modi di pensare la convivenza democratica e le forme concrete della cittadinanza. Assumere l’angolo visuale della razza – in chiave critica – pare permettere una ricognizione sull’attuale conformazione della democrazia, sulle sue effettive capacità di inclusione e di organizzazione della convivenza di individui e gruppi portatori di specifiche differenze, ma anche di individuare le vie per generare nuove forme di mobilitazione contro i dispositivi del dominio e per la costruzione di spazi di partecipazione ‘dal basso’, innervati nel cuore delle città e dei loro spazi, di contro ad una logica – tendenzialmente postdemocratica – di governo ‘dall’alto’. A questo mirano le elaborazioni, squisitamente militanti, di molti teorici critici della razza, come per esempio Guinier e Torres, le quali vedono nella nozione politica di razza la possibilità di riappropriarsi dell’«immaginazione democratica». Ad essere in gioco sono «i significati pubblici della razza, i modi in cui il fattore razza è collegato a fattori socio-economici come l’aspettativa di vita, la salute, il risparmio, la previsione statistica del completamento di un certo ciclo di istruzione, o al contrario l’aspettativa statistica di un certo numero di anni passati in carcere» [26]. La razza in senso politico, senza assumere alcuna concezione biologica, può aprire nuovi spazi di resistenza e di «democrazia partecipativa», divenire «esperienza potenzialmente trasformativa, sia per gli individui sia per la società»: essa può generare un progetto politico che sfida «le fonti gerarchiche del potere» e in tal modo ritesse il senso dell’«azione collettiva», permettendo «all’individuo non solo la scelta (choice), ma anche la voce (voice)». In altri termini, la riflessione che ‘prende sul serio’ la razza conduce, attraverso molteplici ramificazioni, alla variegata costellazione di problemi che concernono la democrazia nell’epoca della globalizzazione: dal ripensamento degli spazi urbani (e qui il caso francese delle banlieues fornisce un banco di prova assai significativo, ma anche la configurazione delle città americane meriterebbe un’accurata attenzione [27]), alle forme dell’assistenza e della vita sociale che si confrontano con i problemi concreti – nella loro quotidianità – della vulnerabilità e del rispetto della universale dignità umana (spesso teorizzata quanto, più sovente, negata [28]), fino ai processi di convivenza tra identità plurime e, dunque, alla possibilità di tenere insieme valori e stili di vita non solo diversi, ma spesso “incompatibili”.
In secondo luogo, assumere una prospettiva che ‘prenda sul serio’ la razza, senza tuttavia ridurla ad un feticcio o ad una macrocategoria capace di spiegare una molteplicità di questioni, rende possibile una precisa consapevolezza per ri-porre al centro delle discussioni antichi dilemmi (che oggi possono presentarsi in forme nuove) connessi, foucaultianamente, alle «relazioni di potere» e agli «stati di dominio»: le disuguaglianze sociali ed economiche, ‘di classe’; le inedite forme di schiavitù (che squarciano amplissime zone del globo, ma dimorano, per quanto rimosse, anche nelle democratiche e liberali società occidentali); le disuguaglianze e le discriminazioni legate al sesso (o al ‘genere’), specie nelle loro “intersezioni” con le discriminazioni basate sulla differenza razziale [29]; l’influenza delle forme di organizzazione strutturale della società sulle forme della pena. Quelli enucleati sono tutti temi che la CRT, e le prospettive che con essa decidono di fare i conti, sollecitano a considerare come decisive.


4. Sollevare il velo e mutare prospettiva: il portato ‘eversivo’ della razza

Le categorie messe a punto dalle teorizzazioni critiche della differenza razziale si generano certamente, come si è accennato, in un contesto specifico, particolare, situato. Si pensi alla critica della nozione di eguaglianza di opportunità (un valore che può, tuttavia, farsi vettore di ingiustizie intollerabili) che sorge dalla specifica esperienza dei blacks americani discriminati e offesi. Essa può, però, diventare «patrimonio immediatamente disponibile a chiunque sia interessato a produrre argomenti normativi capaci di sottoporre a critica le istituzioni circostanti, partendo non da concetti astratti e formali ma dal dato rilevante dell’oppressione e della disuguaglianza» [30]. Come osservano Charles Luke Harris e Uma Narayan nel sostenere le ragioni dell’affirmative action, «la razza, la classe, il genere, continuano a funzionare come fattori determinanti di una cittadinanza ineguale, che deprivano le persone dell’opportunità di partecipare a numerose forme di associazione e di lavoro cruciali allo sviluppo dei talenti e delle capacità – talenti e capacità che a loro volta mettono in grado gli esseri umani di contribuire in modo significativo alle (e di trarre beneficio dalle) possibilità collettive della vita nazionale» [31]. La mossa decisiva consiste però, ab origine, nel vedere, nello svelare, le forme di discriminazione, di esclusione e le nuove ‘dinamiche di razzializzazione’. È qui che la CRT mostra la sua potente carica ‘eversiva’ e la capacità di mettere in una diversa prospettiva l’analisi della realtà. Come ha mostrato, in maniera paradigmatica, Barbara Flagg, la «metafora del vedere», in contrapposizione alla retorica del costituzionalismo «cieco rispetto al colore», rende conto di quel profondo discernimento, basato sulla messa in questione del «mito della trasparenza» e dello sguardo ‘da nessun luogo’ dei bianchi rispetto alla razza, che può portare ad un serio impegno contro le varie forme di razzismo e discriminazione istituzionali [32].
‘Vedere’ significa anche ‘guardare con altri occhi’ e, dunque, pensare in modo altro rispetto al presente normativo delle società occidentali. Guardare con altri occhi al diritto, al potere, alla legge, ai discorsi legittimanti delle pratiche istituzionali del presente (ma anche all’organizzazione complessiva dei luoghi e delle città) consente di poter cogliere la sofferenza, la durezza e le cause della vulnerabilità, ma anche la ricerca di dignità, nonché la possibilità di progetti sociali e di speranze di cambiamento negli spazi in divenire della democrazia, oltre alla paura, alle ‘gabbie del mercato’ che tutto riduce a profitto e merce (compresi i corpi degli esseri umani, specie quelli appartenenti ad ‘altre’ etnie o supposte ‘razze’). Aspetti, quelli menzionati, che accomunano le condizioni dei neri d’America, e delle altre minoranze razziali (ispanici, asiatici, ecc.) nel contesto statunitense [33], alle condizioni dei migranti nelle società europee, ove pregiudizi, ingiustizie ed emarginazione estrema assumono sovente i volti della ‘razza’ (e delle discriminazioni da essa originate).
La razza, “ombra interna alla cultura occidentale”, mostra così la sua persistenza ma anche, mutata di segno, la sua valenza “diagnostica” e potenzialmente “mobilitante” per ripensare, in chiave positiva, le forme del vivere associato, assumendo il punto di vista delle vittime della discriminazione (seguendo la prospettiva condivisa da Balibar e Thomas). Che questo possa apparire come un paradosso è possibile e, tuttavia, è forse dai paradossi che si può partire nell’epoca della fine globale delle certezze, compresa quella, egemonica, secondo la quale la bianchezza è ‘neutra’, e ‘neutri’ sono gli atti e gli atteggiamenti degli Stati e dei cittadini delle società occidentali.

[1] Si riprendono qui alcune riflessioni sviluppate in precedenza in due diversi contributi: La razza come «strumento diagnostico», e «Razza»: il ritorno di una categoria controversa?, apparsi, rispettivamente, in “Jura Gentium” (nel Forum su Legge, ‘razza’ e diritti: a partire dalla «Critical Race Theory»: http://dex1.tsd.unifi.it/jg/it), e in “Iride”, 49, 2006, pp. 547-550.
[2] Cfr. D. FASSIN – E. FASSIN (sous la direction de), De la question sociale à la question raciale?, La Découverte, Paris 2006.
[3] Cfr. R. HADAS-LEBEL, Race and Republicanism, “Project Syndicate/Institute for Human Sciences”, 2007: www.project-syndicate.org (tr. it. con il titolo Se la razza diventa un numero, in “l’Unità”, 1.V.2007, p. 27).
[4] Su questi aspetti si rinvia a M. GELARDI, Discriminazione e color-blind society: la dissoluzione della questione razziale negli Usa, in questa stessa sezione.
[5] Cfr., qui di seguito, P. WILLIAMS, ‘Trascending’ race. Obama and the American Dilemma.
[6] Si veda il contributo in queste pagine di E. RABENHORST, “Razza” e pluralismo politico in Brasile.
[7] Cfr., rispettivamente, M. MAMDANI, Race et ethnicité dans le contexte african, “Actuel Marx”, 38, 2005; I.M. SALA, Il Dio dell’Asia. Religione e politica in Oriente. Un reportage, Il Saggiatore, Milano 2006.
[8] Si veda M. GOLDONI, Logica della razza e ‘stato di emergenza’: il Racial Profiling, in http://www.sifp.it (sez. ‘Il commento’).
[9] Mutuo l’espressione da G. Torres e L. Guiner che vi ricorrono, attraverso il caratteristico metodo dello storytelling, «per identificare e scandagliare a livello sistemico le strutture di potere e di ineguaglianza»: Il canarino del minatore e la nozione di political race, in K. THOMAS – Gf. ZANETTI (a cura di), Legge, razza e diritti. La Critical Race Theory negli Stati Uniti, Diabasis, Reggio Emilia 2005, p. 131 (d’ora in poi citata con la sigla Lrd).
[10] Ivi, pp. 129-131.
[11] L.L. CAVALLI SFORZA, Razze, popoli, lingue, Feltrinelli, Milano 1996.
[12] É. BALIBAR, Capovolgimenti performativi del nome «razza» e dilemma delle vittime, “Iride”, 49, 2006, pp. 561-575, in part. p. 570.
[13] K. THOMAS, Legge, razza e diritti: Critical Race Theory e politica del diritto negli Stati Uniti, in Lrd, pp. 179-202.
[14] Così la presentazione al fascicolo di “Filosofia politica” dedicato a «Ghenos/razza», 3, 2003.
[15] Essa è condensata, nei suoi aspetti salienti, nell’antologia citata alla nota 8.
[16] L’autrice di The Sexual Contract (1988) ha da qualche tempo avviato, in collaborazione con uno studioso impegnato nell’ambito della CRT come Charles W. Mills (a sua volta autore di The Racial Contract, Cornell UP, Ithaca 1997) uno studio approfondito in corso di pubblicazione per la Polity Press: Contract and Domination.
[17] Cfr. R. GORI-MONTANELLI in questa sezione.
[18] Su questo lascito gramsciano: K. CRENSHAW WILLIAMS, Legittimazione e mutamento nelle norme contro la discriminazione, in Lrd, pp. 111-125.
[19] Cfr. I.F. HANEY LÓPEZ, Bianco per legge, in Lrd, pp. 71-78.
[20] B. FLAGG, Ero cieco ma ora vedo, in Lrd, p. 79.
[21] Ivi, p. 82.
[22] N. GOTANDA, «La nostra costituzione è cieca di fronte al colore»: una critica, in Lrd, pp. 27-69.
[23] L. MARCHETTONI, Multiculturalismo o Critical Race Theory. Ovvero «Cultura» vs «Razza», contributo al Forum di “Jura Gentium”.
[24] Cfr. C. WEST, Al di là della “affermative action”. Eguaglianza e identità, in ID., La razza conta (1993), Feltrinelli, Milano 1995.
[25] Ibidem.
[26] G. TORRES – L. GUINIER, Il canarino del minatore e la nozione di political race, cit., pp. 129, 132.
[27] È questo il filone di studi avviato da analisti come Mike Davis, cui si riallacciano le odierne disamine della cosiddetta «urbanistica dell’apartheid».
[28] Il caso dell’uragano Katrina ha mostrato la pervasività della “discriminazione strutturale” (e del suo ciclo di riproduzione) e dunque le connessioni tra molteplici forme di vulnerabilità – di matrice sociale, economica, razziale – e deprivazione della dignità: tra le migliaia di vittime molte erano persone anziane, sole, nere, povere.
[29] Cfr. K. CRENSHAW, Demarginalizing the Intersection of Race and Sex: A Black Feminist Critique and Antidiscrimination Doctrine, Feminist Theory and Antiracist Politics, in T.K. BARTLETT – R. KENNEDY (eds.), Feminist Legal Theory: Readings in Law and Gender, Westview Press, Boulder 1991, pp. 57-80.
[30] K. THOMAS – Gf. ZANETTI, Introduzione a Lrd, p. XI.
[31] C.L. HARRIS – U. NARAYAN, L’azione affermativa e il mito del trattamento preferenziale, in Lrd, p. 177.
[32] B. FLAGG, Ero cieco, ma ora vedo, cit., pp. 79-83.
[33] Una recente indagine commissionata dal “Washington Post” in collaborazione con la Hanry J. Kaiser Family Foundation e l’Università di Harvard ha fornito un quadro assai critico della situazione americana: stante questa ricerca, un nero su quattro è disoccupato, un terzo dei neri che nascono ora passerà un periodo in prigione.

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