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L’“indifferenza alla felicità” nel pensiero della Cina antica. Dialogo con François Jullien

Amina Crisma

Come ben sa il pubblico italiano che da sempre accoglie con grande interesse i suoi saggi, nei quali un’acuminata intelligenza critica si esprime nell’eleganza di una nitida prosa, François Jullien è indubbiamente uno dei più brillanti e affascinanti protagonisti nello scenario della riflessione e del dibattito sul pensiero cinese – uno scenario che si è notevolmente ampliato, approfondito e variegato nel corso negli ultimi anni, e che ha conosciuto e conosce vivaci sviluppi su versanti molteplici e in prospettive diverse.
Esercizio della filologia e rinnovamento della pratica ermeneutica si sono fertilmente intrecciati, in modalità quanto mai varie, in tali recenti e significativi svolgimenti della sinologia, che hanno ridisegnato da cima a fondo le mappe delle tradizioni di pensiero del Paese di Mezzo e delle loro interpretazioni. Vi hanno contribuito voci, linguaggi e sensibilità differenti, che hanno dato luogo a una grande ricchezza e pluralità di esplorazioni: da un lato, si sono avute opere importanti che hanno proceduto a ridefinire e ad articolare il quadro d’insieme delle nostre conoscenze – da Disputers of the Tao di A. C. Graham a Histoire de la pensée chinoise di Anne Cheng [1]; dall’altro, si sono offerte fresche e stimolanti riletture dei classici (si vedano, in tal senso, le recentissime edizioni dei Dialoghi di Confucio a cura di Tiziana Lippiello e del Laozi a cura di Attilio Andreini, e i saggi sui grandi maestri della tradizione confuciana di Maurizio Scarpari [2]); e ancora, si sono sperimentate nuove strategie interpretative, nelle quali l’interazione di filosofia e sinologia si è espressa in un ampio ventaglio di diversificate declinazioni, svariando dalle riformulazioni creative di un’ispirazione pragmatista di cui offrono esempi insigni le opere di David L. Hall e Roger T. Ames [3] alle radicali rimesse in discussione del tradizionale paradigma “orientalistico” che connotano gli audaci e imponenti lavori di Heiner Roetz [4], da inedite prospettive di comparativismo [5] a ponderate riflessioni sulle nuove frontiere dischiuse da sensazionali scoperte archeologiche che ci inducono oggi a rivisitare problematicamente molte di quelle che finora ritenevamo delle certezze acquisite [6]. E sullo sfondo di tali multiformi sviluppi, vi è l’acuta consapevolezza che per la cultura dell’Occidente sarà impossibile costruire un orizzonte di “universalismo contestuale” – ossia una prospettiva tale da mantenere un’istanza di universalità che peraltro si sottragga alla tentazione dell’uniformità, e tale da garantire il gusto della pluralità senza nondimeno cedere a un “relativismo assoluto” [7] – se essa sarà incapace di adempiere all’esigenza, indubbiamente ardua, e peraltro ineludibile negli scenari di un mondo globalizzato, di «rendere giustizia» (è di Paul Ricoeur questa bella e pregnante formulazione) alle grandi esperienze di pensiero della Cina [8], lasciandosi finalmente alle spalle gli stereotipi inerti e i giochi di specchi imperniati sulla dicotomia Occidente/Oriente.
In tale dinamico, vasto e variegato panorama, il lavoro di François Jullien si connota originalmente per la peculiarità della sua proposta, all’incrocio fra filosofia e sinologia, che si è sviluppata in una serie di raffinate variazioni su temi diversi – dalle concezioni del mondo che sono argomento di Procès ou création (1989) e di Figures de l’immanence (1993) alla dimensione estetica esplorata in Eloge de la fadeur (1991) e in Le Nu impossibile (2005), dall’indagine sulle nozioni di strategia svolta nel Traité de l’efficacité (1996) all’interpretazione della saggezza proposta in Un sage est sans idée (1998), dalla riflessione sull’etica di Fonder la morale (1995) a quella sul tempo di Eléments d’une philosophie du vivre (2001) [9].
Una molteplicità di letture è messa in gioco in un discorso che esplicitamente rifiuta di circoscriversi in un ambito specialistico e altrettanto esplicitamente rifugge dal dislocarsi su di un piano divulgativo, per additare la prospettiva di un “uso filosofico della Cina” i cui aspetti salienti, esplicitati in varie occasioni, sono sinteticamente riformulati nelle pagine di Penser d’un dehors, il denso volume nel quale Jullien, dialogando con Thierry Marchaisse, traccia la propria autobiografia intellettuale e riassume gli orientamenti fondamentali della propria ricerca.
«La pensée chinoise nous découvre d’autres cohérences; elle nous fait revenir, en amont, sur les partis pris de notre Raison. Elle est donc plus à même, aujourd’hui, d’intriguer la pensée et d’ébranler la philosophie» [10].
È così un vasto orizzonte progettuale che Jullien dischiude, nel quale il richiamo alla lezione di Marcel Granet – il geniale autore di quel grande libro, divenuto ormai un classico, che è La pensée chinoise (1934) [11] – si salda con il metodico ricorso allo strumento dell’“eterotopia” desunto da Michel Foucault: si tratta di una prospettiva in cui «far incontrare ciò che non si è mai incontrato»; in tal modo, il confronto con l’Altrove che il pensiero cinese rappresenta rispetto alla ragione europea offre a quest’ultima l’occasione di riflettere su di sé, di scoprire i presupposti impliciti e i partiti presi del logos, di aprirsi ad altre forme di intelligibilità possibili [12].
Così, ad esempio, in Le détour et l’accès (1995) [13] Jullien si incarica di mostrare quale intima coerenza sottenda la predilezione dei letterati cinesi per l’espressione allusiva e per l’approccio obliquo, che può apparire tanto sorprendente rispetto alle modalità dirette ed esplicite di discorso che ci sono familiari. Ed è, ancora, l’intima coerenza di un linguaggio che agli occhi dell’Occidente risulta sconcertante e paradossale ciò che Jullien si propone di mostrare in quello che è forse il più intenso e suggestivo fra i suoi lavori, La Grande Image n’a pas de forme (2003), dedicato alla pittura cinese di paesaggio e alla concezione del mondo che vi si esprime [14]. Come nella lirica, così nella pittura cinese, anziché assistere ad una definizione netta di oggetti, dai contorni chiari e precisi, siamo messi di fronte ad una sorta di «dissoluzione della presenza nell’assenza»: presenza e assenza, termini per noi opposti, si rivelano correlati e coimplicati in modalità di rappresentazione che privilegiano atmosfere indecise e imprecise, vaghe e indeterminate. Per Jullien, è l’ideale assoluto della presenza (la pienezza dell’Essere, Dio) ad informare le concezioni estetiche proprie della tradizione occidentale non meno della filosofia nata in Grecia, e a tale ideale si connette, e in essa ha radice, il pathos dell’assenza. Né l’uno né l’altro, egli rileva, compaiono nelle concezioni e nelle rappresentazioni del Paese di Mezzo, che «sono al di là, o meglio al di qua, dell’estasi e del dramma». In esse, le cose sembrano simultaneamente emergere ed immergersi, apparire e scomparire a un tempo, e perfino quelle che noi diremmo le più solide, ferme, massicce entità – le montagne – vi divengono fluttuanti visioni, il cui profilo sfuma fra nebbie e nubi.
È dunque un intreccio di presenza e assenza, visibile e invisibile, manifesto e latente a costituire lo spazio della pittura, in sintonia con il paradossale linguaggio del Laozi o Daodejing (“Classico della Via e della Virtù” o, come sarebbe più appropriato tradurre, “Classico della Via e della sua Potenza”), dal quale è tratto l’enunciato che dà il titolo al libro. Secondo il celebre classico taoista, la Via (Dao) non è definibile se non in modalità apofatiche; essa sfugge ad ogni denominazione, si sottrae ad ogni determinazione, pur sottendendole tutte: è l’infinita processualità che si dispiega nella dialettica di “non esserci” (wu) ed “esserci” (you), di latente e manifesto. Il suo grembo inesauribilmente fecondo è il vuoto – invisibile fondo di immanenza da cui incessantemente promana la molteplicità visibile. La sua potenza (“virtù”, de) sta nel “non agire” (wu wei), è sovrana efficacia della spontaneità del divenire.
È tale fondo/sfondo invisibile il “non-oggetto” che la pittura cinese dipinge tramite il visibile, ed è per questo che i suoi paesaggi (anche ove si tratti soltanto di qualche roccia e di qualche stelo) non sono meramente una “veduta” parziale e limitata, ma una rappresentazione che evoca la totalità intera, nel suo intimo dinamismo e nel suo eterno fluire. Ed è tale presenza dell’invisibile nel visibile, del vuoto nel pieno, a costituirne la peculiare spiritualità – una spiritualità antitetica rispetto alla «genealogia metafisica e religiosa dell’Occidente», e dirompente rispetto allo «spiritualismo fossilizzato che, nell’alveo dell’ideologia europea, ha irrigidito e reso sterile il concetto di spirituale, sostanziandolo in modo dogmatico» [15].
Si rende percepibile qui una vena polemica che sottende e pervade l’intero cantiere del lavoro di Jullien, conferendovi quella caratteristica verve, quel particolare sapore asprigno (tutt’altro che fade) che stuzzica il palato dei suoi lettori. Si può cogliervi un intento critico nei confronti dell’ontoteologia; ma, più in generale, dichiarata finalità della sua opera è – per il tramite del confronto con il pensiero cinese – «scuotere l’atavismo che governa il pensiero dell’Occidente», rimettendo sistematicamente in causa luoghi comuni, frontiere disciplinari, concetti invalsi, istituzioni e legittimazioni, in una prospettiva che appare non dissimile dalle strategie di “decostruzione dell’appartenenza” elaborate da Jacques Derrida, e nella quale si può in certo qual senso cogliere la rielaborazione creativa di un rivisitato illuminismo. «Poter scrivere sul pensiero cinese come nel XVIII secolo» [16], ossia coniugare il rigore dell’erudizione all’interesse e al piacere della riflessione, costituisce d’altronde una dichiarata aspirazione di Jullien, che si esprime nella peculiare cifra stilistica di una prosa mirabilmente limpida, ironica e brillante.
E peraltro, quest’opera così stimolante non manca di suscitare, oltre che l’appassionato consenso di un pubblico vasto, anche vivaci discussioni. Un attacco clamoroso, e assai aspro (e forse con qualche eccesso di personalizzazione e di semplificazione) gli muove Jean-François Billeter, in un pamphlet dall’inequivoco titolo Contre François Jullien (Allia, Paris 2006) nel quale gli rivolge, in sostanza, l’accusa di accreditare «le mythe de l’alterité de la Chine».
Con la finezza e il garbo che lo contraddistinguevano, aveva da parte sua espresso qualche perplessità su taluni aspetti della proposta di Jullien, e qualche riserva su talune implicazioni della possibilità di «penser chinois en français» Paul Ricoeur [17]; e il rischio di ricondurre, in fondo, il confronto con il pensiero cinese sui binari di una opposizione dicotomica un po’ scontata fra Oriente e Occidente non sembra del tutto estraneo alla prospettiva delineata dal filosofo e sinologo francese. Ad esempio, ne Le sage est sans idée, il «vis-a-vis de la Chine et de l’Occident» viene declinato sul versante di un’antitesi paradigmatica tra Saggezza e Filosofia che finisce per costruire, per così dire, un éloge de la fadeur de la sagesse dal risultato alquanto ambivalente, e un’immagine a ben vedere forse un po’ troppo stereotipata del Saggio per antonomasia, ossia Confucio.
La contrapposizione tra “conformismo della saggezza” cinese e potenza emancipatrice della filosofia nata in Grecia, tematizzata nelle pagine conclusive del libro, è un esito piuttosto curioso per una decostruzione, poiché si tratta, in fondo, di ciò di cui l’Occidente è stato da sempre convinto, almeno a far tempo dalle hegeliane Lezioni sulla filosofia della storia [18]. E peraltro, la «difficoltà di uscire da Hegel» che qui esplicitamente viene dichiarata costituisce un problema quanto mai rilevante, e davvero non eludibile per una prospettiva filosofica che si proponga seriamente la questione del confronto interculturale, e la sua tematizzazione rappresenta dunque una quanto mai opportuna sollecitazione problematica.
Per quanto si possano muovere delle obiezioni ad alcune delle sue tesi, sono comunque sempre delle assai intelligenti provocazioni quelle che Jullien ci consegna, delle fertilissime sollecitazioni a ripensare e a ripensarsi, che sono molto feconde anche quando vi siano motivi per dissentirne, e forse anzi particolarmente in tal caso.
È nella consapevolezza di incontrare un interlocutore siffatto che chiedo a François Jullien, a Portogruaro per partecipare al convegno sull’antropogenesi promosso dal Dipartimento di Filosofia dell’Università di Padova [19], di accordarmi un colloquio sul tema della felicità di cui egli tratta nel suo Nourrir sa vie à l’écart du bonheur (2005), volume del quale è tempestivamente apparsa l’edizione italiana [20]. Con l’amabilità che sempre lo contraddistingue, egli me lo concede di buon grado, nonostante l’esiguità del tempo che lo separa dal suo ritorno a Parigi. Ma prima di addentrarci nella tematica specifica che forma l’oggetto della nostra conversazione, non posso impedirmi di chiedergli la sua opinione sul già citato Contre François Jullien di Billeter, che ha suscitato tanto clamore. Jullien si mostra sorpreso per quella che gli sembra essere la virulenza e l’acrimonia di tale attacco, ma esprime una sorta di ironica nonchalance per i contenuti teoretici del libro, che egli definisce «filosoficamente inconsistente» e nel quale semmai ravvisa il sintomo di un certo trend, «oggi purtroppo presente nel clima intellettuale francese», di una certa propensione a liquidare sbrigativamente le sollecitazioni critiche di cui si è fatta interprete la generazione di Deleuze, di Foucault, di Derrida, e nelle quali egli stesso si riconosce, riconducendovi l’orizzonte progettuale e di senso del proprio lavoro intellettuale. «Non avevo proprio alcuna intenzione di rispondere» – mi dice – «ma alcuni amici mi sollecitano a farlo, e dunque credo che lo farò». E rispetto all’accusa che gli viene mossa, di accreditare con la sua opera il mito dell’alterità della Cina, egli si limita a una breve, sintetica battuta: «L’Altrove, lo si riconosce; l’Alterità, la si costruisce…».
Il discorso si riconduce così al grande Leitmotiv del lavoro di Jullien, il confronto con il Grande Altrove che è la Cina, di cui egli continua ad esplorare le molteplici implicazioni su versanti diversi, e che ha rappresentato lo sfondo anche del suo intervento al convegno di Portogruaro. In questa giornata dedicata ai “Grandi racconti delle religioni e delle culture sulle origini”, si sono rievocate le diverse narrazioni dei monoteismi – ebraismo, cristianesimo, islam – e i complessi miti indiani e africani; il discorso di Jullien ha posto in rilievo come la tradizione cinese si connoti peculiarmente proprio per la sua manifesta – e per noi sconcertante – indifferenza al tema dell’origine, come egli sottolinea sinteticamente anche nel nostro dialogo.
«La Cina non si inquieta del problema dell’inizio, dell’origine, dell’arché, e tale sua indifferenza a questioni per noi centrali, da cui hanno preso le mosse non soltanto le domande della nostra filosofia, ma anche le narrazioni e i miti intorno all’origine, ci sconcerta profondamente. Il pensiero della vita a partire dall’energia nella tradizione cinese configura invece il continuum di una processualità che non ha inizio né fine, come ho avuto modo di mostrare, ad esempio, fin da Processo o creazione.
In questo atteggiamento convergono e convengono testi diversi della tradizione della Cina antica. Prendiamo, ad esempio i Dialoghi di Confucio: come è ben noto, vi è nettamente dichiarata l’indifferenza a un’indagine sulla physis, e il silenzio sulle origini, come ben sapete, caratterizza in modo assai significativo anche i due grandi classici del taoismo che sono il Zhuangzi e il Laozi: il problema dell’arché non vi si pone. Ciò su cui si insiste, in entrambi, è la costanza di un processo.
Non è che il pensiero cinese non abbia mai evocato o immaginato, ad esempio, l’ipotesi di un inizio. Come sapete, in qualche misura lo evoca, ad esempio, quel noto passo del Zhuangzi in cui si accenna alla questione dell’esistenza di un possibile zhaowuzhe, ossia di un creatore. È un interrogativo che si evoca, e che viene lasciato in sospeso [21].
Dunque non è che il pensiero cinese fosse incapace di porsi questioni siffatte; ne era in grado, e cionondimeno, la cosa che ci interessa, dal punto di vista ermeneutico, è che ha ritenuto tali questioni non interessanti. Per così dire, vi è passato accanto, così come è passato accanto ad altri grandi temi per noi centrali. È questa sua indifferenza quello che della Cina mi interessa, e mi intriga; è in questa sua indifferenza che possiamo percepire lo sconcertante Altrove che essa costituisce per noi: un orizzonte di linguaggio e di pensiero che ci spiazza e ci sconcerta, perché in esso non compaiono le grandi questioni che a noi appare ovvio porre. Così questo ci induce a ripensare, a riflettere criticamente e autocriticamente sulle idee e sui concetti che nel nostro orizzonte, per dir così, vanno da sé…»
Indubbiamente, su questo aspetto delle “cosmogonie assenti” nelle tradizioni cinesi antiche, in base ai texti recepti, mi sembra che non si possa che esser d’accordo con lei, e così pure per quanto concerne la sollecitazione problematica che tale significativa assenza consegna alla nostra riflessione: questo “silenzio sulle origini” è certamente per noi pregno di interrogativi da esplorare. Tuttavia, c’è non tanto un’obiezione, quanto un dato ulteriore che vorrei porre alla sua attenzione, in proposito, così come l’ho posto all’attenzione del pubblico dibattito nel corso del convegno. Come certamente sa, attualmente nel panorama delle conoscenze del pensiero antico ha fatto irruzione una gran quantità di materiali testuali finora ignoti, di età pre-imperiale (mi riferisco, ad esempio, ai cosiddetti “manoscritti di Guodian”). Si tratta sia di versioni finora ignote di testi già noti (tra cui una versione parziale del Laozi che è oggi la più antica in nostro possesso), sia di una grande abbondanza di testi finora del tutto sconosciuti, e di cui si era finora persa ogni traccia. Su queste scoperte sensazionali il lavoro esegetico è assai difficile, ed è tuttora un work in progress; tuttavia credo non sia improbabile prevedere che queste nuove scoperte avranno una portata davvero dirompente, forse analoga a quella che ha avuto per gli studi delle origini del cristianesimo la scoperta dei manoscritti di Qumran. Mi sembra particolarmente importante, fra l’altro, segnalare che fra questi inediti di straordinario interesse vi sono proprio dei testi cosmogonici di cui finora nulla si sapeva, come lo stupendo trattato intitolato tai yi sheng shui, ossia “il Grande Uno genera l’acqua” [22]. Insomma, l’interesse cosmogonico, in base a questi reperti, risulterebbe assai più presente nella Cina antica di quanto finora non si potesse immaginare. Non pensa dunque che queste scoperte potrebbero indurci, in un futuro non lontano, a ridefinire completamente e radicalmente i nostri discorsi attuali intorno alle caratteristiche generali del pensiero cinese dell’età classica?
«Non è che non mi interessino le nuove scoperte di materiali testuali come quelli di Guodian. E peraltro, la mia risposta alla sua obiezione è la seguente: le nuove scoperte non ci esonerano certo dal misurarci con le tradizioni cinesi così come esse si sono effettivamente costituite. I nuovi reperti ci possono, certo, mostrare che altre vie del pensiero si potevano percorrere; e cionondimeno, rimane in tutta la sua densità con cui ci dobbiamo confrontare, la questione che sono state certe determinate vie, e non altre, quelle che il pensiero ha preferito percorrere, e che ha effettivamente percorso la Cina classica».
Veniamo dunque alla questione della felicità. La felicità non è forse un tema universalmente umano, e universalmente condiviso, ovvio e naturale? Non è forse l’aspirazione di tutti gli umani sotto il Cielo, in tutte le epoche e a tutte le latitudini?
«In effetti, sono in molti a ritenere che la felicità sia il minimo comun denominatore dell’umanità intera, l’aspirazione alla cui realizzazione tutti gli umani, in tutte le culture, senza eccezione, tenderebbero. Ma penso che la questione stia in termini diversi, proprio in riferimento allo sfondo dell’Altrove che si è fin qui evocato, e cerco di argomentarlo in Nutrire la vita, senza aspirare alla felicità, in particolare nel IX capitolo [23]. Tento qui di riassumere la mia tesi in proposito.
In genere, si è disposti ad ammettere che la questione della verità sia una figura peculiare nella vicenda dello spirito; e analogamente, si è disposti ad ammettere che ciò che chiamiamo ragione sia connesso con una vicenda di pensiero peculiarmente europea. Ma quando si tratta della felicità, subito ci si obietta: ma come? La felicità non è forse ciò che tutti, ma proprio tutti, senza eccezione, vogliono? Certamente, ci sarà dissenso su ciò che costituisce la felicità – sul suo contenuto….»
Sì, l’idea di felicità di Aristotele, poniamo, non coincide con quella di Emma Bovary…
«Certamente, e dunque si ammette facilmente che gli uomini non sono d’accordo, non si intendono sul contenuto della felicità, e peraltro, questo nella convinzione comune non intacca il suo statuto di idea regolativa: la felicità è per definizione il fine, lo scopo a cui tutti – senza eccezione – tenderebbero.
Ebbene, a me sembra che l’idea stessa di felicità sia indissociabile da quella di “finalità”: ossia di un agire orientato verso uno scopo. È quanto ci dice chiaramente l’Etica Nicomachea, e in tale direzione – per quanto diversi siano i contenuti, come ho detto, che si danno alla felicità – in tale direzione – finalistica e teleologica – muove tutta la cultura europea, fino ai romanzi con il loro pathos, fino a Freud e oltre. È la dialettica del “tendere a”, del desiderio e dello scopo da raggiungere. E c’è tutto il dramma della tensione – di una tensione tendenzialmente infinita, e dello scacco che vi inerisce, e tutte le peripezie del tormento e dell’estasi.
A me pare che la Cina antica abbia disegnato un diverso scenario. Certamente, la Cina ha conosciuto, a partire dall’età arcaica, l’idea di una felicità o di una prosperità, di una buona sorte, di un favore ascrivibile alle divinità, al cielo o agli antenati, ma essa è di natura eminentemente materiale, e così negli auguri per l’anno nuovo si formulano auspici di ricchezza e di prole, “molto denaro, molti bambini”; in questo senso è una nozione prossima a quella che inizialmente era l’eudaimonia per i greci, nel senso di “buona sorte” concessa dagli dei. Ma sul versante greco il pensiero della felicità evolve in una nozione che non ha più a che fare con la prosperità conferita da potenze esterne per approfondirsi nell’anima, psyche, che diventa l’autentico supporto della sua esigenza. Così si dice che “l’anima è la dimora della felicità”, e non si potrà concepire per l’uomo che l’universalità di questo fine che è la felicità, e da allora in poi neppure si potrà concepire che l’uomo non possa non “tendere a”.
Ma quest’idea non è universale, bensì è legata a una sintassi particolare, come ci mostra la Cina antica, dove non vi è psyché e non vi è télos: senza “anima” e senza “scopo”, l’idea della felicità non può elevarsi a termine ideale.
La saggezza della Cina antica non è fatta tanto di “felicità”, quanto piuttosto di una disponibilità che favorisce la “viabilité”: proprio come quando dite correntemente “ça va”.
Il tao (la via) non è concepito come una via “che porta a” qualcosa (alla verità, alla felicità ecc.); gli uomini vi sono immersi: come pesci nell’acqua.
E così dunque, in assenza di tensione teleologica, in assenza di tensione verso uno scopo, l’idea di felicità non viene enfatizzata in alcun modo. La vita, sgombra di questa tensione, di questa fissazione, di questa ossessione, procede a regolarsi e a determinarsi da sé. La saggezza è assecondare i suoi processi: “nutrire la vita” (yang sheng), senza irrigidirsi nell’ossessiva direzione di uno scopo, e la serenità è questa fluida adesione al vivere, limpida, sgombra da ogni elemento che intorbidi o faccia ostruzione. Il vitale e il morale non vengono, in tale concezione, contrapposti, poiché non vi è una costruzione di fini rivolti verso un Fine ultimo. Il Saggio non corrisponde a una logica della finalità, ma a una logica della conseguenza.
Nel Zhuangzi se ne ha la chiarissima illustrazione, laddove si dice: “Senza doversi macerare lo spirito, la sua vita è elevata; senza dover trattare di morale, si perfeziona; senza dover compiere grandi gesta, fa regnare l’ordine nel mondo; senza dover vivere in riva ai fiumi o al mare, gode dell’ozio” [24]. Il Saggio raccoglie tutte le possibilità, proprio perché non tende verso alcuna; paradossalmente, egli ottiene tutto ciò a cui non mira. Proprio perché egli è capace di distacco egli consegue: poiché egli non ha di mira l’effetto, e non ricerca alcunché, l’effetto scaturisce, l’effetto viene lasciato procedere».
Vorrei poter ascoltare ancora a lungo François Jullien, ma lo attende il suo aereo per Parigi; non c’è più tempo. À la prochaine...
Resta solo qualche attimo per congedarci, e per accogliere la sua – bonariamente ironica – esortazione finale: “Soyez sage!”


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[1] A.C. GRAHAM, La ricerca del Tao. Il dibattito filosofico nella Cina classica, Neri Pozza, Vicenza 1999 (ed. or. 1989); A. CHENG, Storia del pensiero cinese, Einaudi, Torino 2000 (ed. or. 1997).
[2] T. LIPPIELLO (a cura di), Confucio. Dialoghi, Einaudi, Torino 2003; A. ANDREINI, Laozi. Genesi del Daodejing, Einaudi, Torino 2004; M. SCARPARI, La concezione della natura umana in Confucio e Mencio, Cafoscarina, Venezia 1991; ID., Xunzi e il problema del male, Cafoscarina, Venezia 1997; ID., Studi sul Mengzi, Cafoscarina, Venezia 2002.
[3]D.L. HALL – R.T. AMES, Thinking Through Confucius, State University of New York Press, Albany 1987; ID., The Democracy of the Dead. Dewey, Confucius, and the Hope for Democracy in China, Open Court, Chicago and Lasalle (Illinois) 1999.
[4] H. ROETZ, Mensch und Natur im Alten China, Peter Lang, Frankfurt am Main 1984; ID., Confucian Ethics of the Axial Age, State University of New York Press, Albany 1993. Per un sintetico quadro della critica al paradigma “orientalistico” tradizionalmente riferito alla Cina, cfr. A. CRISMA, Conflitto e armonia nel pensiero cinese dell’età classica, Unipress, Padova 2004, pp. 3-24.
[5] G.E.R. LLOYD, Ancient Worlds, Modern Reflections. Philosophical Perspectives on Greek and Chinese Science and Culture, Oxford University Press, 2004.
[6] M. SCARPARI, ‘The Master said’...or Didn’t He?, in A. RIGOPOULOS (a cura di), Guru. The Spiritual Master in Eastern and Western Traditions: Authority and Charisma, Cafoscarina, Venezia 2004, pp. 437-470; ID., Aspetti formali e tecniche di recupero dei codici manoscritti cinesi antichi, in “Litterae caelestes”, 1, 2005, pp. 105-130; ID., Tra manoscritti e tradizione: la produzione del testo scritto nella Cina antica, in G. BOCCALI e M. SCARPARI (a cura di), Scritture e codici nelle culture dell’Asia: Giappone, Cina, Tibet, India. Prospettive di Studio, Cafoscarina, Venezia 2006, pp. 183-202; A. ANDREINI, Nuove prospettive di studio del pensiero cinese antico alla luce dei codici manoscritti, in “Litterae caelestes”, 1, 2005, pp. 131-157; ID., Il destino di un codice: guasti, diffrazioni e traversie nella tradizione del Min zhi fumu, in G. BOCCALI - M. SCARPARI (a cura di), Scritture e codici nelle culture dell’Asia, cit., pp. 203-232.
[7] In tema di “universalismo contestuale”, cfr. U. BECK, Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, Carocci, Roma 2001, pp. 100-110.
[8] Cfr. P. RICOEUR, Finitudine e colpa, Il Mulino, Bologna 1970, pp. 26-28.
[9] F. JULLIEN, Processo o creazione, Pratiche, Parma 1991; ID., Figure dell’immanenza, Laterza, Bari 2004; ID., Elogio dell’insapore, Raffaello Cortina, Milano 1999; ID., Il nudo impossibile, Sossella, Roma 2004; ID., Trattato dell’efficacia, Einaudi, Torino 1998; ID., Il saggio è senza idee, Einaudi, Torino 2002; ID., Fonder la morale, Grasset, Paris 1995; ID., Il tempo. Elementi di una filosofia del vivere, Sossella, Roma 2002.
[10] F. JULLIEN – T. MARCHAISSE, Penser d’un dehors (la Chine). Entretiens d’Extrême-Occident, Seuil, Paris 2000, p. 6.
[11] M. GRANET, Il pensiero cinese, Adelphi, Milano 1971.
[12] F. JULLIEN – T. MARCHAISSE, Penser d’un dehors, cit., pp. 9-25, 183-195, 365.
[13] F. JULLIEN, Strategie del senso in Cina e in Grecia, Meltemi, Roma 2004.
[14] ID., La grande immagine non ha forma, Angelo Colla, Vicenza 2004.
[15] Ivi, p. 113.
[16] ID., Processo o creazione, cit., p. 9.
[17] P. RICOEUR, Note sur Du temps. Éléments d’une philosophie du vivre, in T. MARCHAISSE (a cura di), Dépayser la pensée. Dialogues hètèrotopiques avec François Jullien sur son usage philosophique de la Chine, Les Empêcheurs de penser en ronde/Le Seuil, Paris 2003, pp. 211-223.
[18] Cfr. A. CRISMA, Recensione a F. Jullien, Il saggio è senza idee, in “Asiatica Venetiana”, 6/7, 2001/2002, pp. 293-297.
[19] Antropogenesi. Ricerche sull’origine e lo sviluppo del fenomeno umano, primo seminario, “Dall’energia alla vita”, Polo interuniversitario di Portogruaro, 19-21 ottobre 2006.
[20] F. JULLIEN, Nutrire la vita. Senza aspirare alla felicità, Raffaello Cortina, Milano 2006.
[21] Riporto qui, nella traduzione di A. CHENG, Storia del pensiero cinese, vol. I, p. 130, il passo del Zhuangzi, 14, a cui si fa riferimento in questo luogo: «Il Cielo gira? La Terra è ferma? Il sole e la luna si disputano il loro posto? Chi preside a tutto ciò? Chi lo coordina? Chi, senza far nulla, vi conferisce impulso e moto?»
[22] Cfr. A. ANDREINI, Nuove prospettive di studio del pensiero cinese antico alla luce dei codici manoscritti, in “Litterae caelestes”, 1, 2005, pp. 131-157; M. SCARPARI, Tra manoscritti e tradizione: la produzione del testo nella Cina antica, cit., pp. 183-202.
[23] Cfr. F. JULLIEN, Nutrire la vita, cit., pp. 113-134.
[24] Ivi, p. 127.
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