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L’indifferenza cristiana.
Un commento al libro di Enzo Bianchi, La differenza cristiana.

Ambrogio Santambrogio

Esiste una differenza cristiana? Non si può che rispondere positivamente. In un’epoca in cui si afferma sempre più la retorica della differenza – e del rispetto delle differenze e dell’altro, quest’ultimo quasi sempre scritto con la “A” maiuscola –, non si vede perché negare proprio al cristianesimo la sua differenza. Il cristianesimo è differente. Allo stesso modo di come sono differenti l’ebraismo, il buddismo, il comunismo, l’ateismo, ecc., nell’infinita danza delle differenze e delle culture. Non è però questo il punto. Nessuno scriverebbe un libro – un libro bello, appassionato, sincero e profondo come quello di Bianchi – semplicemente per sostenere questa piccola e banale cosa. L’ipotesi del libro è in effetti più ardita e complessa. Non si vuole solo sostenere che il cristianesimo è differenza – tra le differenze –, ma che il cristianesimo fa differenza. Il piano dell’analisi non è meramente descrittivo – esistono differenze e il cristianesimo è una di queste –, bensì normativo: il cristianesimo – se preso al suo meglio – è una differenza che fa la differenza rispetto ad altre differenze. Ha – se così si può dire – uno scarto in più, una ricchezza, un potenziale che altre non hanno. E vuole mettere in campo questo potenziale. Se questa è la prospettiva, bisogna allora mettere in luce in cosa consista il cristianesimo al suo meglio, quando lo è e quando non lo è.
Iniziamo col vedere quando il cristianesimo non è al suo meglio, quando non è in grado di fare differenza. Secondo Bianchi, innanzi tutto quando è al servizio del sovrano, quando diventa – o vuole diventare – religione civile. In effetti, dice Bianchi, «sta emergendo un cristianesimo finora inedito (lo si può forse definire post-cristiano), che non ha più come fondamento e ispirazione la parola di Dio contenuta nelle Scritture […] capace di fornire un’anima alla società […]. In quest’ottica, pare che l’unico interesse sia che la Chiesa rappresenti un elemento centrale della vita della società, e poco importa se questo significa che il Vangelo perda il suo primato, che non ci sia più possibilità di profezia, che finiscano per prevalere logiche di potere» (pp. 24-25). Tra l’altro, questa prospettiva sembra trovare sostenitori inaspettati e interessati, «che si dicono atei, non credenti in Dio […] ma che oggi si presentano come nuovi alleati, capaci di convergere con visioni cattoliche in materia di etica, provvidenziali difensori dei valori e delle tradizioni cristiane» (pp. 27-28). Personaggi di cui, sembra dire Bianchi, sarebbe molto meglio fare a meno. In questa prima direzione, il cristianesimo diventa anch’esso vittima della logica del riconoscimento e, dentro la lotta per il riconoscimento che divide e contrappone tra di loro le varie differenze, mira ad imporre, per lo meno all’interno di una determinata civiltà – quella cristiana appunto –, la proprio priorità sulle altre. La Chiesa viene così costretta a far propria la «logica della lobby, del gruppo di pressione», con il rischio grave, tra l’altro, di riaccendere il contrasto tra clericali e anti-clericali. In questo modo, il cristianesimo è differenza, ma non fa differenza. E non la fa perché è completamente secolarizzato, perché è sopraffatto dall’ossessione del riconoscimento, perché perde la sua carica profetica: non è più libero «di rispondere in ultima istanza solo al Vangelo […], di assumere posizioni coraggiose o proferire parole profetiche, anche se scomode per l’ordine regnante» (pp. 45-46). Secondo me, questo tipo di critica può essere rivolta, per fare solo un esempio, al costituzionalista americano J. Wailer e ai suoi tifosi italiani, penso soprattutto a Comunione e liberazione, che mettono al centro dell’azione cristiana la prospettiva di uno spazio pubblico nel quale il cristiano deve avere il suo riconoscimento e lotta per averlo.
In secondo luogo, non è al suo meglio quando – a volte in stretta connessione con il primo pericolo – il cristianesimo nega «la possibilità di un’etica a chi non è credente in Dio» (p. 23), riservandosi così l’esclusività della capacità di distinguere il bene dal male. Qui si mira, tra l’altro, a sposare una certa visione della modernità, estremamente semplice e riduttiva: il mondo moderno è solo consumismo e relativismo, frammentazione e sfascio morale, ed è incapace di darsi da sé una direzione che non sia semplicemente utilitaristica e individualistica. Così facendo, il cristianesimo diventa una differenza che fa troppa differenza, sembra suggerire Bianchi: si arroga il possesso della verità, di una verità che non ha ulteriore bisogno di essere – da soli o assieme ad altri – approfondita o ricercata, ma viene semplicemente posseduta e annunciata. Gli altri – siano essi dentro o fuori la modernità – sono oggetto di un’evangelizzazione dall’alto e il pericolo dell’integralismo è dietro la porta.
Ricapitolando: il cristianesimo non deve porsi come prioritario l’obiettivo di fornire «un’anima alla società», perché sarebbe un cristianesimo politicizzato, che dimentica la fede; inoltre, non deve pensare di essere il solo a possedere un’anima, perché sarebbe, a sua volta, un cristianesimo incapace di riconoscere gli altri.
Quali sono allora le condizioni perché il cristianesimo mostri il suo vero e più autentico volto? Come evitare entrambi i pericoli? In primo luogo, bisogna mettere in luce come i due pericoli sopra esposti abbiano al centro un rapporto sbagliato tra la dimensione profetica e squisitamente religiosa e quella culturale e morale. Nel primo caso, si dimentica la prima e si sottolinea l’esclusività o quasi della seconda: insistere sul fatto che la fede non può essere un fatto privato porta a dimenticare la fede, a fare della propria presenza di cristiani nel mondo una questione di mero riconoscimento, che può portare anche a forme di integralismo. Nel secondo, si pensa che la prima dia l’esclusività sulla seconda, cancellando – anche se in un modo diverso – lo scarto che si dà tra religione e morale.
Il primo passo, quindi, per uscire da entrambi gli errori è partire dal sottolineare che la religione non è (solo) una morale e, di conseguenza, che la morale può anche non essere religiosa. Si tratta così di liberare il cristiano dall’ossessione del riconoscimento – del potere – e, allo stesso tempo, di riconoscere l’autonomia della sfera pubblica. Questa doppia liberazione – che produce allo stesso tempo un privato cristiano e un pubblico non cristiano – è il frutto migliore del processo di secolarizzazione che ha caratterizzato la storia dell’Occidente, in particolare europeo. Si tratta di rompere nettamente lo stretto legame – tipico anche dell’ebraismo – tra religione e comunità: il messaggio cristiano ha una portata rivoluzionaria anche – ovviamente, non solo – perché separa i due aspetti. Se l’ebraismo è la religione degli ebrei, il cristianesimo, al contrario, è una religione per tutti e per nessuno. Legare in maniera troppo stretta l’essere cristiani ad una determinata esperienza storico-sociale, farne ad esempio la religione civile europea, sarebbe un modo di tradire questa portata rivoluzionaria.
Detto questo, il primo elemento perché il cristiano possa fare la differenza sul piano morale – non religioso, naturalmente, se non si vuole tornare alle guerre di religione – è la possibilità che la sua esperienza di cristiano non venga confinata nel culto privato. L’essere cristiani non può essere solo un fatto privato. Anche se deve continuare ad essere anche un fatto privato, per non cancellare quella doppia liberazione di cui sopra si parlava. Non a caso, Bianchi è «convinto che l’unica possibilità che i cristiani hanno sia di mostrare loro [cioè agli indifferenti] la ‘differenza cristiana’ con la vita, il comportamento, la forma di appartenenza alla polis» (p. 34). Ma qui appare la distanza con quanto detto sopra, con il cristianesimo che lotta per il riconoscimento. Secondo Bianchi, il cristianesimo al suo meglio non ha «certezze o ricette: il Vangelo non fornisce formule magiche in base alle quali indicare la via che conduce infallibilmente alla realizzazione degli obiettivi di una polis» (p. 46). Il rapporto tra fede e prassi è aperto alla responsabilità storica degli attori, anche se sono cristiani. Questo «relativismo cristiano», come lo chiama Bianchi, è fondato sull’escatologia propria della Chiesa, sull’idea che la perfezione non è di questo mondo, che la città degli uomini è sempre contingente, imperfetta: il Regno dei Cieli non si fa qui e ora. Perciò il cristiano esce dal suo privato – dall’esperienza privata della sua fede – con un atteggiamento di apertura e dialogo, non con ricette pronte da imporre.
Una seconda caratteristica del cristianesimo al suo meglio è il costante richiamo alla dimensione profetica del Vangelo, non obnubilata da obiettivi di potere. Questo richiamo libera le potenzialità del messaggio cristiano: quanto più esso viene svincolato dall’abbraccio con le dinamiche del potere, tanto più si rende possibile una «testimonianza ispirata a dolcezza e mitezza, ma capace di fermezza e rigore» (p. 49), capace di dispiegare le sue potenzialità di critica sociale contro le ingiustizie.
In terzo luogo, la Chiesa mantiene un corretto rapporto con il mondo se evita di entrare nel dettaglio delle soluzioni tecniche, se evita di fare politica: come scrive efficacemente Bianchi, se dal punto di vista democratico i Vescovi sono cittadini come tutti gli altri e potrebbero perciò fare politica, dal punto di vista religioso – di un essere cristiani al proprio meglio – devono evitare di fare della Chiesa una semplice comunità accanto alle altre, che lotta per il suo riconoscimento: «un’autentica deontologia pastorale chiede loro di fermarsi sul terreno delle indicazioni profetiche, senza spingersi a suggerire o, peggio, a esigere soluzioni tecniche, sia economiche che politiche» (p. 72). La Chiesa interviene – deve intervenire – senza però la pretesa di fornire un’etica pubblica o risposte preconfezionate a problemi ai quali solo attraverso il pubblico dibattito si possono dare soluzioni condivise.
Infine, e forse questo è il punto decisivo, «fin dalle sue origini il cristianesimo è plurale: l’unico Dio narrato da Gesù Cristo può essere ridetto al mondo solo in una pluralità di espressioni» (pp. 87-88). Questa pluralità essenziale deve poter dare i suoi frutti nell’apertura al dialogo, sia dentro la Chiesa che tra la Chiesa e il mondo. Una Chiesa nella quale l’aspetto gerarchico e dottrinario finisse con il prevalere sarebbe l’anticamera di due pericoli assolutamente da evitare: il fondamentalismo – il fatto cioè di credere di possedere il fondamento definitivo – e l’integralismo – il fatto di difendere la propria integrità attraverso il rifiuto del dialogo con gli altri. Per Bianchi, si tratta di due pericoli che minano l’essenza della differenza cristiana, intesa come parte del «grande movimento della ricerca della verità, dell’approssimazione alla verità» (p. 92). Solo un cristianesimo inteso come ricerca – una ricerca non vana, perché “garantita” dalla rivelazione di Cristo – porta i cristiani a segnare la propria differenza, a far «sì che essi possano inoculare diastasi salutari nei dinamismo della vita sociale, attestando la relatività di ciò che può essere ritenuto assoluto e affermando sempre il primato della relazione e della persona» (p. 46).
Riassumendo: il cristianesimo fa la differenza perché la sua escatologia lo predispone ad un relativismo cristiano attivo, capace di evitare i due pericoli dell’abbraccio con la politica e della fuga nel privato. In questo modo, la fede può tornare ad essere eloquente, a fare scandalo: a ricordare che la Verità non è di questo mondo.
Uno dei principali pregi del libro di Bianchi è perciò quello di rifiutare il dominio di un multiculturalismo per cui tutte le differenze sono eguali, devono essere egualmente riconosciute e non si può dire nulla di più. Se così fosse, se davvero tutte le culture, le religioni, le ideologie fossero egualmente meritevoli di un eguale riconoscimento che solleva dall’impegno critico e faticoso del giudizio, allora il confronto tra le culture diverrebbe apatia, disimpegno, «indifferentismo», per usare un termine dello stesso Bianchi. Il riconoscimento sarebbe un vuoto lasciapassare che non costruisce nulla di comune. In una situazione del genere, finirebbe con l’avere la meglio la mera forza: senza dialogo vero, che passa anche per il confronto e a volte lo scontro dialettico, il più forte tra gli egualmente diversi avrebbe la meglio. Perciò il cristianesimo deve poter rivendicare la propria differenza, non solo nel banale senso di essere diverso, ma in quello più profondo di avere la ‘presunzione’ di fare differenza, di avere una propria provocatorietà che non può essere disinnescata. Lo abbiamo visto, questa differenza riposa essenzialmente nella sua capacità di essere occasione di ‘scandalo’ o, per usare un termine più laico, di essere capace di critica sociale, in grado cioè di smascherare tutte le posizioni che si arrogano il monopolio del sapere e del potere.
Il cristianesimo che fa differenza non è perciò solo un sistema culturale, ma una religione, nel senso più profondo; non una morale, ma una fede. E, nella sua differenza, predispone ad un atteggiamento morale aperto e non intollerante. Possiamo allora concludere che la differenza cristiana è la sua capacità di entrare in dialogo diretto con gli altri, di essere indifferente alle differenze. Un’indifferenza non cieca, che non si applica naturalmente alle diversità che negano la dignità umana. Un’indifferenza però che coglie, al di là delle differenze, quell’universale umano che permette di vedere al di là delle differenze. Nel diverso, il cristiano vede la «sua umanità a noi comune» (p. 100). Non si limita alla tolleranza: quest’ultima può essere espressione di superiorità. Si può essere tolleranti, infatti, anche per convenienza, oppure perché non ci sono alternative. Inoltre, è più facile essere tolleranti quando esiste un chiaro rapporto di gerarchia tra i ruoli, le culture e gli individui. La tolleranza può cioè essere espressione di una superiorità che non si intende mettere in discussione. Tollerare, ancora, è l’atteggiamento che a volte si assume di fronte a qualcosa o a qualcuno che appare come fastidioso, incomprensibile o noioso e che non si può evitare. In tutti questi vari casi, proprio attraverso la tolleranza, si mira spesso a mantenere un rapporto di sostanziale incomprensione, di lontananza o, addirittura, di superiorità. La tolleranza quindi non sempre significa accettazione e, d’altro canto, dove c’è accettazione vera e profonda la tolleranza svanisce, non è più necessaria. L’indifferenza che si ottiene con la piena accettazione della diversità trasforma quest’ultima in una opzione tra le altre, per la quale non occorrono più partigiani schierati a favore o contro, che non accende più gli animi: in una parola, che non divide. Che non si nota neppure: non vedo più, per fare un banale esempio, nell’omosessuale che abita sullo stesso pianerottolo, un ‘omosessuale’, ma il mio vicino come persona. Questa indifferenza mi sembra essere implicita alla differenza cristiana sostenuta da Bianchi. Questa indifferenza – e questa differenza – sono allora l’espressione più toccante e vera del profondo umanesimo cristiano sostenuto da Bianchi.
Vorrei però mettere ora alla prova il cristianesimo di Bianchi con un problema specifico e particolare, per vedere appunto quali possano essere le sue possibili ricadute concrete. Il tema che scelgo – ce ne potrebbero essere ovviamente molti altri – è quello delle radici cristiane dell’Europa. A questo proposito, Bianchi scrive: «non mi pare rispettosa della laicità la pretesa di una menzione del nome di Dio nella Costituzione europea – richiesta che infatti le Chiese non hanno avanzato –, ma è laicismo impedire la menzione delle radici cristiane dell’Europa: queste appartengono alla verità storica che deve far parte della memoria di una società» (pp. 13-14).
Giustamente, Bianchi mette in campo la distinzione tra laicismo e laicità. Però, per chiarire bene il problema delle radici cristiane dell’Europa, occorre in primo luogo distinguere tra dimensione storica e identitaria. I due aspetti sono naturalmente legati, ma non possono essere sovrapposti. Se si trattasse di una mera questione storica, nessuno potrebbe mai ragionevolmente negare le profonde radici cristiane dell’Europa. Si tratta, ovviamente, di radici storiche accanto ad altre. Sul piano storico, si può discutere della rilevanza di queste radici, e anche giungere alla conclusione – che credo in ogni caso opinabile – che quelle cristiane siano le più profonde. Ma si tratta sempre di un piano, insisto, storico, dal quale non si passa immediatamente a quello identitario. Altra cosa, e del tutto diversa, è sostenere che l’Europa ha un’identità cristiana fondata sulla sua storia.
Voglio fare un esempio diverso, per chiarire bene la questione. Il cosiddetto revisionismo storico ha messo in discussione la centralità della Resistenza – e la legittimità del 25 aprile come festa nazionale – per l’identità italiana. L’ha fatto in diversi modi, provando anche a mostrare sul piano storico che la Resistenza non è stata quello che la vulgata resistenziale acriticamente propone. Il punto è che quando la storia diventa identità viene inesorabilmente tradita: l’identità ha bisogno di una retorica, di una mitizzazione, di una ritualizzazione che mal si conciliano con la verità storica. Ogni costruzione identitaria implica una lettura parziale – nel duplice senso di non completa e non oggettiva, di parte – della storia. Ecco perché l’identità può anche basarsi su una vera e propria falsità storica: basti pensare, per fare un esempio eclatante, al mito fascista dell’impero romano. Per tornare alla Resistenza, dimostrare, ad esempio, che i partigiani veri furono assai pochi, e in ogni caso molto meno di quanto ci si aspetta, può essere del tutto irrilevante per la dimensione identitaria. E, soprattutto, può essere irrilevante rispetto alla dimensione normativa che l’identità comporta: potrebbe essere giusto che la Resistenza continui ad essere la base identitaria della Repubblica italiana anche se la ricerca storica dimostra che non è stata ciò che si vorrebbe fosse stata. Nel passaggio dalla storia all’identità, entrano in gioco dinamiche che la storia non riesce a controllare: questo è il punto. Non so se ciò sia giusto o sbagliato, ma è difficile sostenere che non sia vero.
Perciò, un conto è sostenere che l’Europa ha radici cristiane; altra cosa, e del tutto diversa, è sostenere che abbia un’identità cristiana, o anche solo auspicare che l’abbia. Per essere chiaro fino in fondo, l’impressione che buona parte del mondo cattolico abbia nascosto il problema identitario dietro quello storico mi sembra più che fondata. Per sostenere questa impressione, voglio portare solo alcuni esempi di questa sovrapposizione. In un discorso al vescovo di Rottenburg-Stuttgart del 17 giugno 2004, Giovanni Paolo II – forse il più autorevole sostenitore delle radici cristiane dell’Europa – dice: «l’Europa, nonostante la sua molteplicità culturale, deve divenire sempre più, sulla base dei valori umani e cristiani, un’unità spirituale, che ispiri le azioni degli uomini. Utilizziamo dunque le possibilità che l’Europa unita ci offre per una diffusione migliore del Vangelo di Cristo» (“L’Osservatore Romano”, 17/6/2004, p. 6, corsivi miei). In un articolo di fondo, sempre su “L’Osservatore Romano” del 27/6/2004, Danilo Veneruso scrive che il «processo di secolarizzazione, dialetticamente giunto ora alla sua ultima e più compiuta fase, si trova all’origine prima dell’indebolimento e poi della disgregazione di quella cristianità che […] non solo era stato il fattore della consapevolezza dell’identità europea rispetto ad altri contesti, ma aveva anche cercato di trasformare in unità questa consapevolezza […]. Questo indebolimento e questa disgregazione […] hanno perciò provocato la ricerca di soluzioni secolarizzanti e secolarizzate, che hanno dato spazio alla dimensione puramente politica degli Stati moderni e contemporanei, progressivamente schierati in una situazione priva di ogni contesto prepolitico di legittimazione […]. La cultura secolarizzante e secolarizzata dell’oggi, quale sinonimo da una parte del monismo non importa se panteistico o materialistico e dall’altra della globalizzazione economicistica, è perciò indotta dalla sua logica a disfarsi della memoria di quell’impianto ebraico-cristiano che ricorda il rapporto fondamentale, all’origine di tutti i rapporti, tra Creatore e creato». In questa direzione, sempre con le parole di Giovanni Paolo II, «non ci sarà l’unità dell’Europa fino a quando essa non si fonderà sull’unità dello Spirito» (“L’Osservatore romano”, 31/10/2004). Ecco, infine, alcuni passaggi tratti dall’esortazione papale Ecclesia in Europa: «non meravigliano più di tanto i tentativi di dare un volto all’Europa escludendone l’eredità religiosa e, in particolare, la profonda anima cristiana, fondando i diritti dei popoli che la compongono senza innestarli nel tronco irrorato dalla linfa vitale del cristianesimo» (p. 13); «si tratta di porre in atto un’articolata azione culturale e missionaria, mostrando con azioni e argomentazioni convincenti come la nuova Europa abbia bisogno di ritrovare le proprie radici ultime» (p. 30, corsivi miei); «occorre ricordare lo spirito della Grecia antica e della romanità, gli apporti dei popoli celtici, germanici, slavi, ungro-finnici, della cultura ebraica e del mondo islamico. Tuttavia si deve riconoscere che queste ispirazioni hanno storicamente trovato nella tradizione giudaico-cristiana una forza capace di armonizzarle, di consolidarle e di promuoverle» (p. 27), così che «la storia del Continente europeo è contraddistinta dall’influsso vivificante del Vangelo» (p. 113, corsivi miei). Lo scritto papale si chiude con il vibrante appello rivolto all’Europa del terzo millennio: «Ritorna te stessa. Sii te stessa. Riscopri le tue origini. Ravviva le tue radici» (p. 126). Mi si perdonino le lunghe e forse eccessive citazioni. Il messaggio di fondo è chiaro, e può essere sintetizzato con l’affermazione di Giovanni Paolo II secondo cui «l’Europa o è cristiana o non è Europa» (“L’Osservatore Romano”, 7/9/2003).
Questo significa sostenere che solo il cristianesimo è in grado di fornire valori che possano fondare il senso di un’appartenenza e di un destino comune. Si tratta di un problema di identità, non di un mero riconoscimento di radici storiche. Poiché, come spero di aver argomentato, dalle seconde non si può passare direttamente alla prima, è evidente che la questione dell’identità viene posta in una direzione in cui il cristianesimo sembra poter essere l’unica religione civile disponibile, in grado di trasformare una pluralità disomogenea di Stati in un’unità con valori comuni. E la questione delle radici storiche viene usata a sostegno di altro. Su questo importante punto, il libro di Bianchi è ambiguo, e non chiarisce bene se l’autore è favorevole o contrario al progetto identitario che ho provato a descrivere.
Perciò la distinzione – per altro giustissima – tra laicismo e laicità non vale per quanto riguarda le radici storiche europee. La laicità europea – non il laicismo – non può accettare che dietro le innegabili radici storiche cristiane dell’Europa si nasconda un progetto identitario. Verrebbero gravemente messe a rischio le due liberazioni di cui sopra, l’autonomia privata del cristiano e l’autonomia laica del pubblico. Su questo punto, il mondo cattolico deve essere chiaro fino in fondo: insisto, nessuno può negare le radici cristiane dell’Europa; ma l’identità europea deve essere una identità laica, proprio per i motivi indicati da Bianchi, quando sostiene che il cristianesimo non può essere una religione civile. «L’Europa o è laica o non è Europa»: questa è la vera sfida cui cattolici e laici sono davanti (insieme a tutti coloro che non sono né cattolici né laici).
Più in generale, e concludendo: Bianchi stigmatizza il fatto che «nel nostro Paese sembra ormai essere diventata una realtà la temuta sfida tra cattolici e laici, una sfida nutrita di spirito di inimicizia, sicché per molti aspetti quello scontro di civiltà che si cerca di scongiurare a livello planetario pare invece consumarsi all’interno stesso delle culture occidentali» (p. 3). Per scongiurare questa prospettiva, occorre una autocritica laica – non semplice da fare e non scontata, le resistenze sono tante – della laicità: essa degenera in laicismo se pensa alle religioni come rinchiuse nel privato e svuotate di ogni importanza pubblica. Se ha una concezione troppo semplice e unilaterale della secolarizzazione. Occorre, d’altro canto, che il mondo cristiano sviluppi sempre più quella apertura verso l’interno e verso l’esterno – quell’indifferenza – proposta da Bianchi in questo suo bel libro: un futuro migliore dipende, come Bianchi sa bene, dall’azione di tutti gli uomini di buona volontà. Un’azione guidata dalla consapevolezza che, come egli dice nel suo libro, «la verità eccede sempre i credenti» (p. 24), di tutte le fedi, vorrei aggiungere, siano esse religiose o laiche.


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