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Identità culturali e religiose

Francesco Viola

La decomposizione in atto delle identità nazionali ha, tra l’altro, prodotto un progressivo allontanamento fra il fattore religioso e quello culturale dell’identificazione personale e collettiva. Di conseguenza, non solo il rapporto fra le identità culturali e quelle religiose è divenuto di difficile interpretazione e composizione, ma, ancora più a monte, la problematica stessa dell’identità ha perso la sua originaria unitarietà ed è sostituita da quella del conflitto tra le identità all’interno dello stesso gruppo di persone e della stessa persona.
La complessità del problema ha inizio sin dal fatto stesso della richiesta di riconoscimento di un’identità. Si può dire in generale con Taylor che l’identità ci è necessaria per orientarci nello spazio morale del bene e del male, del senso e del nonsenso, ma ciò è ancora troppo impreciso e vago. Noi ci dobbiamo chiedere cosa in effetti essa significhi, di cosa in effetti si richiede il riconoscimento da parte di una dimensione pubblica, come ad esempio da parte di una comunità politica. L’indeterminatezza non riguarda soltanto i soggetti che chiedono il riconoscimento, ma anche coloro a cui lo si chiede. La crisi dello Stato implica necessariamente un indebolimento della portata significativa del riconoscimento statale e, spesso, anche di quello pubblico nella misura in cui s’è prodotta un’identificazione tra la dimensione pubblica e quella statale. Sono, pertanto, necessarie alcune chiarificazioni concettuali che aiutino ad orientarsi in questa intricata problematica senza con ciò certamente neppure sperare di sciogliere tutti i nodi teorici, che tra l’altro a loro volta sono ben poca cosa rispetto a quelli pratici e operativi.
Penso che sia opportuno distinguere due tipi di riconoscimento, quello che direttamente si rivolge ai valori, cioè a certi contenuti di apprezzamento, e quello che direttamente si rivolge alle persone a prescindere dall’apprezzamento dei valori che esse propugnano [1]. C’è un riconoscimento che consiste nell’apprezzare certi stili di vita o certe concezioni etiche come significative per tutta la comunità politica, e quindi anche per coloro che non le condividono o le praticano, e c’è un riconoscimento volto alla libertà di scelta delle persone indipendentemente dal contenuto di questa scelta e dalla sua rilevanza per gli altri.
Questi due tipi di riconoscimento hanno un certo effetto sulla tutela giuridica. Infatti, mentre il primo tipo implica diritti positivi di partecipazione, il secondo implica principalmente diritti negativi di non interferenza. Se qualcosa è riconosciuto come significativo per la pratica dei princìpi e dei valori di una comunità politica, allora coloro che s’identificano in esso pretendono a ragione di partecipare allo stesso titolo degli altri al processo di deliberazione pubblica. Quelli, invece, che chiedono soltanto il riconoscimento della propria libertà personale di scelta, si accontentano di non essere considerati come reprobi e di non essere ostacolati nella pratica delle loro scelte personali.
È chiaro che il primo tipo di riconoscimento, quello diretto ai valori e alle persone in quanto legate a certi valori, è più pieno e più soddisfacente per esse, nonché più oneroso ed impegnativo per la comunità. Nelle società liberali contemporanee le pressanti richieste di riconoscimento sono spesso motivate dall’incertezza nei confronti delle scelte personali, cosicché c’è bisogno di una rassicurazione che provenga dagli altri. Anche se si è incerti sulle scelte, cionondimeno la richiesta di riconoscimento è perentoria.
Nella sua ispirazione originaria il liberalismo tende ad enfatizzare la personale libertà di scelta, qualunque essa sia, con il solo limite del principio del danno. Ma le sempre crescenti richieste di un riconoscimento legato al contenuto delle scelte mostrano l’insufficienza etico-politica di quest’orientamento del liberalismo classico. Lo vediamo chiaramente a proposito della questione del matrimonio degli omosessuali. Non ci si accontenta di avere riconosciuto la piena libertà di questa scelta, ma si vuole un riconoscimento che coinvolga la concezione della famiglia propria di tutta la comunità politica. Posto in questi termini, bisogna constatare che le richieste identitarie mettono in crisi la neutralità politica del liberalismo e rivelano che è dura a morire l’esigenza di una certa qual corrispondenza o dialogo tra i piani di vita personali e i valori comuni.
Se ora guardiamo più direttamente le identità culturali e religiose alla luce dei due tipi di riconoscimento, possiamo dedurre che attraverso queste particolari richieste, cioè quelle di diritti legati alla pratica di una determinata forma di vita o di diritti legati all’esercizio di un culto religioso, si chiede nella sostanza, secondo il liberalismo, il riconoscimento dell’identità personale, di cui la componente culturale e religiosa sono parti fondamentali, o, secondo il comunitarismo, il riconoscimento di un’identità comunitaria o di gruppo in cui l’io è situato e da cui dipende la propria identificazione personale. Il liberalismo e il comunitarismo offrono due approcci ben diversi alla problematica delle identità culturali e religiose. Per il primo queste hanno un carattere “secondario”, cioè sono componenti dell’identità personale, che è il risultato originale e unico dell’impegno in pratiche di vita diversificate mediante cui ognuno dà forma alla propria esistenza. Per il secondo, il comunitarismo, le identità culturali e religiose hanno un carattere primario e condizionante l’identità personale. In più, ciò conduce anche ad una divergenza sul modo di considerare i rapporti tra l’elemento culturale e quello religioso: secondo il liberalismo questi due fattori non sono necessariamente collegati strettamente fra loro, mentre secondo il comunitarismo il fatto culturale ha tendenzialmente un carattere onnicomprensivo e, quindi, anche religioso.
Non è qui il momento e il luogo per affrontare il problema del rapporto tra religione e cultura, anche se di questo proprio si tratta. Certamente la religione è un fatto culturale, ma – a differenza degli altri fatti culturali – può sporgere al di là dell’ambito di estensione di una determinata cultura e comunicarsi ad altre culture, può cioè assumere una dimensione transculturale, com’è proprio delle religioni universali. Per questo identità culturale e identità religiosa non coincidono necessariamente e proprio per questo richiedono un trattamento differenziato. Direi che il loro rapporto è asimmetrico: culture differenti sotto tanti aspetti possono essere animate dalla stessa religione, mentre è difficile ipotizzare che religioni differenti sotto tanti aspetti possano animare allo stesso modo una stessa cultura (anche se forse almeno quella indiana è un esempio di una cultura in certo qual modo unitaria anche se plurireligiosa).
Nell’universo pluralistico delle richieste d’identità si può forse stabilire una linea divisoria o uno spartiacque indicativo basato sulla volontarietà. Vi sono identità involontarie e identità volontarie. Le identità legate alla biologia (ad es., le identità di genere) e alla cultura (a volte più forte del richiamo biologico), intesa come ambiente di vita in cui siamo nati e cresciuti, sono involontarie nel senso che non sono state scelte deliberatamente, anche se abbiamo un certo margine di libertà riguardo all’importanza che conferiamo a questi fattori già precostituiti dell’identità personale. Invece, si presume che le scelte guidate dall’autonomia morale siano volontarie a tutti gli effetti. Vi sono, dunque, identità precostituite e identità costruite, identità vincolate e identità libere. Ma non si deve credere di aver raggiunto una distinzione ben netta: basti pensare alle interferenze tra le identità culturali, che assumo come precostituite, e quelle etiche, che assumo come costruite dalle proprie scelte di vita. Una cultura porta sempre con sé un ethos, cioè giudizi impliciti ed espliciti di apprezzamento. Mentre è inevitabile per ognuno di noi nascere e vivere in un determinato ambiente culturale, non è detto che si raggiunga quell’agognata libertà di scelta nei confronti dei valori morali. Non scegliamo mai da posizioni di assoluta neutralità culturale, tanto che l’ideale liberale dell’uomo artefice della propria esistenza e del suo destino suona non di rado come una retorica illusoria. È vero, tuttavia, che la nostra identità è composta da fattori che non dipendono da noi e fattori che derivano dalle nostre scelte.
Ed allora c’è da chiedersi come si collochi l’identità religiosa tra l’involontarietà e la volontarietà e se, da questo punto di vista, si differenzi dalla problematica dell’identità culturale. Nella misura in cui la religione è un fatto culturale, allora essa dovrebbe essere trattata allo stesso modo degli altri fatti culturali, come il linguaggio, i costumi, le pratiche di vita. Ma, se il discorso dovesse chiudersi qui, allora non vi sarebbe alcuna differenza tra religione e cultura. Non di rado si pensa che sia proprio così. Sempre vi sono stati non credenti e tuttavia difensori della religione dei propri avi o della propria terra. Oggi si chiamano gli “atei (o non credenti) devoti” (belonging without believing). Essi si fanno sempre più numerosi quanto più una religione, che è l’anima di una cultura, perde la capacità attrattiva propriamente religiosa ed allora anche la cultura da essa animata è in pericolo e questo produce lo scontro delle civiltà, che ha spesso solo apparentemente una motivazione religiosa. Atei devoti e fondamentalisti difendono nella sostanza l’esistenza o la superiorità di una cultura piuttosto che di una religione o di una cultura attraverso la difesa di una religione.
Mi rendo conto che questo discorso è scivoloso, perché le religioni sono molto diverse fra loro, spesso proprio per i loro rapporti con le culture. Alcune in effetti sono tutt’uno con le culture, mentre altre se ne distanziano. Allora si dovrebbe dire che la distinzione tra identità culturale e religiosa ha senso solo per i casi in cui è possibile differenziare in qualche modo significativo religione e cultura, cioè dottrine e forme di vita rivolte al senso ultimo della realtà e della vita umana in particolare e dottrine e forme di vita rivolte allo sviluppo delle condizioni materiali e morali di vita. Le prime spesso funzionano come giustificazione e fondamento delle seconde, contribuendo a rafforzarle e a farle valere sul piano normativo.
In ogni caso la problematica dell’identità religiosa richiede in qualche misura criteri oggettivi d’identificazione, cioè che si riconosca l’esistenza di forme di vita consolidate e comuni a più persone che possano essere qualificate come “religiose”. L’identità religiosa richiede un fatto collettivo ben identificabile. Non basta che i singoli individui conferiscano alla propria identità personale tale qualifica, né che la percepiscano in tal modo. Un’identità è religiosa solo a condizione che i suoi contenuti siano riconosciuti come tali anche da coloro che non credono in essi o, comunque, da una più ampia sfera pubblica. È noto quante difficoltà vi siano oggi per il riconoscimento dei culti religiosi, in considerazione della loro proliferazione abnorme (in Italia se ne sono contati più di seicento). I limiti negativi, quali il tradizionale rispetto dell’ordine pubblico, non bastano, perché non aiutano ad identificare in positivo la presenza di una religione. Neppure bisogna adottare criteri troppo specifici che sarebbero adeguati per alcune religioni e non per altre. A questo fine mi sembra utile per il suo carattere comprensivo la distinzione tra religioni mistiche, che si fondano su esperienze spirituali ineffabili, e religioni rivelate, che sostengono un intervento divino nella storia umana, religioni dal basso e religioni dall’alto [2]. Tuttavia, anche le prime devono consistere in esperienze spirituali collettive e partecipate, altrimenti non danno luogo a vere e proprie identità religiose.
Questa situazione è oggi complicata dalla tendenza attuale di avanzare dei distinguo a proposito della propria fede religiosa. Questa non è più concepita come un’adesione in blocco a tutte le credenze proposte da una determinata religione, ma a volte si risolve in una messa tra parentesi di alcune “verità di fede” che pure sono solitamente ritenute essenziali ad identificare una religione. Si aderisce ad alcune e non ad altre. Tuttavia nello stesso tempo si pretende e si esige di essere considerato come un aderente a “quella” religione. La cosa è ancor più ingarbugliata quando questo rimaneggiamento personale delle credenze coinvolge più di una religione se non addirittura dottrine teosofiche, pratiche magiche e astrologiche. Da una recente indagine, ad esempio, risulta che la credenza nella metempsicosi oggi conosce una fase di florida espansione a prescindere dalla religione abbracciata. Ciò dà luogo ad identità religiose multiple, all’interno delle quali spesso, ma non sempre, v’è una religione dominante o principale. È tipico delle religioni asiatiche, che hanno un carattere mistico, il potere esistere l’una nell’altra. Si può essere insieme buddisti e confuciani, buddisti e shintoisti. Questa tendenza si può ora ritrovare anche nelle religioni monoteistiche o di rivelazione storica. Paradossalmente ciò finisce per avvalorare la convinzione che in fondo esista una sola religione. Dietro la varietà delle credenze, dei simboli, dei culti in ultima analisi si credono le stesse cose o, meglio, si mira alla stessa cosa, cioè alla salvezza, alla liberazione dal male, alla pace dello spirito, alla pienezza della vita, etc…. Questa nella sostanza è una rivincita delle religioni mistiche su quelle rivelate e distrugge completamente il senso della richiesta di riconoscimento dell’identità religiosa o, almeno, la rende poco significativa. Essa ha senso solo se è legata ad un’identificazione oggettiva della religione professata (poi il singolo credente si costruirà la sua nicchia di credenze all’interno dell’identità comune). Non è un caso che le richieste più pressanti di riconoscimento vengano proprio dalle religioni rivelate legate ad un proprio corpo dottrinale. Non si può, quindi, ridurre la problematica religiosa alla libertà personale di scelta senza rendere incomprensibili le richieste di riconoscimento delle identità religiose che si avanzano nella piazza della città [3].
Se la religione del futuro sarà una religiosità “cosmoteandrica” onnicomprensiva, come vorrebbe Panikkar [4], allora la problematica dell’identità religiosa non avrebbe più alcun senso, poiché ci si identifica solo nei confronti di altre identità. Se c’è una sola religione, non ha più alcun senso parlare di “identità religiosa”.
Sembra, dunque, che, se da una parte l’identità religiosa richiede in certo qual modo criteri oggettivi d’identificazione (ed è in questo simile all’identità culturale), dall’altra presenta un grado di volontarietà maggiore, che può crescere fino al punto da rendere impossibili o vani i criteri oggettivi d’identificazione (e in questo è diversa dall’identità culturale).
La separazione tra religione e cultura è più evidente nel caso della cultura tecnico-scientifica, prodotto tipico della modernità occidentale. Non si tratta soltanto del progresso della ricerca scientifica e dell’uso delle conoscenze e delle scoperte scientifiche, perché questo di per sé è compatibile con le culture in senso tradizionale e sono ormai sempre più frequenti i casi di pacifica coesistenza del progresso tecnologico più avanzato con le forme di vita più tradizionali e ancestrali. Il terrorismo contemporaneo sarebbe inconcepibile senza il presupposto di una raffinata padronanza della tecnologia.
In Occidente la componente tecnico-scientifico tende a diventare una forma di vita a sé stante, dotata di un proprio universo simbolico e valorativo, di una delimitazione ben precisa dell’ambito conoscitivo della ragione umana. Non dico che questa cultura sia necessariamente antireligiosa, anzi nella misura in cui diviene totalizzante acquista suo malgrado una certa religiosità, poiché – come sappiamo – c’è una mistica della scienza e oggi crescono i credenti in questa religione del progresso. Tuttavia essa è minacciosa nei confronti delle religioni, poiché le confina tutte nell’ambito dell’irrazionale, cioè della mancanza di senso, recuperandole solo in quanto espressioni di preferenze o di gusti personali.
Se ora riprendiamo la distinzione tra riconoscimento diretto ai valori e riconoscimento diretto alle persone indipendentemente dai valori che propugnano, è evidente che la cultura tecnico-scientifica tenda a concedere alle religioni solo il secondo tipo di riconoscimento, escludendo la partecipazione delle religioni alla formazione della ragione pubblica nella piazza della città. Per contraccolpo cresce nelle società contrassegnate dalla cultura tecnico-scientifica e dalle sue forme di vita la richiesta di riconoscimento dell’identità religiosa.
Essa può assumere due direzioni o due obiettivi: quello più modesto di aver riconosciuto la libertà di praticare il proprio credo religioso in una nicchia al riparo dalle interferenze, o quello più ambizioso di aver riconosciuto il diritto di partecipare all’edificazione della cultura pubblica, riprendendo la vocazione della religione di animare le culture [5].
La cultura tecnico-scientifica è restia a concedere questa seconda forma di riconoscimento, perché può farlo solo accettando di rimettere in discussione il suo concetto di razionalità umana. Il dogmatismo non è un vizio solo delle religioni, ma anche di tutte le culture, anche di quella tecnico-scientifica. Per converso è giusto che la cultura tecnico-scientifica occidentale chieda alle religioni, che vogliono partecipare al discorso pubblico, di sottomettersi al regime dell’argomentazione e della ragionevolezza, cioè di proporre e difendere valori e scelte pubbliche che tutti possano accettare a prescindere dalle loro credenze e di farlo nell’ambito delle procedure costituzionali e democratiche. V’è chi è convinto che nessuna religione per definizione possa soddisfare questo requisito. Noi sappiamo che recentemente il Papa ha rivendicato al cristianesimo l’alleanza originaria con il logos e con il pensiero greco, nonché di essere la matrice originaria da cui è derivata la stessa cultura tecnico-scientifica attraverso un processo inesorabile di progressiva secolarizzazione [6]. Non voglio discutere questo punto molto delicato e discusso, anche se inclino a concordare con il Papa, ma il problema che vedo è quello di evitare che in un tempo così poco propenso ad apprezzare la dimensione universale della ragione ciò venga frainteso come l’affermazione di un legame privilegiato, per quanto problematico, che una religione universale avrebbe con una cultura particolare, per giunta dominante, come quella occidentale.
Qui ci imbattiamo alla fine in un nodo problematico difficile da sciogliere. Da una parte, è bene che le identità religiose e quelle culturali siano tenute ben distinte, perché è la loro unione che accresce la conflittualità fra le culture, le rende ripiegate in se stesse e poco propense al dialogo e alla revisione interna dei valori, mentre rende le religioni dominanti prive di spirito critico e di capacità innovativa. Uno Stato confessionale è una disgrazia per la religione prescelta, perché ne limita la libertà di critica e la rende propensa a difendere l’autorità costituita. Dall’altra, è inevitabile che le religioni, specie quelle a vocazione universale, producano cultura e generino forme di vita rilevanti per la società. In caso contrario, perderebbero ogni capacità di richiamo per uomini immersi fin dalla nascita in mondi culturali differenti.
Le vie della pace passano sicuramente per questo sottile crinale tra religione e cultura, l’una bisognosa dell’altra, ma a patto che l’una possa sempre ben distinguersi dall’altra.


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[1] Ho sviluppato questo tema nel mio Identità e comunità. Il senso morale della politica, Vita e Pensiero, Milano 1999, p. 117 e ss.
[2] Questa distinzione è ben tracciata da J. RATZINGER, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2003.
[3] Ho trattato questi temi nel mio Diritto/Diritti, Morale/Morali, Religione/Religioni: profili problematici, in “Sociologia del diritto”, 31, 2004, n. 2, pp. 7-21.
[4] R. PANIKKAR, La religione del futuro o la crisi del concetto di religione e la religiosità umana, in “Civiltà delle macchine”, 1979, nn. 4-6.
[5] Ho trattato questo tema nel mio Il ruolo pubblico della religione nella società multiculturale, in C. VIGNA – S. ZAMAGNI (a cura di), Multiculturalismo e identità, Vita e Pensiero, Milano 2002, pp. 107-138.
[6] Cfr. BENEDETTO XVI, Fede, ragione e università. Discorso a Regensburg, in “Il Regno”, LI, 2006, n. 998, pp. 540-544.
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