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La “guerra delle parole” e lo sguardo dell’Altro

Giovanna Botteri

Sulla soglia degli ottant’anni, il 12 settembre 2006, Papa Benedetto XVI, in visita in Germania, torna nella vecchia università di Ratisbona. Qui Joseph Alois Ratzinger iniziò ad insegnare nel 1959 e dieci anni dopo divenne titolare della cattedra di dogmatica e storia del dogma, fino al 1971, oltre che vicedirettore. E qui, di fronte ad un selezionato ed erudito pubblico, ricorda le vecchie conversazioni con i docenti di storia, di filologia e di filosofia in sala professori. Quando, nonostante qualche incapacità di comunicazione dovuta alle diverse specializzazioni, finiva col prevalere «l’unica ragione con le sue varie dimensioni» [1].
Perché il tema che sta a cuore al Pontefice è quello del rapporto della fede con la ragione. Cita allora un saggio di lettura recente, del professor Théodore Khoury, tedesco d’origine libanese, in cui è riportato il dialogo che l’imperatore bizantino Manuele II Paleologo ebbe nel 1391, durante un viaggio ad Ankara, con un letterato persiano. «L’imperatore – dice il Papa – tocca il tema della jihad, la guerra santa […] in modo sorprendentemente brusco, si rivolge al suo interlocutore semplicemente con la domanda centrale sul rapporto fra religione e violenza in genere, dicendo: “Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi ritroverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava”» [2].
Continua Benedetto XVI citando Ibn Hazn [3], che porta «fino all’immagine di un Dio-Arbitro, che non è legato neanche alla verità e al bene» [4], e parallelamente il prologo del Vangelo secondo Giovanni: «in principio era il logos. Logos significa insieme ragione e parola». Per i cristiani «Dio si è mostrato come logos, e come logos ha agito» [5].
Per il mondo islamico, quasi due miliardi di persone, le parole di Ratisbona suonano come una dichiarazione di guerra. Immediatamente, e in ogni parte del mondo, migliaia di musulmani scendono in piazza per manifestare contro il Papa. Nei territori palestinesi, a Ramallah e nella striscia di Gaza, le chiese sono attaccate. Le minoranze cristiane minacciate. In Somalia è uccisa una suora.
The Pope’s Word, “le parole del Papa”, titola il suo editoriale il “New York Times”. «Nel mondo c’è fin troppo odio religioso. È perciò particolarmente sconvolgente che Papa Benedetto XVI abbia insultato i Musulmani, utilizzando una descrizione del XIV secolo dell’Islam cattivo e disumano» [6].
Attorno a quelle parole si scatena una battaglia. I musulmani moderati chiedono una correzione, delle scuse. Quelli più radicali invocano la guerra contro il Vaticano. I conservatori cristiani fanno quadrato attorno a Ratzinger, invocando l’infallibilità del Papa.
Per la prima volta nella storia della Chiesa, il Pontefice in persona, pubblicamente e ripetutamente, esprime il suo rammarico ed ammette la necessità di una rettifica. La straordinarietà dei gesti rivela la gravità del baratro che rischiava di spalancarsi fra la Chiesa di Roma e il trans-continente musulmano. In un mondo pieno, come scrive il “New York Times”, d’odio religioso, il “logos”, che rappresenta un’unica parola e un’unica ragione, non è più legato né alla verità né al bene.
Del lungo e complesso discorso di Ratisbona, lungo quasi sei cartelle, giornali, televisioni, media arabi ed occidentali hanno riportato solo le due frasi incriminate. Gli uni per chiedersi fino a che punto sarebbero arrivate le crociate intraprese dal presidente Bush dopo l’11 settembre 2001; gli altri per chiedersi se effettivamente l’Islam non sia solo violenza e guerra santa. Oppure, dopo le minacce ricevute da Robert Redeker, l’insegnante francese che su “Le Figaro” aveva criticato il Corano, se ancora sia possibile un dialogo con i musulmani. E il dialogo diventa naturalmente sempre più difficile, se non impossibile.
Prendiamo un termine diventato quasi d’uso comune, dopo l’11 settembre: jihàd, il sesto pilastro dell’Islam. La stampa scritta e televisiva, e lo stesso Benedetto XVI, lo traducono ed utilizzano come sinonimo di “guerra santa”. Anche i principali ideologi che si esprimono in nome di al-Qa’ida, Osama Bin Laden, o Ayman al-Zawahiri, riprendono il discorso di un jihàd come battaglia contro il nemico originario, l’ateo (kafir), l’infedele, l’apostata (murtadd) [7]. Con il risultato che per gran parte dei giornali occidentali chiunque segue il jihàd non può che essere un terrorista, mentre per la stampa islamica più radicale è un eroe.
Ma il termine arabo jihàd significa letteralmente sforzo, o impegno, e nel Corano va inteso come ordine ai buoni musulmani di dedicare le proprie forze al Signore (sura 2, versetto 218), e di diffondere ovunque la vera fede. Se i miscredenti fanno resistenza e respingono il messaggio di Allah, vanno combattuti e sconfitti, ma senza oltrepassare i limiti che la giustizia e la misericordia di Dio impongono (sura 2, 190-194, e sura 8, 59-71). «O uomini – si legge in una delle più importanti raccolte di “hadith”, indicazioni e consigli per leggere il Corano – non anelate all’incontro con il nemico. Piuttosto, chiedete a Dio di conservare la vostra vita. Ma se incontrate il nemico, mostratevi  determinati,  perché il  Paradiso è  all’ombra delle  vostre sciabole» [8].
Dopo l’11 settembre, la paura cambia senso e significato delle parole. Secondo chi le usa. I media fanno da cassa di risonanza, ridividono il mondo. Il muro che Sharon inizia a costruire fra Israele e i territori palestinesi è il nuovo confine fra “noi e loro”, il bisogno di difendersi dall’altro, di isolare il nemico, o se stessi. «Il meccanismo che s’innesca da questo momento – scrive Gilles Kepel – trascinerà nella sua logica inesorabile, al di là dello stesso Medio Oriente, il mondo intero, preso in ostaggio da un’inaudita ondata di terrorismo che segnerà il passaggio di secolo colpendo gli animi come mai prima» [9].
La lotta al terrore comincia in Afghanistan, nell’autunno del 2001. Obiettivo Bin Laden e la sua organizzazione terroristica, al-Qa’ida, parola araba che significa la rete, la base, ma anche la regola. Per l’Occidente è il nuovo nemico. Invisibile, sfuggente. La guerra in Afghanistan porta infatti alla caduta del regime Taleban, ma non alla cattura di Bin Laden, o alla fine di al-Qa’ida. E la guerra a Saddam Hussein trasforma l’Iraq “liberato” in una gigantesca palestra terroristica. Kamikaze e autobombe sono la nuova tecnica di combattimento, esportabile ovunque, da Madrid, a Londra fino a Bali e Kabul. Come l’idra, al-Qa’ida è decapitata e continua a colpire.
Attraverso la parola.
Perché sarebbero i suoi messaggi audio, i suoi proclami diffusi su internet, secondo Kepel [10], il corpus scritto fatto d’argomentazioni religiose, storiche, addirittura nazionaliste, l’elemento più tangibile dell’identità di al-Qa’ida, priva del vero organigramma di un’organizzazione.
Per l’Occidente e la sua stampa è sempre più difficile discernere le parole, le logiche, con onestà intellettuale. Per la Palestina e l’Iraq termini come “occupazione” o “resistenza” diventano motivo di scontro ideologico, tabù da una parte, parole d’ordine dall’altra. I media devono semplificare, banalizzare la complessità. Il vaso di Pandora iracheno, che i marines americani hanno rotto entrando in Iraq, interessa poco. L’idea di un Islam diviso e lacerato fra sunniti e sciiti, fra arabi e kurdi, fra autorità tribale e potere religioso, non è funzionale. E non è funzionale distinguere fra i sanguinari salafisti sunniti di al-Qa’ida, gli sciiti libanesi del movimento Hezbollah e i palestinesi del partito Hamas, vincitore d’elezioni democratiche.
Sarebbe invece interessante poter interpretare le parole dell’altro, magari capirne le logiche.
Samir Kassir, storico e giornalista libanese, personaggio centrale della vocazione democratica medio-orientale, racconta ad esempio dell’infelicità araba. Che si trova nello sguardo degli altri.
«Lo sguardo dell’Altro, al limite, lo si potrebbe superare, molto semplicemente addirittura ignorare – scrive. Ma allo sguardo sull’Altro, a quello, come si sfugge? Come evitare di confrontarsi con ciò che rivela?» [11].
Il Medio Oriente del ventunesimo secolo con le sue guerre e le sue lacerazioni, che Kassir chiama semplicemente infelicità, si racconta attraverso lo sguardo. Dell’Altro, o sull’Altro. Il marine americano vissuto come l’invasore, l’aguzzino, dal civile iracheno; l’iracheno visto come un potenziale terrorista; il bambino palestinese che sogna di diventare shaheed, martire, per uccidere chi gli ha tolto la casa e la patria; il figlio del pacifista israeliano che muore in guerra per difendere la sua di patria, di casa; la vittima che diventa carnefice per trasformare in paura lo sguardo di disprezzo. Per spezzare l’infelicità, Kassir fa appello proprio alla parola dell’Altro, alla possibilità di comprenderla, attraverso la globalizzazione della cultura.
La rivoluzione dei media elettronici – scrive [12] – spinge sempre più la cultura araba ad integrare apertamente l’Altro nella sua diversità.
Una posizione condivisa da Hanif Kureishi, che rivendica alla Parola il potere unico d’essere ponte fra mondi, paesi e culture diverse, e quindi ultima barriera di fronte alla guerra. Ed è nel momento in cui il discorso e la scrittura si interrompono, quando si tenta di sopprimere l’incoerenza umana con la virtù, che il male si fa strada nel silenzio [13].
La libertà di parola non è solo un nostro privilegio, rileva Kureishi; è essenziale per tutti coloro che, nel Terzo Mondo, sono oppressi, inascoltati ed emarginati, tutti coloro che combattono per tenere viva la propria umanità in condizioni molto peggiori delle nostre [14].



[1] J.A. RATZINGER (Benedetto XVI), Regensburger Konferenz, 13 settembre 2006.
[2] Ibidem.
[3] Ibn Hazm (994-1046), teologo, filosofo e uomo di lettere, è stato una delle più interessanti personalità intellettuali della Spagna musulmana dell’XI secolo.
[4] J.A. RATZINGER (Benedetto XVI), Regensburger Konferenz, cit.
[5] Ibidem.
[6] The Pope’s Words, editorial, in “The New York Times”, 16/9/2006.
[7] G. KEPEL, Al-Qaeda. I testi, Laterza, Roma-Bari 2006.
[8] AL BUKHARI, Sahih, parte IV.
[9] G. KEPEL, Fitna. Guerra nel cuore dell’Islam, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 4.
[10] G. KEPEL, Al-Qaeda. I testi, cit.
[11] S. KASSIR, L’infelicità araba, Einaudi, Torino 2006, p. 4.
[12] Ivi, p. 83.
[13] H. KUREISHI, La parola e la bomba, Bompiani, Milano 2006, p. 18.
[14] Ibidem.
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