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La felicità come pienezza di vita

Antonio Pieretti

1. A ben guardare, si può dire che non c’è uomo che non aspiri alla felicità. Come pure, si deve ammettere che non c’è individuo che non ne faccia oggetto di desiderio. In essa peraltro trova risposta non solo la domanda relativa al bene dell’uomo, ma anche quella che concerne il senso della vita. Non ci sarebbe infatti ragione di accettare di vivere, se non si avesse la speranza di raggiungere la felicità. Appunto per questo, tutti ne parlano come se fosse una condizione esistenziale dall’identità ben definita e facile da raggiungere. In realtà, però, come dimostra la storia del pensiero occidentale, le cose stanno diversamente. Molte e assai divergenti, infatti, sono le opinioni che concernono la sua natura; inoltre, in generale, l’esperienza dimostra che la felicità è difficile, se non impossibile, da perseguire.
I primi tentativi rivolti a chiarirne l’identità risalgono alla religione: non già però a quella micenea, la quale è dominata dall’idea di un mondo divino perfetto che si oppone al mondo umano e pertanto esclude che l’uomo possa aspirare a migliorare la propria condizione e a raggiungere il sommo bene. È piuttosto l’orfismo che ne specifica la natura, facendola consistere nel distacco dell’uomo dal proprio corpo per innalzarsi, mediante il principio di redenzione (Dionisio), a Zeus, Dio supremo, e per entrare così a far parte della schiera dei beati.
Il tema della felicità è presente anche nella poesia epica. Per l’eroe esiodeo, infatti, l’uomo, con l’adeguarsi alla divinità, perviene alla eudaimonia, cioè a quella «buona presenza del daimon» che comporta anche la conquista dei beni materiali e l’appagamento dei desideri. Analogamente avviene per i primi filosofi greci: connettono la felicità alla divinità e la identificano con l’eutichia, ovvero con la «buona sorte», che, nella veste di fortuna dispensatrice di beni, soddisfa i bisogni umani.
Per quanto condivida con i Sofisti l’idea di umanizzare la felicità, Socrate tuttavia gli conferisce un solido statuto metafisico. Sostiene infatti che è un bene in sé e la identifica con una condizione simile a quella goduta dagli dei. Essa, pertanto, risiede nel senso di soddisfazione e di appagamento che l’uomo prova quando ha realizzato pienamente se stesso. Per raggiungerla, allora, egli è chiamato ad esercitare la virtù conforme alla propria natura razionale e, quindi, a coltivare la sapienza, che gli consente di conoscersi, di sapere chi egli sia e di essere artefice del proprio destino.
Con Platone la dottrina socratica riceve un nuovo e più significativo sviluppo. Dopo aver mostrato, nella Repubblica, la necessità di ammettere un bene trascendente, in quanto principio supremo di ogni cosa, egli procede alla determinazione del bene che può essere raggiunto dall’uomo. Così, nel Filebo sostiene che, per pervenire alla perfezione che garantisce la felicità, egli deve unire all’intelligenza del bene supremo anche il suo godimento (Filebo, 22a). Tornando sull’argomento nel Convito, Platone afferma che l’amore è aspirazione a possedere tale bene (207a). E, siccome è anche desiderio di immortalità, cioè tendenza a trascendere i limiti imposti all’uomo dalla sua condizione di essere finito, l’amore può trovare il suo coronamento soltanto nel bene in sé. Ebbene, poiché la felicità ne è l’attributo principale, per l’uomo la possibilità di goderne è riposta nella sua esperienza.
Anche per Aristotele la felicità rappresenta il bene più alto cui la specie umana possa aspirare. Essa però, in ciò che ha di più proprio, non si identifica né con l’utile né con il piacere, anche se ne fanno parte integrante: consiste piuttosto nell’esercizio della ragione nella sua forma più alta, nella sua virtù. Ma poiché le virtù della ragione sono molte, la felicità risiede nell’impiego di quella che è la migliore e la più perfetta di esse, cioè nella sapienza (Eth. Nic., X, 7, 1177a, 23-25). Questa, in quanto è attività contemplativa, è «la più alta; infatti, l’intelletto è tra le cose che sono in noi quella superiore»; inoltre è autosufficiente ed è «la sola ad essere amata per se stessa; infatti, da essa non deriva alcun altro risultato al di fuori del contemplare, mentre dalle attività pratiche ricaviamo sempre qualcosa, più o meno importante, oltre l’azione stessa» (ivi, X, 7, 1177b, 1-4). Esercitando la sapienza, l’uomo si pone nella condizione di raggiungere il proprio fine, in quanto ricerca le cause prime dell’universo e quindi vi conforma la propria vita. Ma ciò deve avvenire in maniera duratura, giacché, come «una sola rondine non fa primavera, né un solo giorno; così neppure una sola giornata o un breve tempo rendono la beatitudine o la felicità» (ivi, I, 7, 1098a, 18-21).
In generale, neppure gli Stoici si discostano da questa impostazione. Per Zenone, che ne è il massimo rappresentante, essa infatti consiste nel sottomettersi all’ordine razionale che presiede all’universo. Ma, poiché per l’uomo ciò equivale a condurre l’esistenza in maniera conforme alla propria essenza, per lui essere felice vuol dire vivere secondo la propria virtù. Così, sono felici coloro che vivono in modo coerente, vale a dire in conformità con la propria indole di esseri razionali e in armonia con la realtà circostante. Seneca, che ne eredita la tradizione, scrive: «In ogni essere la dote migliore è necessariamente quella cui la natura lo chiama, quella per cui viene in pregio. Ora nell’uomo qual è la dote migliore se non la ragione?». Ma la ragione «retta e intera, cioè perfetta, si chiama virtù»; perciò, la virtù «è l’unico bene dell’uomo: chi la possiede, anche se sia destituito degli altri beni, è degno di lode, e chi non la possiede, anche se abbonda degli altri beni, è giustamente riprovato e condannato» (Epist. ad Luc., 76).
In epoca ellenistica, però, accanto a quello espresso dagli Stoici, si afferma anche un altro orientamento circa la natura della felicità. Si abbandona il presupposto metafisico che l’ha contraddistinta per tutto il periodo classico e, piuttosto che al bene in sé, ci si rivolge al bene implicato nell’appagamento dell’inclinazione ed il cui possesso determina uno stato più o meno duraturo di soddisfazione. La felicità, così, si fa consistere nel piacere, inteso come sensazione gradevole di natura fisica o psichica. Per questo tale orientamento è comunemente connotato come edonismo. Tra i primi a farsene interprete è Aristippo, il fondatore della Scuola di Cirene, il quale sostiene che «la felicità è la somma dei piaceri particolari, in cui sono computati anche quelli passati e quelli futuri» (Diog. Laert., II, 8, 87-88).
Anche per l’Epicureismo la felicità dell’uomo risiede nei piaceri, cioè nella soddisfazione dei desideri, però non di tutti, ma soltanto di quelli naturali e necessari. Richiede perciò la consapevolezza della condizione umana e la conseguente «disposizione dell’animo a delimitare quel che è secondo natura», giacché sono i desideri vani e sfrenati a rendere l’uomo infelice. Per questo, Epicuro raccomanda di aver cura delle cose che danno la felicità, poiché «in vero se essa c’è, abbiamo tutto, se essa non c’è facciamo tutto per possederla» (Ep. ad Men., 122, 10-11).
Sotto l’influenza del Cristianesimo, il Neoplatonismo prende le distanze tanto da Platone e da Aristotele quanto dallo Stoicismo e dall’Epicureismo; suppone infatti che il bene supremo per l’uomo non risieda semplicemente nella realizzazione della propria natura, nella perfezione del proprio essere e, perciò, nella ricerca del bene in sé, ma nel suo godimento effettivo, nella sua fruizione. Di conseguenza, la felicità consiste nell’unione con Dio, che però, precisa Plotino, «non si ottiene né sulla via della scienza né su quella del pensiero, come per i restanti oggetti dello spirito, ma solo per via di una presenza che vale ben più della scienza» (Enn., VI, 9, 47). Tale presenza può essere guadagnata mediante l’estasi, «semplificazione estrema e dedizione di sé e brama di contatto e quiete e studio di aggiustarglisi ben bene» (ivi, VI, 9, 11). Comunque, la felicità derivante dall’unione con Dio non è di tutti, ma è riservata soltanto a coloro che sono capaci di liberarsi del mondo sensibile e di elevarsi fino a Lui. Essa perciò è prerogativa esclusiva degli uomini sapienti.
Anche Agostino, come Plotino, ripone la felicità nell’unione amorosa dell’anima con Dio; egli, tuttavia, concepisce Dio come persona; inoltre, crede nella rivelazione secondo cui Dio ama l’uomo e, mediante la sua grazia, gli concede la possibilità di unirsi a Lui e di raggiungere il sommo bene. Dunque, l’uomo può elevarsi alla contemplazione di Dio non attraverso una mistica naturale, ma mediante una mistica soprannaturale: «C’è un godimento – scrive infatti Agostino rivolgendosi a Dio – che non è concesso agli empi, ma a coloro che ti servono per puro amore e il loro godimento sei tu stesso. E questa è la felicità, godere per te, di te, a causa di te, e fuori di questa non ve n’è altra. Chi crede che ve ne sia un’altra, persegue un altro godimento, non il vero» (Conf., X, 22, 32). Ma chi è felice, «ha la misura di se stesso, la saggezza» (De vita beata, 4, 33), la quale è una partecipazione alla sapienza divina, che si personifica nel Figlio di Dio. La saggezza, infatti, in quanto pieno appagamento dello spirito, comporta di «conoscere con vivo sentimento religioso da chi l’uomo è indirizzato alla verità, da quale verità è beatificato e mediante quale principio si ricongiunge alla misura ideale» (ivi, 4, 35). Nella prospettiva di Agostino, dunque, è felice «chi, attraverso la verità, raggiungerà la misura ideale», perché questo è possedere Dio nello spirito, cioè beatificarsi in Dio» (ivi, 4, 34). Tuttavia, precisa nel De Trinitate, questo sarà possibile soltanto nella vita ultramondana, perché solo allora sarà consentito all’uomo di essere un solo spirito con Dio, elevandosi «fino alla partecipazione della natura, della verità, della beatitudine di Dio» (XIV, 14, 20).
Il tema della felicità ritorna anche della riflessione medievale. Tommaso d’Aquino, richiamandosi ad Aristotele, afferma che «il termine beatitudine sta ad indicare il conseguimento del bene perfetto. Perciò chiunque è capace del bene perfetto, è in grado di raggiungere la beatitudine» (Summa theol., I-II, q. 5, art. 1). Ma il fine ultimo dell’uomo, cioè la sua perfezione suprema, risiede nel possesso di Dio, dato che l’uomo è stato creato da Dio e non ha altro fine all’infuori di Dio. Perciò Dio, in quanto bene assoluto, ne rappresenta il bene supremo. Tuttavia, per l’Aquinate «la beatitudine ultima e perfetta non può consistere che nella contemplazione dell’essenza di Dio» (ivi, I-II, q. 5, art. 5). Ciò significa che l’uomo può goderne pienamente solo mediante l’amore, che presuppone un’intelligenza capace di apprendere il bene e di conoscerlo. Questa esperienza non è comunque alla portata dell’uomo in questa vita, dove egli deve accontentarsi di dimostrare l’esistenza di Dio e di coglierne alcuni attributi. L’essenza di Dio gli è accessibile soltanto dopo la morte, nella vita eterna, quando gli sarà offerta come espressione di un atto di grazia e di amore da parte di Dio stesso.

2. Con l’avvento dell’età moderna, soprattutto sotto la suggestione dell’indagine scientifica, si impone una visione matematico-meccanicistica dell’universo. Viene così negata qualsiasi finalità all’interno della natura. Per l’uomo stesso si esclude che esista un fine ultimo al quale egli debba aspirare: la sua essenza è riposta nella ragione; pertanto, è nel suo esercizio che viene individuata la possibilità della felicità.
Cartesio è tra i primi a farsi interprete di questo nuovo orientamento speculativo. Nella sua prospettiva la felicità non consiste in altro che nel «godere dell’animo perfetto e tranquillo», cioè nel fruire dell’attività della ragione (Correspondance, a cura di C. Adam – P. Tannery, Paris 1901, p. 263).
Per Spinoza la natura è la manifestazione di Dio e si dispiega secondo un ordine che deve essere conservato. Dal momento che spetta alla ragione rivelare tale ordine, il bene dell’uomo consiste nell’uniformarsi ai suoi precetti e nel vincere le passioni. La perfezione cui egli può aspirare risiede perciò nella conoscenza razionale; «ma l’oggetto che la mente può conoscere è Dio. Dunque la virtù della mente è intendere e conoscere Dio» (Eth., IV, 28). La felicità o beatitudine, perciò, consiste «nella sola conoscenza di Dio, dalla quale siamo indotti a fare soltanto quelle azioni che ci sono consigliate dall’amore e dalla pietà» (ivi, II, 49). Ma tale conoscenza, per essere adeguata, richiede l’amore costante ed eterno nei confronti di Dio, perché «l’amore intellettuale della mente verso Dio è l’amore stesso di Dio, col quale Dio ama se stesso, non in quanto egli è infinito, ma in quanto può essere spiegato mediante l’essenza della mente umana, considerata sotto la specie dell’eternità, cioè l’amore intellettuale della mente verso Dio è una parte dell’amore infinito col quale Dio ama se stesso» (ivi, V, 36). Ne consegue che la felicità o beatitudine dell’uomo trova il suo compimento nella soddisfazione che sorge dalla conoscenza intuitiva di Dio accompagnata dall’amore.
Contro il tentativo compiuto da Cartesio e Spinoza di fondare la felicità su una metafisica, per quanto concepita in termini matematico-meccanicistici, nella seconda metà del secolo XVII reagisce una folta schiera di pensatori di ispirazione empiristica. Costoro ripristinano l’idea di un fine ultimo dell’uomo, di una sua perfezione, ma la individuano nella soddisfazione disinteressata che il singolo può provare con il votarsi al bene della collettività di cui fa parte. Oltre a Hume, anche Hutcheson sostiene che non è possibile la felicità al di fuori della vita sociale: l’individuo da solo non conosce altro che il suo bene e il suo male soggettivo; nella società, invece, le sue azioni sono valutate a seconda del vantaggio o del danno che provocano agli altri uomini.
Smith, da parte sua, vede il fondamento della felicità, più che nel sentimento morale, nell’impulso razionalizzatore della simpatia. Mediante tale impulso la simpatia è integrata dalla legge di giustizia e reciprocità, per cui si trasforma in dovere e, mentre favorisce il benessere di tutti, rende felice colui che ne partecipa. Questa concezione è sorretta dalla fede in un Essere concepito naturalisticamente, che è determinato dalle sue stesse perfezioni a mantenere nell’universo «la più grande quantità possibile di felicità». D’altro canto, scrive Smith, «l’Essere benevolo e onnisciente non può consentire nel sistema da lui diretto nessun male parziale che non sia necessario al bene universale» (Theory of Moral Sentiments, in Collected Works, Edinburgh 1811-12, VI, 1).
Nell’intento di assicurare alla felicità una fondazione più rigorosa rispetto a quelle proposte dal razionalismo e dalle “filosofie del sentimento”, Kant la pone in stretta connessione con la virtù. Questa unione che coincide con il «sommo bene» o bene perfetto, però, è di tipo sintetico e non è garantita da nessuna dimostrazione o conoscenza, ma risponde piuttosto ad un’esigenza di ordine naturale: «L’attuazione del sommo bene nel mondo, scrive infatti Kant, è l’oggetto necessario di una volontà determinabile mediante la legge morale» (KpV, pt. I., l. II, cp. II). Ora, la conformità completa della volontà con la legge morale equivale alla santità, cioè ad una perfezione di cui non è capace nessun essere razionale nel mondo sensibile. L’unione della virtù con la felicità, perciò, non rientra nell’intenzionalità dell’agire morale e, poiché è richiesta come praticamente necessaria, nel senso che è giusta, può essere trovata soltanto in un progresso infinito dell’uomo. Ma un siffatto progresso per Kant «è possibile solo supponendo un’esistenza che continui all’infinito, e una personalità dello stesso essere razionale (la quale si chiama l’immortalità dell’anima)» (ivi, pt. I, l. II, cp. II, § 4). Ebbene, questa condizione è soddisfatta solo se si ammette anche l’esistenza «di una causa adeguata a questo effetto». Pertanto, conclude Kant, bisogna «postulare l’esistenza di Dio come appartenente necessariamente alla possibilità del sommo bene» (ivi, pt. I, l. II, cp. II, §5). In tal modo, per il filosofo di Königsberg la felicità si fonda su un’istanza della ragione.
Anche Nietzsche persegue l’obiettivo di svincolare la felicità da qualsiasi implicazione di natura metafisica. Ne trae la conseguenza che non esiste alcun bene universale a cui l’uomo possa legittimamente aspirare. Infatti, «quel che può essere comune, ha sempre ben poco valore» (Al di là del bene e del male, in Opere, vol. VI, t. II, tr. it., Milano 1968, p. 47). In tal modo, se Schopenhauer, nonostante il suo pessimismo radicale, vede ancora per l’uomo la possibilità di aspirare alla felicità, Nietzsche invece la esclude: l’uno la ripone nella rinuncia ad ogni sentimento egoistico per una pietà universale e profonda, l’altro invece, la relega negli atti e nei gesti contingenti con i quali l’uomo rivendica la sua presunta autosufficienza.

3. Per quanto abbia acquisito una maggiore consapevolezza di quanto sia difficile raggiungerla, non si può dire che l’uomo del XX secolo abbia rinunciato a ricercare la felicità. Tuttavia, nel tentativo di individuarne l’identità, non ha potuto sottrarsi all’obbligo di fare i conti con il dolore e il male. In verità, a queste inquietanti esperienze ha prestato attenzione fin dall’antichità, ma per lo più le ha percepite come ostacoli sormontabili in vista della felicità. Come dimostra Kant, anche quando le ha qualificate come “radicali” e perciò come intrinsecamente connesse con la natura umana, non ha disperato della possibilità di limitarne gli effetti, in quanto confidava nella forza esorcizzante della ragione.
La situazione è cambiata profondamente in seguito alle drammatiche vicende che hanno segnato il secolo XX. I genocidi perpetrati in ogni angolo della terra hanno mostrato in modo evidente l’incapacità della ragione di rimuovere il negativo dal mondo. Pertanto, anche la fiducia nei suoi poteri si è progressivamente affievolita. Così, il dolore e il male sono stati avvertiti come intrascendibili e sono stati declinati come chiari contrassegni della sua costitutiva finitezza. Del resto, per la prima volta nel corso della sua plurisecolare storia, l’umanità ha preso coscienza di disporre dei mezzi per la propria distruzione. Ebbene, in questa atmosfera da “fine della storia” in cui ormai sa di vivere, l’uomo non ha abbandonato definitivamente l’idea di una felicità oltre la morte, cioè al di là degli angusti limiti dello spazio e del tempo, ma ha cominciato a guardare con maggiore insistenza alla felicità sulla terra. Si è così fatta strada nell’opinione comune l’idea che essa consista in uno stato di benessere non intaccato dal dolore né contaminato dal male, oltre che al riparo dalla sofferenza. Ma, per quanto gli venga riconosciuta una connotazione così ridotta, non si è disposti a concedere che la felicità sia una condizione provvisoria, momentanea, perché, in tal caso, essa si ridurrebbe ad una sorta di intervallo nel perdurare ininterrotto del dolore e del male. Resta allora da considerare come i due aspetti siano conciliabili.
Ora, per quanto ha di più proprio, la felicità si identifica con la vita nella sua pienezza, cioè nella completa realizzazione delle sue potenzialità. Inoltre, essa si caratterizza come intrinsecamente connotata da saldezza e stabilità; infatti, ne abbiamo una chiara percezione laddove la vita raggiunge il massimo di intensità.
In virtù del vincolo che la unisce indissolubilmente alla vita, la felicità è più originaria del dolore e del male. Questi ultimi, del resto, rappresentano pur sempre una mancanza nei suoi confronti e perciò equivalgono ad una limitazione rispetto ad essa, ad una riduzione della sua pienezza. Di conseguenza, il dolore e il male, come presuppongono la vita, così presuppongono la felicità. In qualche modo, cioè, essi prendono forma sul fondamento del nostro essere al mondo e assumono il senso che hanno nella nostra esperienza quotidiana, a partire da questa condizione e in rapporto ad essa. Ma, dal momento che la vita ci appartiene, anche la felicità ci appartiene. Siamo dunque felici per il fatto stesso che esistiamo. È per questo che aspiriamo incessantemente alla felicità e la ricerchiamo ogni qual volta l’abbiamo temporaneamente perduta. Lo stato di pienezza che essa ci garantisce, allorché l’abbiamo ritrovata, è da noi sperimentato come se lo avessimo vissuto già da sempre e non lo avessimo mai effettivamente abbandonato.
Per noi la felicità ha il sapore stesso della vita, da cui non intendiamo mai separarci. Ne abbiamo una palese dimostrazione nell’attaccamento che nutriamo verso di essa e nel piacere che proviamo a viverla, anche quando sembra tradirci, non ripagando adeguatamente i nostri sforzi e le nostre aspettative. La resistenza stessa che opponiamo al dolore e al male attesta la determinazione con cui vogliamo continuare a vivere ed essere felici.
A causa della sua costitutiva connessione con la vita, la felicità opera in noi come una memoria immemorabile. Essa infatti non è collegata ad un momento ben definito nel tempo, ma si colloca al di fuori di ogni sua articolazione, sospesa rispetto alla successione e agli eventi in cui questo si scandisce. Ha le connotazioni di una memoria in virtù della quale qualsiasi esperienza che si oppone alla libera espansione della vita, che ne ostacola l’inesauribile energia, viene da noi vissuta come una violazione della nostra identità o una mancata soddisfazione di ciò che siamo chiamati ad essere. Da questa memoria, che non può essere mai cancellata, sono nate la nostalgia delle origini, il mito degli inizi, il culto dell’età dell’oro, insomma le utopie con cui l’uomo ha dato forma e continua ad esprimere il suo amore per la vita e la sua naturale aspirazione alla felicità.
In quanto esistiamo, in quanto siamo al mondo, la vita in qualche modo ci precede: per questo nostro abitare in essa, ne facciamo l’oggetto privilegiato di ogni nostra attenzione. Ne abbiamo cura non solo coltivandola, ma anche difendendola contro chiunque pretenda di metterla a repentaglio. Ebbene la felicità, che è la memoria di questa nostra originaria appartenenza alla vita, risiede nella sua custodia totale e incondizionata. Colta nella sua radice, infatti essa altro non è che il sì da sempre pronunciato a favore della vita. Con la felicità, infatti, misuriamo quanto l’esistenza ci riserva e il senso che ha per noi.
Ma a noi non è data altra possibilità che quella di vivere attimi di felicità. Questa sorte si deve al dolore e al male che sempre incombono sulla nostra vita, e ancor più alla nostra costitutiva condizione di esseri finiti. Tali attimi, infatti, se da un lato riflettono la nostra illimitata capacità di espansione, il nostro indefinito potere di crescita e di incremento, dall’altro sono soltanto esperienze momentanee, di breve durata. Sono i contrassegni dell’irruzione dell’eterno nel tempo. Con tali attimi all’uomo è dato di vivere ciò che di per sé non appartiene al suo statuto di essere finito. Per questo, egli li percepisce quando li vive, quando li abita.
Quella della felicità è un’esperienza radicale in cui tutte le forze sono potenziate ma, al tempo stesso, sono portate all’estremo, quasi che non riuscissero a sopportarne la presenza. È un’esperienza, seppure momentanea, di eternità che, proprio perché tale, comporta la concentrazione di tutte le energie e, insieme, il loro acuirsi quasi in uno sforzo assoluto, in una tensione al di là delle loro stesse possibilità. Ma, in quanto oltrepassa la condizione abituale dell’uomo, la felicità parla per lui il linguaggio del dono, del gratuito. Vi è in essa qualcosa di imprevedibile, di incalcolabile, perché imponderabili sono le sue ragioni. È per questo che l’uomo, nel momento in cui è felice, come dice Aristotele, si sente divino.
Nell’esperienza della felicità l’individuo si dispiega come apertura nei confronti del mondo e partecipa gioiosamente di ogni sua manifestazione. Quanto di negativo vi è di operante al suo interno, sul momento viene riscattato. Per tale motivo, la felicità rende la vita degna di essere vissuta in ciascun istante, per quanto non sia nell’istante che l’uomo riesce a raggiungere la sua piena realizzazione. Felice, infatti, come ricorda Cicerone, è soltanto la vita giunta al suo compimento: una vita riuscita non è e non può mai essere una semplice somma di istanti, ma quella che coincide con la trama intera del suo svolgimento. La felicità è vita realizzata. Per essere felici occorre che la vita si dispieghi in tutte le sue dimensioni, comprese quelle rappresentate dalle rinunce e dai sacrifici, perché recano con sé l’impronta della saggezza.


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