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La teologia occidentale e l’arcobaleno delle culture

Raimon Panikkar
Intervista a cura di Gianmaria Zamagni

Vedendo il titolo da lei scelto per la sua Lezione, Fede, religioni e culture [1], mi sono chiesto se si mostri con esso un’oscillazione da un principio più monistico – una fede, e ancor più una sola confessione di fede – ad uno più pluralistico – vi è più di una religione, e molte più culture. In questo senso, le domando come si giochi, a suo avviso, il rapporto tra una confessione di fede e la percezione di un mondo sempre più pluralistico. Detto in altri termini: come è possibile, oggigiorno, declinare una confessione di fede in un contesto multiculturale?

Io non vedo nessuna di queste tre parole al singolare o al plurale, poiché esse sono tre simboli che rappresentano tre dimensioni proprie dell’essere umano. Ogni uomo ha una fede, come ogni uomo ha una religione, certo nel senso non settario della parola, e ogni persona umana vive in un determinato universo culturale. Benché capisco che sia più elegante graficamente, trovo anche che nel titolo manchi una “e”: Fede e religioni e culture. Ho parlato anche di questa “e”, che distingue e unisce le tre cose. Dunque non c’è alcun monismo.

Le chiedevo questo perché un problema che si è presentato nella teologia delle religioni [2] è stato proprio quello della rivendicazione d’assolutezza delle religioni. Lei, assieme ad altri teologi come John Hick e Paul Knitter, ha dato risposta in una direzione pluralistica, una risposta che è di un’estrema complessità e profondità. Nonostante questo, ancora si avverte l’esigenza, da parte del magistero cattolico, d’una rivendicazione di assolutezza, e talvolta ancora con i tratti dell’esclusivismo. Come è possibile conciliare oggi la rivendicazione di verità con la pluralità delle religioni mondiali?

Io rispetto molto il magistero: pluralismo non vuol dire pluralità. Ho scritto anche un articolo sul pluralismo della verità [3], dove ho dato una descrizione fenomenologica della verità: la verità è ciò che si cerca, quindi ogni religione cerca la verità, ogni uomo cerca la verità. Di più: ogni affermazione ha di per sé una pretesa di verità. Tuttavia, se da ciò si estrapola che questa verità è unica, si compie un errore logico, perché ogni affermazione ha un significato all’interno di un contesto che le conferisce il suo senso. Estrapolare qualsiasi affermazione al di fuori del suo contesto significa commettere l’errore logico di assolutizzare qualcosa che ha un senso soltanto all’interno di un contesto. E questo vale, naturalmente, anche per la mia filosofia. Ciò significa che per capire il senso di un’affermazione che ha implicita una rivendicazione di verità, devo anzitutto capirne il contesto. Oltre a questo contesto, occorre cercare di comprendere il pretesto che porta a quella affermazione, un pretesto che può essere meschino o nobile. E per conoscere quel pretesto, occorre conoscere la persona che l’esprime. Perciò la verità è sempre incarnata. Il concetto di verità possiamo definirlo come più piace: vi sono tante definizioni, la filosofia analitica oggi ha almeno una dozzina di definizioni della verità. Ma la verità “che ci fa liberi” non ci permette di fissarla in un concetto. Come afferma l’epistola ai Galati, siete chiamati alla libertà: έπ’έλευθερία, in libertatem vocati estis. Alcune traduzioni di questo versetto sono errate. San Paolo in un altro testo parla anche della legge perfetta della libertà, ma non si tratta della legge della perfetta libertà. Essere perfetti si riassume in ciò che non può essere né legge né comandamento, che è l’amore per il prossimo.

Di fronte all’affermazione dell’esistenza di molte verità quale quella formulata dai teologi pluralisti, tuttavia, Hans Küng, poneva un’obiezione, epistemologicamente molto avvertita, di apriorismo, consistente nel dire che così si rinuncia «già di partenza al carattere normativo della propria tradizione, supponendo come risultato ciò che non sarebbe auspicabile nemmeno al termine di un lungo processo d’intesa»; un dialogo non sarebbe allora utile e nemmeno possibile, poiché tutti avrebbero fin dal principio messo in discussione la propria identità [4]. Egli postulava invece la possibilità di un’affermazione di verità che fosse però anche capace di una “politica estera”, in una “doppia prospettiva”, dunque, per la quale accanto ad una prospettiva partecipante, in cui si rimane cristiani, vi sia una prospettiva esterna in cui si riconosce che però molte sono le affermazioni di verità e si presentano al dialogare in maniera aperta, senza presunzione le une verso le altre [5]. Come reagì e come reagisce, lei, a questa obiezione?

Io reagisco interculturalmente. Per me, lo ribadisco, il pluralismo non vuol dire la pluralità delle verità. Per me la verità è unica, e con ciò stesso essa non è matematizzabile, non è quantificabile, non è concettualizzabile. Con questo atteggiamento sto nel dialogo. Non si può fare un’esegesi del silenzio di Gesù di Nazareth di fronte alla questione che gli venne posta, «cos’è la verità?». Egli tacque a quella domanda di Pilato. Se non capiamo il linguaggio del silenzio, ancora non abbiamo capito il linguaggio umano. Ogni linguaggio è vero in quanto rivela questa source, questa ‘sorgente di silenzio’ da cui la verità sgorga. Per questo occorre sviluppare un po’ di più ciò che abbiamo assai poco coltivato, la dimensione mistica dell’esistenza. La proposta di Hans Küng quindi, all’interno della cultura occidentale, mi pare molto sottile, persino troppo sottile e convincente. Quella di Küng (siamo dottori della stessa università, come pure Ratzinger), è filosofia squisitamente occidentale. Negli anni Cinquanta ho scritto, in tedesco, un saggio sull’analisi esistenziale della verità, e svolgevo la parte filosofica di questo discorso [6]. Per me il problema non si presenta così, perché io non assolutizzo, non oggettivizzo la verità. Qualsiasi discorso sulla verità non tocca affatto la verità. La verità non è un concetto, è solo un simbolo che noi utilizziamo per dire che siamo tutti in pellegrinaggio verso qualche luogo, e non possiamo indicarne la direzione. C’è un’affermazione di Gregorio, che commenta la vicenda del padre di tutti i credenti: Abramo ha sentito la voce di JHWH, se ne va da Ur alla ricerca della terra promessa che gli verrà data. Abramo se ne va nel deserto, e commenta: «e adesso sono certo che questa era la voce di JHWH che mi chiamava, perché non so dove vado».
Abbiamo sempre un fine, un telos. Era così già per la causa finale aristotelica, che era l’ultima nella sua dottrina delle cause. E così è tutta la nostra educazione: si vuole essere santi, o essere ricchi, o ancora avere successo. Nel sanscrito classico invece non esiste la parola “volontà”: esiste una parola per dire desiderio, aspirazione, ma non per “volontà”. Non c’è il Wille zur Macht, la volontà di potenza. Abramo diceva di sapere che si trattava della voce di JHWH perché egli non sapeva dove andava.

Vi è nel Vangelo, come lei ha ricordato, un Gesù di Nazareth che tace davanti alla domanda di Pilato «che cos’è la verità?», e tuttavia, accanto a questo Gesù vi è un Cristo giovanneo, che dice: «io sono la via la verità e la vita»; e nelle Scritture vi sono anche molti passaggi che indicano la necessità di una confessione di fede, di un’affermazione e di una rivendicazione di verità. Vi è poi ancora un interprete privilegiato di quella verità: un magistero, una dottrina…

Cristo ha sì detto «io sono la verità», ma non ha detto «la verità è quello che voi dite di me». Egli è la via, la verità e la vita se si cammina per la via, se si sta nella verità e se si vive, altrimenti quella non è vera vita, è la vita di altri. Ci manca questa profondità nella comprensione di quelle parole. Anche nella metafora dell’Apocalisse che esorta a mangiare le Scritture, è detto chiaramente che la lettera uccide.
Ogni giorno ha la sua pena. Nell’ordine pragmatico, certo occorre un’agenda su cui si appuntano le cose da fare. Ma l’ordine della vera vita, dell’esperienza umana, che è arte di vivere, la grande arte, non si può insegnare nelle scuole. Si può al massimo contagiare. È come un virus vivo che contagia l’allievo che si rende conto che là c’è qualcosa di vivo. L’educazione è e-ducere, da dentro, tirare fuori quello che ardentemente stava dentro il cuore.

Parlando di vita vissuta, allora, come si avverte questo tema della verità a partire dal contesto asiatico, al quale lei appartiene? Si può ancora, a suo parere, e come, essere cattolici, o essere chiesa, oggi, in Asia?

Una volta, Paolo VI, in un’udienza privata, mi chiese cosa stessi facendo nella mia diocesi in India, ed io gli risposi: «mi domando se per essere cristiano si debba essere spiritualmente semita e intellettualmente greco». Allora, e ancora oggi, se non si è spiritualmente semita e intellettualmente greco non si capisce nulla del cristianesimo. Il cristianesimo risulta esterno, artificiale, non connaturale a due terzi del mondo, che devono essere, per così dire, ‘circoncisi’ nella mente, per essere cristiani; il loro essere cristiani, cioè, non può essere spontaneo. La grande sfida del terzo millennio cristiano è dunque quella di essere veramente cattolici – cioè universali – il che vuol dire non avere una dottrina, che è talora necessaria, ma non è certo universale. Per avere l’universalità del cristianesimo, si richiede una kenosi, uno svuotamento intellettuale, ed è questo che fa paura. Ma, come le ho già detto, quando Abramo non sapeva dove andare, sapeva però che era la voce di Dio a guidarlo.

La via della teologia per il nuovo millennio può essere dunque trovata in una prospettiva contestualista? Una pluralità di teologie, per così dire, come una teologia cattolica asiatica, una teologia cattolica sudamericana, una teologia cattolica africana, che conservino ciascuna il proprio linguaggio, che siano per una volta tutte diversamente universaliste nell’affermazione di Cristo?

Anzitutto, io non userei la parola “teologia”: questa parola è già un po’ tendenziosa. E lo è, soprattutto, se intendiamo logos come razionalità. Logos nel senso più autentico vuol dire parola, vac in sanscrito, e non vuol dire razionalità né esclusivamente intelligibilità. La traduzione classica che viene da Aristotele, dell’uomo come animale razionale non dice tutto quello che dice l’originale greco. Per Aristotele, testualmente, l’uomo è ton zoon logon echon [7]. L’animale nel quale il logos transita. L’uomo non è dunque il possessore del logos, meno ancora è l’animale razionale. Egli è quell’essere vivente in cui transita la parola, perché la parola non la si può cogliere, la parola è tale quando si parla, la parola è tale quando qualcuno la ascolta. Il ruolo che nella mentalità greca ha la vista, nella mentalità indiana è assunto dall’ascolto: śruti non significa rivelazione, ciò che viene rivelato, bensì ciò che viene ascoltato. Per ciò dobbiamo imparare, penso, gli uni dagli altri. Ogni affermazione, anche la mia, è limitata. E per capire perfettamente dobbiamo affrontare questo “salto”, questo capovolgimento, di cui parlava anche Nietzsche con la propria «transvalutazione di tutti i valori» (Umwertung aller Werten). Non si deve separare mai l’amore dalla conoscenza.

Lei vede una molteplicità di poli, comunque, per questo ascolto della parola, per questo «imparare gli uni dagli altri» di cui ha parlato?

Neppure, a ben vedere. Quando si ha ancora una visione monocromatica si vedono il verde, il blu, il rosso… ma non si gode dell’arcobaleno. Si può forse, in quel primo caso, scrivere un’intera tesi su ognuno dei colori. Al contrario, in questo Blick, in questa visione mistica, del “terzo occhio”, non è questione di fare una sintesi. In Occidente siamo troppo giansenisti e troppo puritani e abbiamo perso il godimento della pluralità dei colori; la sinfonia dei colori non deriva però dalla somma dei colori. Anche nella musica, se si fa un’analisi puntuale delle diverse partiture, non si gode affatto della musica. Per avere il vero godimento e la vera conoscenza della musica la si deve fruire nella sua armonia, non nelle sue singole parti. Ed è proprio questa visione olistica della realtà quello che un po’ ci manca.

Un ultimo aspetto che mi preme è d’impatto molto pragmatico, politico, di utilità e di esigenza immediata: diversi anni fa, ormai, lei proponeva una definizione del Dharma in vista della dichiarazione dei diritti umani a partire da un contesto indiano, locale [8]. Mi domando, e le domando, allora, come può il pluralismo religioso, dato di fatto della nostra realtà attuale, oltre a non confliggere in uno scontro di civiltà, farsi via percorribile perché da tutte le culture provenga un anelito all’uomo, ad un umanesimo, che possa essere in questo senso una nuova unità, in cui tutti si riconoscano?

Devo dire che ho, al tempo stesso, una certa allergia verso l’unità: la Trinità non è unità, e – analogamente – non si tratta di giungere all’unità di tutte le religioni. Non si tratta neppure di pervenire all’unità di tutta l’umanità, o dei diritti umani attraverso un loro comune denominatore. È questione invece di giungere ad un’armonia tra le diverse concezioni dei diritti umani. Quella della dichiarazione è una formulazione molto particolare – vecchia di due secoli – della dignità dell’uomo. Occorre trovare questa armonia, che non è cosa razionalizzabile. L’armonia non si trova infatti con la ragione; essa implica altro, che non è nemmeno la soggettività. Il dilemma stesso tra oggettività e soggettività non è un paradigma universalizzabile. Le cose stanno qui al di sopra della dialettica soggetto-oggetto. Vi sono altre forme di conoscenza, tuttavia, che sono al di sopra di questa dialettica. E questo ancora ci manca. Questa a mio parere è la grande sfida, che può essere anche una benedizione del momento attuale, il frutto collaterale della globalizzazione, per cui ci rendiamo conto che non possiamo più vivere, intellettualmente parlando, con gli strumenti di una sola cultura.


Intervista rilasciata il 13 settembre 2006


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[1] Il 13 settembre 2006 Raimon Panikkar è stato ospite, a Bologna, della Fondazione per le Scienze religiose, per prendere parte al ciclo delle Lezioni UNESCO “Giovanni XXIII ” sul pluralismo religioso e la pace. Il testo della lezione e una rassegna stampa sono leggibili presso il sito della Fondazione: www.fscire.it.
[2] Per teologia delle religioni si intende una specifica disciplina teologica nata negli anni Sessanta del secolo scorso, che intende dare una risposta positiva al significato delle religioni mondiali nell’orizzonte della storia della salvezza, da un punto di vista, pertanto, dogmatico, di fede. Si confronti per questo inizio H.R. SCHLETTE, Le religioni come tema della teologia, Morcelliana, Brescia 1968.
[3] R. PANIKKAR, The Pluralism of Truth, «World Faith Insight», 25/1990, pp. 7-16.
[4] Cfr. H. KÜNG, Per una teologia ecumenica delle religioni. Tesi di chiarimento, «Concilium», 1/1986, pp. 161 ss.
[5] Per i dettagli, mi sia permesso rimandare a G. ZAMAGNI, La teologia delle religioni di Hans Küng. Dalla salvezza dei non cristiani all’etica mondiale (1964-1990), EDB, Bologna 2005, pp. 72-85.
[6] R. PANIKKAR, Die existentielle Phänomenologie der Wahrheit, «Philosophisches Jahrbuch der Görres-Gesellschaft», 64/1956, pp. 27-54.
[7] Cfr. ARISTOTELE, Politica, 1253a 9-10.
[8] R. PANIKKAR, È universale il concetto di diritti dell’uomo?, «Interculture», 82-83 (1984), pp. 3-26; ma cfr. anche R. PANIKKAR, I Diritti dell’Uomo sono una nozione occidentale?, «Interculture», 2006/5, pp. 21-57.
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