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Musica della verità.
La V Sinfonia di Shostakovich, tra etica ed estetica

Guido Alici
 
«Poiché nell’arte non abbiamo a che fare
con un gioco meramente piacevole o utile,
ma … con un dispiegarsi della verità»
.

(G.W.F. HEGEL, Estetica, III)



Un centenario “minore”?

Se il profilo netto di Mozart si staglia sulle stagioni concertistiche, come pure capitalizza le attenzioni memoriali dell’anno solare in corso, non va per questo sottinteso un altro centenario memorabile, ovvero il secolo che ci separa dalla nascita di Dmitrij Dmitrevich Shostakovich[1](Pietroburgo 1906 - Mosca 1975). Figura paradigmatica del sinfonismo novecentesco, artista di solida formazione accademica (Glazunov, tra gli altri insegnanti), Shostakovich riesce ad incarnare al meglio – molto più dello stesso Mozart[2]– il prototipo del musicista “puro”, “assoluto”, e questo (nonostante alcuni lavori teatrali, la musica vocale e per il cinema) in pieno territorio post-romantico e post-tonale.
La stessa vicenda biografica del compositore russo ci aiuta a delineare un quadro esemplare, sia pure ristretto, del rapporto fra musica e “contesto”, proprio in virtù del suo controverso parallelismo con la vicenda storica più grande (in questo caso la “palingenesi” sovietica); mentre la “storia” intermedia della Sinfonia n°5 (1937) in Re minore, Op. 47, composizione quanto mai emblematica del suo catalogo, ci permette di indicare, in via del tutto sommaria, una modestissima ipotesi ermeneutica in merito.
Pochi casi nella storia della musica, come quello della quinta Sinfonia, hanno saputo esplicitare altrettanto drammaticamente il nodo irrisolto fra creazione artistica e àmbito “politico”. Il dilemma del rapporto fra “artista” e “società borghese” (rappresentato così bene, ad esempio, dal caso tutto “romantico” di Robert Schumann), è una costante con cui l’antropologia di età moderna comincia a fare i conti, partendo proprio dalla Rivoluzione. Chiusa la parentesi millenaria del “mecenatismo” temporale o “privatamente” secolare, la questione della “funzione” e della “funzionalità” del musicista trova una specie di legittimazione programmatica nella critica e nella filosofia romantiche. Qui una mole di interpretazioni ricostruisce le fila del dibattito, suggerendo l’ipotesi di associazioni valoriali (in senso “nazionale”) o più spesso strategiche (vedi il binomio “musica-letteratura”), sempre all’insegna, comunque, di una certa “mistica” della rivelazione musicale, che specifica (quando non emargina) il ruolo dell’artista. Tutto sommato, il XIX secolo vive secondo ragione il rapporto con la musica, quando invece le ideologie di massa del '900, sostituendosi più o meno subdolamente alle strutture “mecenatiche” di una volta, non faranno altro che traslare il dibattito direttamente sul piano dello scontro. In questa congiuntura sfavorevole, quindi, si inserisce il paradigma di Shostakovich, fornendo involontariamente un modello e un precedente, confermando – se si vuole, nonostante tutte le controversie del caso – l’attitudine ancora una volta metafisica della musica; una riaffermazione della verità intesa non più come rivelazione, ma come reazione “disperata” alla non-verità dei sistemi totalitari.


Etica


«Sebbene la sua formazione artistica sia avvenuta per intero entro il clima della rivoluzione […], nemmeno Shostakovich andò esente da aspre censure di natura ideologica, in particolare per l’opera Lady Macbeth di Mzensk (1934), il cui successo durò un anno, dal febbraio 1935 al 29 gennaio 1936, giorno in cui la “Pravda”, con un improvviso mutamento di rotta, accusò l’opera di “puro formalismo piccolo-borghese” […]. Il compositore ritirò allora la sua quarta Sinfonia che si stava provando, e con la quinta diede inizio alla sua seconda maniera, rispettosa delle prescrizioni di stato»[3].


Questo sunto implacabile di Massimo Mila ci aiuta ad inquadrare e svolgere la storia della quinta Sinfonia, pure senza indulgere troppo nella codificazione politica del musicista. I confini precisi di tale coabitazione sono tutti da indagare a fondo ed esulano ovviamente dagli intenti di questo intervento; ma la circostanza particolare della stroncatura governativa (si pensa che dietro l’articolo della «Pravda» ci fosse direttamente la mano di Stalin) e i suoi riflessi sulla composizione della sinfonia sono particolarmente chiari e inequivocabili. Shostakovich soffrì in modo del tutto singolare l’intervento diretto della politica sulla sua musica, che andava pesantemente a offendere, in più, la “gratuità” del suo servizio alla nazione (l’artista rimarrà in Unione Sovietica nello stesso tempo in cui ad esempio Prokofiev, dal 1918 al '27, preferirà “fuggire” negli Stati Uniti[4]). Il compositore, allora, viene totalmente investito dal “terrore” staliniano, tanto da arrivare a vivere – come si dice – con una valigia sempre pronta in caso di eventuale deportazione “notturna”; questo, dunque, il clima desolato che fa da sfondo all’opera.
Lasciando da parte la dimensione biografica, è possibile riflettere, in particolare, sul senso “esteriore” dell’adeguamento ai moniti di regime. Le critiche mosse dall’articolo citato (Caos invece che musica) si riferivano soprattutto alle «“dissonanze volute”, il “confuso accavallarsi dei suoni” e soprattutto la deliberata “volontà di allontanarsi quanto più possibile dall’opera classica”»[5]. È forse quest’ultima considerazione a muovere il lavoro di “riforma” per la nuova sinfonia; difficilmente, infatti, l’artista poteva avallare un giudizio così approssimato e ingerente, come quello sulle sue convinzioni armoniche. Da qui, Shostakovich preferisce puntare su una riforma del “contesto”, piuttosto che dei “contenuti”; in questo senso il “contenitore” sinfonico, col suo intatto potenziale retorico, poteva essere facilmente piegato all’auspicato intento celebrativo, parenetico del regime. Tutto questo non senza una punta di sarcastica e svogliata accondiscendenza, laddove il senso dell’umorismo – stavolta sì, pienamente illuministico di Shostakovich – diventa una sorta di “voltairiana” arma di difesa nei confronti dell’illuminismo “deviato” («illuminismo stesso paralizzato dalla paura della verità»[6]) dell’ideologia sovietica. Per questo motivo le intenzioni celebrative si risolvono in parodia e automatismo[7], ancora prima che le controverse, “apocrife” memorie del compositore (raccolte da S. Volkov), ce lo possano luminosamente confermare:


«Ritengo sia chiaro a tutti quel che “accade” nella Quinta. Il giubilo è forzato, è frutto di costrizione […]. È come se qualcuno ti picchiasse con un bastone e intanto ti ripetesse: “Il tuo dovere è giubilare, il tuo dovere è giubilare…”, e tu ti rialzi con le ossa rotte, tremante, e riprendi a marciare bofonchiando: “Il nostro dovere è giubilare, il nostro dovere è giubilare»[8].


Al di là della psicologia compositiva (e, ancora una volta, della sfera propriamente personale), è comunque lecito pensare ad un uso lateralmente “neo-classico” della “forma sinfonia”, adombrato da Shostakovich proprio a partire dalla quinta. La traccia quadripartita è seguita più o meno fedelmente: Moderato iniziale, preludiante, a cui fa seguito lo scherzo, Allegretto (di solita ascendenza mahleriana), anziché un più prevedibile Largo, traslocato al terzo movimento; quindi perorazione finale con l’Allegro non troppo. Lo “strumentale” segue la divisione a 3 dei legni (ott., cl. in Eb e controfagotto), ma senza troppe concessioni “edonistiche” (eccettuando la celesta, e 34 bb. di piano). E proprio un uso topico della percussione (emblematica, in questo senso, la “marcetta” di metà I° movimento, sorta di pantomima “staliniana” di indubbio sapore bandistico), come della “fanfara” (sempre in forme archètipe, vedi le stravolte “quinte dei corni” nello scherzo), chiarifica la strategia nascosta – quasi eversiva – delle formule di “ri-uso” [es. 1], tanto simili quanto lontane dall’universo mahleriano[9]. La supposta adesione (o approssimazione) ad un’idea generale di “opera classica” si esplicita soprattutto in una imperterrita pulsazione della cadenza V-I (la “cadenza perfetta”), dalla “marcetta” succitata alla fine del I° mov., dallo “scherzo” ai timpani stranianti del finale, marcando la sinfonia con un sorta di istitutiva “cifra” beethoveniana[10].


Estetica

L’analisi svolta fino ad ora ci ha come tenuti all’interno di quelle “concessioni” formali – quasi una sorta di dimensione impersonale, e quindi “falsata” – attraverso cui Shostakovich trovò il modo di rapportarsi col mondo “esterno”, soprattutto a partire da questa sinfonia. La spersonalizzazione obbligata, in risposta ai dettami ideologici del regime, produce una scissione dolorosa (ma pure salvifica) fra verità musicale e sovrastrutture accessorie, che domanda incessantemente di reperire ancora, lungo la partitura, la “rivelazione” musicale im-mediata. E la voce del musicista si dispiega davvero come un’epifania della verità nei momenti in cui è inevitabile non sentire la forza dei contenuti, quasi depauperata nella forma, farsi strada attraverso la musica (una “rappresentazione” totalmente “altra” e “assoluta” della metafisica musicale, una musica, pure, che «ha preso su di sé tutta la tenebra e la colpa del mondo»[11]). In questi frangenti – crediamo – l’autore risolve positivamente la sua volontà di adeguamento alla critiche formali della “Pravda”, ristabilendo una sorta di ritorno all’archètipo, all’essenziale, ad un significante intelligibile che non rinunci per questo al significato, ma anzi lo trascenda ascetizzandolo.
E la volontà si palesa nel principio base della sinfonia, cioè quello di una polifonia essenzialmente “duale” (la polifonia occidentale delle origini, degli organa e del contra-punctum, ma anche delle invenzioni a due voci) o al massimo “ternaria” (il motetus di XIII e XIV secolo, come nelle sezioni iniziali del Largo), che permea tutta la costruzione sinfonica, dall’incipit “canonico” alle strutture armoniche del Moderato iniziale [es. 2] (l’armonia “melodica” di viole e violoncelli/c.bassi sul primo cantabile; le risposte imitate, rigorosamente a due voci, di corno e flauto); dal discantus fra violini e viole (al di sopra del tenor dei bassi) nel Largo [es. 3] alle “divisioni” in compagini, ancora duali/ternarie, del finale. Allo stesso tempo, non si può negare che diverse sezioni accordali (o meglio un “senso” armonico esteso) pervadano intere sezioni dell’opera, ma la matrice contrappuntistica del disegno – in cui è davvero difficile “barare” – ne costituisce essenzialmente la base. La disposizione armonica (una sorte di scrittura a “parti late” anche per la fase acuta dell’orchestra) e soluzioni accordali personalissime e moderne (l’accordo perfetto maggiore col basso di seconda, su tutte [es. 4]) sono punti altrettanto chiari in cui la voce intima di Shostakovich emerge in tutto il suo nitore “aereo”, algido, secco (il suono “scarnificato” dell’ultimo Mahler, il colore “denutrito” di Grosz, Kokosckha, Schiele).
La dignità musicale della quinta Sinfonia – in conclusione – ci ridona, al di là della sua vicenda storica, il profilo altrettanto netto di un compositore fondamentale per il '900, un compendio e un paradigma delle sue qualità particolari; un “testamento” altissimo della sua umanità e della sua onestà intellettuale. Sempre nelle citate memorie di Volkov, Shostakovich si riservava ancora il diritto/dovere di dire «tutto quello che sento il bisogno di dire»[12]attraverso la musica, e di farlo con coraggio:


«Ci occorre musica coraggiosa, e non uso questo aggettivo nel senso che le note debbano essere sostituite da dichiarazioni di principio, ma coraggiosa nel senso di veritiera. Una musica in cui il compositore esprima sinceramente i propri pensieri»[13].


Il richiamo a un servizio di “verità” da adempiere nei confronti della musica è pure implicito (sempre lungo le “memorie”) nei frequenti richiami alla moralità del “compositore” e del suo modus operandi, lontano da qualsiasi edonistica “per-versione”, come pure da ogni presunta velleità didascalica, entrambe non ascrivibili allo statuto particolare della musica stessa. Di fronte alla tensione fra impegno politico e sfacelo ideologico, fra musica rivelata e musica rivelatrice, fra etica ed estetica, Shostakovich offre comunque la considerazione sconsolata, “fortunatamente” inattuale del Largo: una riflessione musicale fra le più alte del secolo, una miracolosa “musica della verità”.






[1] Per comodità grafica, abbiamo preferito utilizzare (anche nelle citazioni) questa traslitterazione, attualmente invalsa anche al di fuori dei paesi di lingua anglosassone dove di norma è adottata.

[2] Campione, a sua volta, del teatro musicale, come pure del “momento” propriamente esecutivo, più che speculativo. Il binomio musica pura/impura è un’altra vexata quaestio musicologica; certo è che investe, con tutti i limiti del caso, due “categorie” critiche irrinunciabili.

[3] M. MILA, Breve storia della musica, Einaudi, Torino 1963, p. 402.

[4] Particolarmente interessante, in questo senso, la testimonianza di M. Rostropovich (allievo di Shostakovich al Conservatorio di Mosca) sulla opposta personalità dei due musicisti: «Shostakovich venerava Mahler […] e detestava Ciaikovskij. Prokofiev al contrario venerava Ciaikovskij e detestava Mahler» (The classic voice n. 32, Gennaio 2002, p. 48).

[5] M. MILA, Breve storia della musica, cit., p. 402.

[6] M. HORKHEIMER -  T.W. ADORNO, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1966, p. 6.

[7] A questo proposito si potrebbe ricordare Bergson: «Perché io ho dinanzi a me un meccanismo che funziona automaticamente; non è più la vita, è l’automatismo installato nella vita ed imitante la vita: è il comico» (H. BERGSON, Il riso, in Opere, UTET, Torino 1979, p. 24).

[8] S. VOLKOV, Testimonianza: le memorie di Dmitrij Shostakovich, Bompiani, Milano 1997, p. 281. Le memorie – secondo quanto afferma il giornalista russo che le ha raccolte – sono state redatte sulla base di bobine registrate in diversi colloqui avuti col musicista, quindi “approvati e sottoscritti” dallo stesso Shostakovich. Ma, al momento attuale, pesano ancora forti dubbi di autenticità. «È una rovente autobiografia che stride in modo clamoroso con l’ufficialità del personaggio. In un certo senso è un testo che saremmo lieti fosse stato veramente dettato o scritto dal musicista» (F. PULCINI, Shostakovich, EDT, Torino 1988, p. XVII).

[9] In Mahler, infatti, le formule di “ri-uso” (gli inserti popolari, infantili o “neo-classici”) rappresentano più un esito “patologico”, che non un’effettiva e programmatica volontà discorsiva.

[10] Simile all’uso “codificato” che lo stesso Shostakovich farà del motivo anacrusico di base (corrispondente alla lettera “V” dell’alfabeto Morse) nell’ultimo tempo della Sinfonia n°7, citando, forse, le celeberrime quattro note iniziali della quinta di Beethoven.

[11] T.W. ADORNO, Filosofia della musica moderna, Einaudi, Torino 1959, p. 130. Le parole di Adorno, in questo caso, sono riferite alla musica di Schönberg.

[12] S. VOLKOV, Testimonianza: le memorie di Dmitrij Shostakovich, cit., p. 296.

[13] Ivi, p. 297.

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