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Primo emendamento: la dignità del musicista
La situazione degli artisti e la loro condizione nella società di Franz Liszt

Stefano Ragni

«Carissimo amico e F.O., le mie cose mi hanno portato talmente lontano, in fatto di affanni e di preoccupazioni, che sono arrivato al punto di utilizzare queste due cedole di pegno pur di realizzare un po’ di denaro. La prego di usarmi questa cortesia, ma dovrebbe farlo proprio immediatamente. Perdoni se la secco in continuità, ma lei conosce la mia situazione. […] Eternamente il suo Mozart». Questa lettera, indirizzata alla fine di luglio del 1788 al fratello di loggia Michael Puchberg, è stata probabilmente scritta con la stessa penna con cui Wolfgang vergava le note immortali delle due ultime sinfonie, la K 550 e la Jupiter.
Questa desolata invocazione di Mozart, il più grande artista con cui il Settecento si apprestava a chiudere i battenti, è perfettamente indicativa della condizione dell’artista in una società in cui il modello aristocratico-feudale aveva stabilito invalicabili confini tra fruitori e produttori. Nessuno si sarebbe sognato di definire “opera d’arte” una sinfonia o un’opera lirica: si trattava di realizzazioni destinate al ricco mercato dell’intrattenimento, sostenuto da un mecenatismo più o meno consapevole. Chi riceveva era anche chi pagava, fosse ricco borghese o altero aristocratico: il produttore, il musicista, era considerato poco più che un artigiano, ma notevolmente meno di un cortigiano. Musicisti come Bach più di una volta hanno dovuto indossare livree di corte: Haydn, benché insignito della laurea honoris causa dell’Università di Oxford, stava in piedi alla mensa del suo signore, il pur illuminato principe Esterhazy. Mozart, a forza di baciare la mano al principe-vescovo di Salisburgo, si era consumato le ginocchia: quando pranzava a corte, il suo posto era alla tavola dei camerieri, e non certo tra le prime sedie. Allorché fu licenziato, con un poco dignitoso “calcio nel sedere” sferratogli dal conte Arco, Wolfgang iniziò il primo percorso di artista libero della storia della musica. Non che fosse il primo a guadagnarsi da vivere col mestiere delle note, poiché legioni di musicisti italiani e non avevano percorso l’Europa, da Lisbona a san Pietroburgo, alla ricerca del favore del pubblico dei teatri d’opera. Certo, saldamente in mano ad aristocratici, per non dire dei regnanti (ricordiamo solo la zarina Caterina II, il re di Prussia Federico II, i principi elettorali della Germania centrale, i patrizi veneziani, i nobili romani), ma dotati di meccanismi di consenso del pubblico, per cui il favore di una serata poteva decretare un successo duraturo e ben spendibile in un’oculata permanenza. Quel che colpisce, in Mozart, è la sua raggiunta consapevolezza di non essere più una semplice pedina del gioco degli aristocratici, ma di essere un organismo complesso e consapevole, dotato di una nuova e inedita dignità, quella di “artista”. Suona in tal senso un passo di una lettera indirizzata al padre, nel novembre del 1777, da Mannheim: «Non so scrivere in modo poetico: non sono un poeta. Non so distribuire le frasi con tanta arte da far loro gettare ombre e luci: non sono un pittore. Non so neppure esprimere i miei sentimenti e i miei pensieri con i gesti e con la pantomima: non sono un ballerino. Ma posso farlo con i suoni: sono un musicista».
Anche l’ingresso in massoneria di Mozart, seguito da quello, piuttosto sorprendente, del padre Leopold, notorio bigotto, per di più ex-discepolo dei gesuiti, va preso non tanto come un gesto simbolico di incremento filosofico e di consapevolezza politica, quanto piuttosto come una possibilità pratica di sedere, almeno in loggia, coi grandi dignitari dell’Impero, fossero anche personaggi di assoluto rango come il barone van Swieten. Tra le colonne, in un’ideale, filadelfica comunità di eguali, Mozart si sentiva apprezzato per la sua musica: e questo era un riconoscimento sociale impensabile nella dimensione esterna. Non a caso, a lavori chiusi, Mozart non tardava a rivelare quel che forse di più lo attraeva nella comunità degli Illuminati, ovvero la beneficenza dei fratelli più ricchi, richiesta con petulante assiduità, e con toni talvolta lamentosi. Che Wolfgang morisse in miseria è un luogo comune che è stato più volte sfatato: in realtà il divino fanciullo, forse mai maturato alle vere esigenze della vita, spendeva molto più di quel che guadagnava, e, in realtà, era sempre nelle angustie finanziarie.
Diverso il caso di Beethoven, rivoluzionario mancato, ammiratore di Napoleone quel tanto che bastava per caricare di sovversività una musica che già di per sé appariva di sconvolgente novità. Ben presto la protezione di illustri personaggi come l’arciduca Carlo e il principe Luigi Ferdinando di Prussia, ambedue condottieri di armate antifrancesi, fece rientrare gli ardori repubblicani. Si sa che, caso praticamente unico nella storia della musica, Beethoven fu mantenuto da una cospicua sovvenzione elargitagli stabilmente da un gruppo di aristocratici viennesi. Si trattava di un mecenatismo a “fondo perduto” che non richiedeva, in cambio, prestazioni, essendo il suo scopo solo quello di assicurare alla genialità di Beethoven di esercitare i suoi talenti senza preoccupazioni economiche di sorta. Che poi anche Ludwig spendesse in maniera superiore alle sue reali necessità, è indizio, come in Mozart, di una mancata oculatezza.
Paradigmatico il caso di Rossini che, partito dalla nativa Pesaro come figlio di un “capo scarico” denominato Vivazza e di una cantante dotata più di avvenenza che non di voce, moriva a Parigi come uno degli uomini più ricchi d’Europa. Il prestigio di una carriera condotta su ritmi senza respiro, la novità di una musica sulla quale si scaricavano tutte le nevrosi, ma anche tutte le esaltazioni dell’eclissi dell’era napoleonica, avevano prodotto un tipo di artista nuovo, un professionista in grado di misurarsi sul filo del successo valendosi unicamente delle risorse del suo ingegno. Quando il Figaro del Barbiere di Siviglia canta «Figaro qua, Figaro là», in realtà si deve pensare che è lo stesso Rossini a esaltare la ricetta del suo successo, ovvero quella ubiquità, quella capacità di penetrazione e di espansione che sono proprie di un vero mercante della musica, il primo “imprenditore” in grado di controllare tutta la filiera del prodotto, dalla scelta oculata del soggetto all’arruolamento dei cantanti, alla designazione del teatro, all’impatto sempre vincente col pubblico. Con sorprendente senso degli affari, quando Rossini sentirà che il pubblico italiano è saturo della sua musica, il successo andrà a cercarselo in Francia, in quella Parigi dove una ricca e agguerrita borghesia affrontava i cascami di un’aristocrazia pallidamente raccolta intorno ai suoi ultimi feticci.
Quando scoppierà la Rivoluzione del 1830 la musa rossiniana tace, stroncata da quella modernissima sindrome che oggi si chiama depressione. Allora non c’era diagnosi: se ne accertavano i “vapori” e si consigliavano salassi e acque minerali, ovvero una scorciatoia per l’aldilà. Ma intorno ai silenzi del Signore di Passy si erano innescati fermenti politici, sociali ed economici che anche in musica stavano producendo i loro effetti. Sotto i “cieli bigi di Parigi”, finalmente, una falange di pensatori, i sansimonisti, aveva cominciato a pronunciare parole nuove sul ruolo dell’artista nella società.
Approdato a Parigi dopo gli studi compiuti a Vienna, Liszt, ungherese per parte di padre, austriaco per retaggio materno, fu ampiamente coinvolto in tutti gli stimoli intellettuali prodotti dalla Rivoluzione di Luglio. Feroci studi di autodidatta, la conoscenza diretta di Lamennais, la frequentazione dell’ambiente intellettuale di Gorge Sand, il proficuo rapporto con una donna raffinata come la contessa d’Agoult, crearono una miscela di artista multiforme, virtuoso del pianoforte, ma anche musicista consapevole di poter pronunciare parole nuove nel vasto dibattito della cultura europea. Cattolico praticante al punto di aver espresso più volte la volontà di volersi rifugiare negli ordini sacerdotali, nazionalista ungherese irredento, convinto di reincarnare nella sua musica l’epos degli zingari rapsodi, Liszt assunse ben presto la inedita consapevolezza che un musicista come lui fosse in grado di assurgere alla statura di educatore dei suoi contemporanei, usando la tastiera del pianoforte come una novella lira di Orfeo: sulle sue corde avrebbero dovuto consonare le musiche necessarie all’evoluzione sociale e civile, all’altezza con le esigenze dei tempi. Di più, la necessità di spaziare, secondo l’ampio orizzonte delle sue acquisite conoscenze, su competenze linguistiche che raccoglievano sotto l’eco della musica la pittura di Raffaello, di Orcagna e di Salvator Rosa, la scultura di Michelangelo, la poesia di Dante, Petrarca e Tasso, eroi, semidei e personaggi simbolici come Prometeo, Orfeo e Amleto. Raccordare la musica con la cultura della sua età, un programma già formulato da Berlioz, assumeva il particolare carattere di una vera missione umanitaria: l’arte dei suoni, opportunamente sorretta da un progetto filosofico, poteva assumere i contorni ideali di un linguaggio universale. Aveva appena venti anni, Liszt, quando il 3 maggio del 1835 apparve il suo primo scritto sulla Gazette Musicale de Paris. Nelle Considerations sur la situation des artistes, Liszt, come ha giustamente notato uno studioso come Chantevoine, si sforza di offrire il suo contributo all’innalzamento di quell’edificio sociale di cui tanto aveva sentito parlare dai pensatori umanitari, Ballanche, père Enfantin, l’abate Lamennais. A lui, ungherese della diaspora, il più europeo e cosmopolita degli artisti del suono, sembra toccare il compito di precisare quale sarebbe stata la nuova funzione della musica europea e, di conseguenza, il ruolo del musicista “rinnovatore”. In tal senso va letto il primo articolo di quella autentica carta della dichiarazione dei diritti dei musicisti che sembra essere De la situation des artistes et de leur condition dans la societé. E dopo un’acuta introduzione su cosa possa e debba intendersi per condivisione di valori comuni in una comunità politica consapevole di sé stessa e dei propri valori, Liszt enuncia la metodologia delle sue riflessioni: «Ma il problema della condizione degli artisti (così come io lo concepisco) è collegato per tanti aspetti ai problemi più importanti della società stessa, che è impossibile sollevarlo senza affrontare contemporaneamente delle questioni che a prima vista e a chi è poco abituato a cogliere il concatenamento di un certo ordine di idee possono sembrare estranee».
Per dibattere il problema, sostiene Liszt, è necessario collocare il profilo connotativo di coloro che vengono definiti “artisti” all’interno di una grande «sintesi religiosa e filosofica». Con questa espressione il musicista magiaro si trova a consonare all’unisono con un altro grande pensatore europeo che in quello stesso momento, nella clandestinità di Grenchen, stava compilando un piccolo opuscolo dall’emblematico titolo di Filosofia della musica. Nel piccolo villaggio del cantone di Bienne, a pochi chilometri dalle alture del Jura, Giuseppe Mazzini, esule amorevolmente accolto dalla famiglia Dupont, scriveva le circa quaranta pagine che sono le prime e uniche riflessioni che un filosofo e uomo politico italiano abbia dedicato alla musica. Operando da politico, non già da melomane esegeta, il genovese parlava senza mezzi termini di sollevare la musica dal limbo dell’utilitarismo edonistico a cui l’aveva condannata un pubblico distratto e superficiale. E anche per Mazzini la musica poteva trovare un’adeguata collocazione in una società più consapevole dei suoi valori, solo se attratta e coinvolta nella centrifuga del progresso, vale a dire in quelle che definiva la «sintesi europea». Liszt che, probabilmente non conobbe mai lo scritto mazziniano, pubblicato infatti nell’estate del '35 sulle colonne del “L’Italiano”, un giornale della clandestinità in esilio, nel suo citato “primo articolo” descrive la metodologia delle successive pagine che compongono il lungo e ben sorretto saggio: si tratta di definire con inedita esattezza quale sia la situazione degli artisti nell’ordine sociale attuale, in particolare i rapporti di indole politica e religiosa tra i singoli individui e la collettività. Descrivendo i dolori di un’umiliante subalternità a cui i musicisti sono sempre stati soggetti, e puntando contro l’iniquità oppressiva di chi li voleva solo oggetti di una fruizione piacevolmente edonistica, si compie il primo passo per raccogliersi sullo slancio successivo, che è quello concernente l’avvenire. Si tratta dunque di far emergere quell’artista-sacerdote già profetizzato dal Flauto Magico di Mozart, l’uomo riconciliato con la Divinità: lui sarà il nuovo tramite di una riscoperta religione dell’Umanità. È necessario, allora, rendere consapevole il corpo socialmente compatto dei cittadini di chi siano questi nuovi artisti-angeli: «far sapere al pubblico, alla società sbadata e materialistica, a questi uomini e a queste donne che noi divertiamo e che comprano le nostre derrate, da dove veniamo, dove andiamo, che cosa abbiamo intenzione di fare, chi siamo, infine! Chi sono questi uomini d’eccezione, che sembrano scelti da Dio stesso per testimoniare i più grandi sentimenti dell’umanità e per esserne i nobili depositari… Questi uomini predestinati, folgorati e incatenati, che hanno rapito al cielo la fiamma sacra, che sono capaci di dare vita alla materia, forma al pensiero e che, realizzando l’ideale, ci trasportano attraverso invincibili movimenti di simpatia all’entusiasmo e alle visioni celesti…questi iniziatori, questi apostoli, questi sacerdoti di una religione ineffabile, misteriosa, eterna, che incessantemente nasce e cresce in tutti i cuori… Oh, poter fare tutto questo, dire e gridare tutte queste cose che già gridano da sole, in modo che anche i più sordi siano costretti a sentirle: questo sarebbe sicuramente un compito bello e nobile da assolvere». Il linguaggio, nebuloso e mistico, proviene da Lamennais, ed è lo stesso che troviamo tra le pagine mazziniane. Non a caso la Filosofia della musica si chiude con l’invocazione ai musicisti considerati veri “recipiendiari di cavalleria”, ossia membri di un ideale ordine monastico di investitura militare che assume sul suo corpo la missione di glorificare la musica.

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