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La traduzione come modello etico-politico per la nuova Europa[1]

Domenico Jervolino


Queste riflessioni assumeranno come proprio punto di partenza la posizione esposta da Etienne Balibar nel suo libro Nous, citoyens d’Europe? Les frontières, l’État, le peuple[2]. Balibar, col quale ho avuto diverse occasioni di confronto e di dibattito in Italia e in Francia, e che ha anche collaborato con la rivista da me diretta “Alternative”, formula un’idea di cittadinanza europea concepita non come un dato acquisito o un semplice ideale, ma come un processo disseminato di ostacoli, che nello stesso tempo è necessario e straordinariamente incerto: una lunga marcia della quale occorre mettere in rilievo innanzitutto le contraddizioni, la cui risoluzione dialettica non è garantita da alcuna logica immanente alla storia. Noi ci troviamo, infatti, dopo la fine della sovranità nazionale classica (ma non delle identità nazionali che sono un dato con cui fare i conti), ma prima dell’inizio di una vera e propria sovranità post-nazionale, mentre la globalizzazione mette in crisi la nozione di sovranità in quanto tale.
In tale contesto non si tratta tanto di confidare nelle carte di diritti o nei compromessi istituzionali negoziati dai governi, quanto piuttosto nei processi sociali e politici che i cittadini europei saranno in grado di produrre essi stessi, in modo da determinare le condizioni di una nuova appartenenza. Questi processi avranno anche come risultato una espressione giuridica, ma si fondano essenzialmente sulle pratiche concrete che saremo riusciti a sviluppare. In un certo senso dobbiamo riuscire, come europei, a trasformare le nostre difficoltà e le nostre contraddizioni in ragioni di impegno positivo, in modo da determinare una nuova realtà. Balibar parla di «cantieri della democrazia», cioè di cantieri d’iniziativa transnazionali che rendano pensabile una cittadinanza europea, e indica quattro esempi: le lotte per la creazione di uno spazio giuridico europeo, più democratico di quelli nazionali; le lotte sociali e sindacali per la riorganizzazione del tempo di lavoro su scala europea; la democratizzazione delle frontiere e, infine, la traduzione come unica, possibile lingua dell’Europa.
Su quest’idea di traduzione egli ritorna nel suo nuovo libro L’Europe, l’Amérique, la guerre. Réflexions sur la médiations européenne[3].
Qui Balibar propone di nuovo un ruolo dell’Europa che parte dai suoi limiti e dalla sue contraddizioni: una realtà ancora indefinita, senza frontiere ben determinate, perché essa stessa è in fondo una frontiera. Una realtà nella quale molti vedono un argine in un mondo dominato da una sola superpotenza.
Eppure, la soluzione che può rilanciare un ruolo dell’Europa, di quest’Europa che non ha un’identità politica o istituzionale precostituita ma che deve costruirsi politicamente, non consiste nel contrapporsi da potenza a un’altra potenza (e ammesso che questa fosse la scelta, è facile immaginare che tale scelta prolungherebbe lo stato di guerra e potrebbe portarlo ad esiti disastrosi). Non è – evidentemente – la scelta opposta: proporsi come alleati fedeli o vassalli servizievoli. Lo scenario auspicato da Balibar – e che io sostanzialmente condivido – è al contrario quello di un rilancio dell’idea di un ordine pubblico internazionale, di disarmo progressivo e controllato, di negoziazione paziente dei conflitti regionali e, infine, di costruzione di un’area integrata euro-mediterranea che si contrappone all’idea di uno scontro di civiltà fra Occidente e mondo islamico.
Balibar propone di trasformare la debolezza dell’Europa in capacità d’iniziativa politica e culturale: una politique de l’im-puissance che io amerei rendere con il termine «politica di non-potenza». Si tratta di rimettere in questione il rapporto fra politica e potenza, tradizionalmente legata all’idea di un soggetto politico sovrano che fa pesare sugli altri le risorse che possiede. C’è un altro tipo di potere immaginabile ed è quello che suscita negli altri e in se stessi delle possibilità nuove, inedite, svolgendo un’azione rivolta in primo luogo verso gli altri, e che di riflesso si converte anche in una crescita per se stessi.
E questo novum storico sarebbe appunto quello di un’Europa che sceglie per se stessa il ruolo di «mediatore che svanisce» («the Vanishing Mediator», secondo una bella espressione del critico letterario Fredric Jameson[4]), di un’Europa che istruita dalla sua storia di guerre, di violenze, di dominazione su altri popoli del globo, usa la straordinaria ricchezza costituita dal suo patrimonio di culture, di lingue, la sua ricchezza plurale, come assunzione di un ruolo di mediazione, di traduzione, per favorire l’incontro fra le diversità di cui è ricco il mondo globalizzato, per cercare una misura di compossibilità, di convivenza e di comunicazione praticabili.
La traduzione diventa così un paradigma politico, non solo un rimedio imposto dalla necessità di comunicare comunque (anche il dominio impone una forma di comunicazione e la traduzione non è di per sé innocente). La traduzione, come sfida e come oggetto di una scelta etico-politica, diventa modello che contiene in se stesso un elemento di rispetto per le diversità, un elemento di ospitalità linguistica e non solo linguistica, ma anche, inevitabilmente, ospitalità a tutto campo e in senso pieno.
Negli ultimi anni il tema della traduzione è diventato un tema di riflessione filosofica, con cui si sono misurati autori come Gadamer, Ricoeur, Derrida, Eco e altri ancora. Essendo un campo di studi al quale mi sono dedicato, ho avuto altre sedi in cui approfondire questo aspetto. Qui mi interessano le implicazioni politiche, che sono ricche e feconde.
Scegliere il modello della traduzione significa scegliere la consapevolezza dell’imperfezione rispetto alla presunzione del sapere assoluto; ma significa anche impegnarsi in uno sforzo di fedeltà rispetto a ciò che viene tradotto, di attenzione e di apertura all’altro che si cerca di intendere e con il quale si cerca di comunicare di rispetto, attenzione, apertura nei confronti di tutti i partner del processo di traduzione.
Nell’agire politico questo equivale a rinunciare all’imposizione violenta della propria verità, a beneficio di una interazione dialogica fra i diversi punti di vista. Ma significa anche dare voce a chi non ha voce, o non l’ha mai avuta.
Non dimentichiamo, infine, che la traduzione o la traducibilità dei linguaggi (soprattutto con riferimento alla stratificazione sociale e al divario fra culture e linguaggi popolari e linguaggi colti) era un tema intuito da Gramsci. Per Gramsci la «filosofia della prassi» è chiamata a esercitare una capacità di traduzione e di messa in comunicazione fra i diversi linguaggi che il pensiero borghese non ha, e che il marxismo storico ha certamente perso e dovrebbe oggi recuperare.
Tornando a Balibar, non è certamente scontato che l’Europa unita assuma come linea politica quella che egli propone; mi pare però certo che la sua proposta abbia radici solide nella storia passata del vecchio continente, oltre che una capacità di assegnare a tale storia un futuro. Se un senso ha la costruzione europea, si tratta dell’assunzione dell’impossibilità di continuare una storie di guerre fra vicini, fra gli abitanti di una riva e di un’altra dello stesso fiume. Tardi è venuto il momento della saggezza, ma ormai sembrano distanti anni luce i tempi i cui inglesi e francesi, francesi e tedeschi, tedeschi e inglesi si massacravano vicendevolmente. Non si tratta di pacifismo astratto o romantico, ma di una dura lezione della storia che alcuni popoli della stessa Europa non hanno ancora appreso. Pensiamo a questo proposito ai Balcani, ma anch’essi sono giunti a un punto limite, oltre il quale c’è solo la distruzione di tutte le parti in causa. La pace e la necessità di convivere diventa quindi una necessità costitutiva e costituente per l’Europa. La traduzione come metafora della mediazione e della coesistenza fra le culture, fra popoli che parlano lingue diverse ma appartengono a una stessa umanità, diventa allora una strada obbligata e può rivelarsi una ricchezza inaudita. Può l’Europa praticare questa strada e utilizzare questa ricchezza di cui è depositaria per il mondo intero?
Il sogno kantiano di una «pace perpetua» diventerebbe una prospettiva realistica, estremamente difficile ma politicamente perseguibile, anche in un mondo che in tante sue parti e nel suo disordine complessivo sembra piuttosto hobbesiano. Ma anche per Hobbes non è possibile eternizzare lo stato di guerra. Pax est quaerenda.
La scelta è oggi fra accettare uno stato di guerra senza fine e senza vie di uscita o invece far lavorare «il mediatore che svanisce». Svanisce appunto quando ha raggiunto il suo scopo, quando una comunità mondiale si sarà costituita su basi più solide delle attuali, quando non ci sarà più bisogno di un mediatore, forse perché ce ne saranno tanti. Ma intanto una buona parte del lavoro sarà stato compiuto; cosa succederà dopo, non sta a noi dirlo.
La prospettiva di Balibar assicura quindi non la certezza del successo, e nemmeno quella della sopravvivenza dell’umanità di fronte ai rischi di un futuro oscuro e minaccioso, ma una ragionevole strada per costruire l’alternativa. «Un altro mondo è possibile», si diceva nei forum sociali di Porto Alegre, non «un altro mondo è assicurato». Ma quali sono le alternative che si contrappongono a questa strada, e dove portano?
Probabilmente non saranno le classi dirigenti che oggi governano l’Europa a far propria questa utopia concreta (per usare un’espressione di Ernst Bloch). Non si vede però perché non debbano e possano scegliere questo cammino e questa filosofia i movimenti, i nuovi intellettuali legati ai movimenti.
Lungo questa strada potremo non solo adempiere alla nostra vocazione umanistica di intellettuali europei, ma anche progredire nella ricerca di un fondamento nonviolento del legame sociale, contrapponendo all’homo homini lupus di Hobbes l’homo homini deus dell’antico poeta latino Cecilio Stazio.
Mi piace porre questa ricerca di un fondamento nonviolento del legame sociale sotto il segno di Ricoeur (scomparso il 20 maggio 2005): giunto ad un’età biblica di oltre novant’anni, egli ha fatto nel 2004 un nuovo dono ai suoi lettori con Parcours de la reconnaissance, un’opera che rappresenta un nuovo avanzamento di quella meditazione sulla condizione umana, ricca di saggezza e foriera di speranza, che rappresenta l’eredità più preziosa del filosofo francese[5]. In quest’opera Ricoeur lega il grande tema hegeliano della lotta per il riconoscimento reciproco dei soggetti con una riflessione sul dono.
Egli si richiama ad una nota corrente francese di studi antropologici e sociali, a partire dal fondamentale Essai sur le don di Marcel Mauss fino ad arrivare agli studiosi della scuola anti-utilitaria. Nelle società primitive il dono e il suo contraccambio generano una rete complessa di rapporti sociali. Il dono deve essere ricambiato, perché esso simbolizza una forza magica che deve essere fatta circolare. Questa tesi, secondo Ricoeur, condannerebbe il discorso sul dono a restare nell’ambito del pre-moderno. Ciò che invece va cercato è un senso non magico del dono, che è appunto il riconoscimento reciproco: io dono perché, donando, dono qualcosa di me stesso e mi aspetto di essere riconosciuto da colui al quale dono. Il dono è sempre simbolo, ma non più in senso magico, bensì di una umanità che si esprime nell’altro e in me, e nel nostro rapporto reciproco. Il dono esemplare, allora, è quello di ciò che non ha prezzo, come faceva Socrate che, a differenza dei sofisti, insegnava gratuitamente la verità che non ha prezzo[6].
Inserendomi a mia volta in questa linea di pensiero, concluderei dicendo che un momento fondamentale e fondante del legame sociale è il dono delle lingue, che ci consente di divenire parte del consorzio umano nella duplice forma del dono della lingua materna e del dono reciproco delle lingue che si realizza nella traduzione[7].

djervol@tin.it


[1] Testo dell’intervento pronunciato in occasione del convegno organizzato all’Università di Sofia, in collaborazione con l’Istituto Italiano di Cultura, su L’integrazione europea dal punto di vista della filosofia (10-11 giugno 2005).

[2] La Découverte, Parigi 2001.

[3] La Découverte, Parigi 2003.

[4] The Vanishing Mediator; or Max Weber as Storyteller (pubblicato nel 1973 e riedito nel volume The Ideologies of Theory, University of Minnesota Press, Minneapolis 1988).

[5] Cfr. P. RICOEUR, Parcours de la reconnaissance, Stock, Parigi 2004 (ora in  traduzione italiana presso Cortina, Milano 2005).

[6] Cfr. M. HENAFF, Le prix de la vérité. Le don, l’argent, la philosophie, Seuil, Parigi 2002 (in via di traduzione presso Città Aperta, Troina [Enna] 2006). 

[7] Ho sviluppato negli ultimi anni il tema della traduzione in più occasioni, tra le quali ricordo in particolare l’Introduzione (pp. 7-37) a P. RICOEUR,
La traduzione. Una sfida etica, Morcelliana, Brescia 2001 e il mio intervento al Convegno Castelli del gennaio 2004: Il dono delle lingue, in Le don et la dette, textes réunis par Marco M. Olivetti, Cedam, Padova 2004 (ma marzo 2005), pp. 129-136.

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